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"Immigrati, vince chi arruola i talenti", di Marco Sodano

C’è immigrato e immigrato: c’è Enrico Fermi, per dire, e il padre di Al Capone. Con la complicazione che quando Enrico Fermi sbarcò negli Stati Uniti era già un fisico di fama internazionale, mentre Gabriele Caponi – il padre di Al – si presentò a Ellis Island a chiedere il visto di ingresso negli Usa da sconosciuto qualunque in mezzo a migliaia di sconosciuti. Il visto fu concesso, l’impiegato trascrisse male (Caponi diventò Capone) e gli Stati Uniti si misero in casa i genitori dell’uomo che sarebbe diventato il nemico pubblico numero uno. Qualche anno più tardi, d’altra parte, gli studi di Enrico Fermi avrebbero consegnato alle loro forze armate la bomba che ha risolto la seconda guerra mondiale e una lunga serie di studi sull’energia nucleare che negli anni del Dopoguerra hanno avuto una parte preponderante nella fortuna economica mondiale del Paese. Ci sono Stati che hanno fatto tesoro di questa lezione e oggi provano a garantirsi il massimo profitto dagli immigrati.

L’esempio del Canada Buon ultimo è arrivato il Canada, che fa concorrenza giusto agli Stati Uniti: ha messo a punto una serie di agevolazioni per i visti agli studenti più brillanti, e per la selezione dei migliori s’è affidata a una società di venture capital, ovvero a chi di mestiere seleziona gli investimenti migliori. Gli studenti migranti vengono valutati come una start up, insomma. Nel fiume di esseri umani che cercano di abbandonare le zone più povere del pianeta per ritagliarsi il diritto di cittadinanza nel ricco occidente ci sono senz’altro cervelli che hanno i numeri per disegnare le svolte del futuro. I Paesi che se li aggiudicano vinceranno: anche il padre di Steve Jobs era un immigrato. Il Canada offre sgravi fiscali, alloggio a prezzi calmierati, possibilità di studiare nelle migliori università. Basta allegare il curriculum giusto alla richiesta di visto. L’obiettivo è intercettare, – per esempio tra le migliaia di ragazzi che ogni anno abbandonano l’India dopo aver cominciato studi informatici -, quelli che covano l’intuizione giusta.

Chi si attrezza in Europa Anche la Francia fa lo stesso, e distingue i permessi di ingresso sulla base del cursus honorum da studente. Ci sono un permesso di soggiorno di tre anni dedicato a «competenze e talenti»,e uno scientifico. Terminati gli studi, Parigi proroga i permessi per fare in modo che gli studenti trovino un lavoroe si decidano a restare nel Paese.

L’Inghilterra distingue i migranti «altamente qualificati». Per loro ci sono permessi di ingresso su misura divisi per categoria: dai «talenti eccezionali» (persone che sono riconosciute come leader nella scienza i delle arti), agli «imprenditori» (persone che vogliono creare o rilevare un’attività commerciale nel Regno Unito) e gli investitori. Poi ci sono i «qualificati» , con un sistema a punti che comprende: sportivi, trasferimenti aziendali, personale religioso. Anche Spagna e Germania hanno messo a punto programmi di ingresso studiati con l’intento di favorire lo sbarco di eccellenze nelle università patrie. Anche così Madrid e Berlino sono diventate le mete preferite degli studenti migranti di tutto il mondo.

Quanto vale un cervellone Il gioco vale la candela. Secondo un calcolo all’ingrosso, la ventina di scienziati italiani trasferiti negli States negli ultimi dieci anni ha per un valore complessivo di 861 milioni di euro, circa 60 milioni a testa. Questo solo prendendo in considerazione i ritorni immediati dei brevetti cui hanno partecipato. Perché quando un’intuizione si trasforma in un’industria allora bisogna aggiungere al conto tutto l’indotto: posti di lavoro, entrate fiscali, consumi delle famiglie, tutto comincia a crescere in una giostra che produce ricchezza.

Nel mondo oggi ci sono quasi quattro milioni di studenti in trasferta. Il numero cresce esponenzialmente: la società globalizzata della rete, attraverso lo scambio continuo di informazioni, moltiplica continuamente le occasioni di contatto. I Paesi più lungimiranti si appostano lungo gli snodi di queste relazioni e provano a intercettare il meglio. L’Australia accoglie da anni solo le persone di cui pensa di aver bisogno, molti Paesi africani fanno ponti d’oro per richiamare in patria i loro figli cresciuti (ed educati) nelle università europee e americane per sfruttare in patria le conoscenze che hanno acquisito. Una vera miniera di talenti per Paesi che spesso sono impegnati nella costruzione di un apparato amministrativo e imprenditoriale moderno.

Le scuole italiane L’Italia ha ottimi numeri per attirare gli studenti che vagano per il mondo (i Politecnici di Milano e Torino sono mete ambitissime), ma offre poche attrattive una volta terminati gli studi. Siamo un Paese che garantisce poche occasioni a fronte di costi piuttosto alti: il mercato del lavoro è immobile, la fiscalità è tra le più alte del mondo. Abbiamo, è vero, uno dei migliori sistemi sanitari, ma i giovani pensano di non averne bisogno e non lo mettono in conto al momento di fare le loro scelte. Il rischio è che di tutta questa giostra ci limitiamo a incassare qua e là qualche retta universitaria, un po’ di abbonamenti ai mezzi pubblici e qualche anno di affitto di un monolocale.

Questo modo di pensare, però, rischia di rivelarsi gretto e anche un po’ meschino. Davvero abbiamo lo stomaco di andare a proporre un test di ammissione ai disperati che approdano mezzi morti di sete a Lampedusa dopo aver traversato il Mediterraneo su un barcone? E cosa facciamo di chi non lo supera? La concorrenza è una bella cosa, la discriminazione – sia pure quella basata su una valutazione onesta delle capacità personali – un po’ meno.

La Stampa 07.10.12

"Immigrati, vince chi arruola i talenti", di Marco Sodano

C’è immigrato e immigrato: c’è Enrico Fermi, per dire, e il padre di Al Capone. Con la complicazione che quando Enrico Fermi sbarcò negli Stati Uniti era già un fisico di fama internazionale, mentre Gabriele Caponi – il padre di Al – si presentò a Ellis Island a chiedere il visto di ingresso negli Usa da sconosciuto qualunque in mezzo a migliaia di sconosciuti. Il visto fu concesso, l’impiegato trascrisse male (Caponi diventò Capone) e gli Stati Uniti si misero in casa i genitori dell’uomo che sarebbe diventato il nemico pubblico numero uno. Qualche anno più tardi, d’altra parte, gli studi di Enrico Fermi avrebbero consegnato alle loro forze armate la bomba che ha risolto la seconda guerra mondiale e una lunga serie di studi sull’energia nucleare che negli anni del Dopoguerra hanno avuto una parte preponderante nella fortuna economica mondiale del Paese. Ci sono Stati che hanno fatto tesoro di questa lezione e oggi provano a garantirsi il massimo profitto dagli immigrati.
L’esempio del Canada Buon ultimo è arrivato il Canada, che fa concorrenza giusto agli Stati Uniti: ha messo a punto una serie di agevolazioni per i visti agli studenti più brillanti, e per la selezione dei migliori s’è affidata a una società di venture capital, ovvero a chi di mestiere seleziona gli investimenti migliori. Gli studenti migranti vengono valutati come una start up, insomma. Nel fiume di esseri umani che cercano di abbandonare le zone più povere del pianeta per ritagliarsi il diritto di cittadinanza nel ricco occidente ci sono senz’altro cervelli che hanno i numeri per disegnare le svolte del futuro. I Paesi che se li aggiudicano vinceranno: anche il padre di Steve Jobs era un immigrato. Il Canada offre sgravi fiscali, alloggio a prezzi calmierati, possibilità di studiare nelle migliori università. Basta allegare il curriculum giusto alla richiesta di visto. L’obiettivo è intercettare, – per esempio tra le migliaia di ragazzi che ogni anno abbandonano l’India dopo aver cominciato studi informatici -, quelli che covano l’intuizione giusta.
Chi si attrezza in Europa Anche la Francia fa lo stesso, e distingue i permessi di ingresso sulla base del cursus honorum da studente. Ci sono un permesso di soggiorno di tre anni dedicato a «competenze e talenti»,e uno scientifico. Terminati gli studi, Parigi proroga i permessi per fare in modo che gli studenti trovino un lavoroe si decidano a restare nel Paese.
L’Inghilterra distingue i migranti «altamente qualificati». Per loro ci sono permessi di ingresso su misura divisi per categoria: dai «talenti eccezionali» (persone che sono riconosciute come leader nella scienza i delle arti), agli «imprenditori» (persone che vogliono creare o rilevare un’attività commerciale nel Regno Unito) e gli investitori. Poi ci sono i «qualificati» , con un sistema a punti che comprende: sportivi, trasferimenti aziendali, personale religioso. Anche Spagna e Germania hanno messo a punto programmi di ingresso studiati con l’intento di favorire lo sbarco di eccellenze nelle università patrie. Anche così Madrid e Berlino sono diventate le mete preferite degli studenti migranti di tutto il mondo.
Quanto vale un cervellone Il gioco vale la candela. Secondo un calcolo all’ingrosso, la ventina di scienziati italiani trasferiti negli States negli ultimi dieci anni ha per un valore complessivo di 861 milioni di euro, circa 60 milioni a testa. Questo solo prendendo in considerazione i ritorni immediati dei brevetti cui hanno partecipato. Perché quando un’intuizione si trasforma in un’industria allora bisogna aggiungere al conto tutto l’indotto: posti di lavoro, entrate fiscali, consumi delle famiglie, tutto comincia a crescere in una giostra che produce ricchezza.
Nel mondo oggi ci sono quasi quattro milioni di studenti in trasferta. Il numero cresce esponenzialmente: la società globalizzata della rete, attraverso lo scambio continuo di informazioni, moltiplica continuamente le occasioni di contatto. I Paesi più lungimiranti si appostano lungo gli snodi di queste relazioni e provano a intercettare il meglio. L’Australia accoglie da anni solo le persone di cui pensa di aver bisogno, molti Paesi africani fanno ponti d’oro per richiamare in patria i loro figli cresciuti (ed educati) nelle università europee e americane per sfruttare in patria le conoscenze che hanno acquisito. Una vera miniera di talenti per Paesi che spesso sono impegnati nella costruzione di un apparato amministrativo e imprenditoriale moderno.
Le scuole italiane L’Italia ha ottimi numeri per attirare gli studenti che vagano per il mondo (i Politecnici di Milano e Torino sono mete ambitissime), ma offre poche attrattive una volta terminati gli studi. Siamo un Paese che garantisce poche occasioni a fronte di costi piuttosto alti: il mercato del lavoro è immobile, la fiscalità è tra le più alte del mondo. Abbiamo, è vero, uno dei migliori sistemi sanitari, ma i giovani pensano di non averne bisogno e non lo mettono in conto al momento di fare le loro scelte. Il rischio è che di tutta questa giostra ci limitiamo a incassare qua e là qualche retta universitaria, un po’ di abbonamenti ai mezzi pubblici e qualche anno di affitto di un monolocale.
Questo modo di pensare, però, rischia di rivelarsi gretto e anche un po’ meschino. Davvero abbiamo lo stomaco di andare a proporre un test di ammissione ai disperati che approdano mezzi morti di sete a Lampedusa dopo aver traversato il Mediterraneo su un barcone? E cosa facciamo di chi non lo supera? La concorrenza è una bella cosa, la discriminazione – sia pure quella basata su una valutazione onesta delle capacità personali – un po’ meno.
La Stampa 07.10.12

"L’Imu deve tornare per intero ai Comuni", di Laura Matteucci

I Comuni sperano di ottenere modifiche alla disciplina dell’Imu a breve: l’obiettivo è che vengano introdotte nella legge di Stabilità. E dello steso avviso sembra essere anche il governo, il cui sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani ha infatti parlato di interventi «prima della fine dell’anno, e comunque in tempi rapidi». Sul piatto, innanzitutto, l’obiettivo che il gettito Imu rimanga interamente ai Comuni (ora la quota statale è del 50%). Come dice il presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio: «Sul tema dell’Imu ai Comuni non si discute, anche perché stiamo parlando di un’imposta comunale. Altrimenti, lo Stato la chiami col suo nome reale, una patrimoniale sugli immobili».

«Quello invece di cui si deve discutere – prosegue Delrio – sono i meccanismi di finanziamento del Fondo di riequilibrio, che serve ad aiutare i Comuni con poca capacità fiscale, secondo criteri che permettano di non lasciare indietro nessuno. Ovviamente il Comune che dovesse far ricorso al Fondo dovrà anche impegnarsi a migliorare la propria capacità finanziaria, avviando un percorso condiviso da tutti. Anche perché l’obiettivo di ogni Comune dev’essere in ultima analisi quello di arrivare alla piena autonomia finanziaria». Il Fondo ha, in sostanza, il compito di ridurre le sperequazioni tra territori. E sullo stesso tono è il commento del vicepresidente Anci, e sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo: «L’Imu deve tornare per intero ai Comuni già dal prossimo anno e su questo non retrocediamo di un solo millimetro. A parte le tecnicalità che il governo vorrà adottare, soprattutto per quanto riguarda il Fondo di riequilibrio, ricordo – afferma Cattaneo – che l’Imu, con il 50% di gettito ai Comuni e il 50% allo Stato, è un’imposta farraginosa e per l’Anci rappresenta, insieme al Patto di stabilità, una battaglia culturale per la piena autonomia e la responsabilità».

IL SALDO A DICEMBRE

Mentre la proroga al 31 ottobre dei termini per modificare le aliquote Imu è già stata decisa dal Consiglio dei ministri, («si trattava di un provvedimento necessario per valutare bene la situazione nelle casse dei Comuni, evitando così di fare bilanci fasulli», spiega sempre Delrio), le regole relative al funzionamento del Fondo sono dunque ancora da scrivere. A partire dalla proposta del sottosegretario Ceriani, secondo cui la quota oggi incassata dallo Stato dovrà confluire direttamente nel Fondo, il cui importo dovrà risultare invariato. L’Anci spingerà anche perché il governo faccia proprio il suggerimento di modificare i 500 milioni di taglio ai trasferimenti ai Comuni per il 2012, spostandoli verso il patto di stabilità o sul debito da coprire. «Questo produrrebbe un danno minore sui Comuni», dice infatti Delrio.
Si avvicina intanto il nuovo termine per modificare le aliquote Imu da parte dei Comuni. Con la prima tranche po- chi si sono tenuti sotto le 5 aliquote e le 3-4 agevolazioni.

CHIESA: NUOVO STOP

E a questo punto l’interrogativo è quanti Comuni si asterranno davvero dal far ricadere sull’Imu i costi dei tagli governativi ai trasferimenti per gli Enti locali. Il saldo dell’imposta, dopo l’acconto versato a giugno, dovrà essere versato entro dicembre.

Sul fronte dell’imposta municipale unica va ricordato anche lo stop del Consiglio di Stato al regolamento per la Chiesa. Perché, secondo i giudici, va oltre i poteri indicati dal decreto Libera-Italia con cui a inizio anno è stato disciplinato il regime di esenzione dall’imposta per gli immobili degli enti non commerciali. Il provvedimento, insomma, è andato oltre i margini di intervento consentiti al governo, e a questo punto per disciplinare la materia serve un provvedimento normativo differente. I giudici ricordano anche la procedura di effrazione già avviata nell’ottobre 2010 dall’Unione europea, secondo cui l’esenzione dalla vecchia Ici si configura come aiuto di Stato. Per Delrio, insomma, «la sostanza non può cambiare: la Chiesa dovrà pagare l’Imu». Si tratta di trovare lo strumento legislativo adeguato per regolare la questione. I parlamentari radicali, comunque, hanno già annunciato che si rivolgeranno alla Commissione europea «sollecitandola a procedere contro l’Italia e a richiedere agli enti ecclesiastici proprietari di immobili destinati ad attività commerciali di pagare l’Imu».

L’Unità 08.10.12

"L’Imu deve tornare per intero ai Comuni", di Laura Matteucci

I Comuni sperano di ottenere modifiche alla disciplina dell’Imu a breve: l’obiettivo è che vengano introdotte nella legge di Stabilità. E dello steso avviso sembra essere anche il governo, il cui sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani ha infatti parlato di interventi «prima della fine dell’anno, e comunque in tempi rapidi». Sul piatto, innanzitutto, l’obiettivo che il gettito Imu rimanga interamente ai Comuni (ora la quota statale è del 50%). Come dice il presidente dell’Anci e sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio: «Sul tema dell’Imu ai Comuni non si discute, anche perché stiamo parlando di un’imposta comunale. Altrimenti, lo Stato la chiami col suo nome reale, una patrimoniale sugli immobili».
«Quello invece di cui si deve discutere – prosegue Delrio – sono i meccanismi di finanziamento del Fondo di riequilibrio, che serve ad aiutare i Comuni con poca capacità fiscale, secondo criteri che permettano di non lasciare indietro nessuno. Ovviamente il Comune che dovesse far ricorso al Fondo dovrà anche impegnarsi a migliorare la propria capacità finanziaria, avviando un percorso condiviso da tutti. Anche perché l’obiettivo di ogni Comune dev’essere in ultima analisi quello di arrivare alla piena autonomia finanziaria». Il Fondo ha, in sostanza, il compito di ridurre le sperequazioni tra territori. E sullo stesso tono è il commento del vicepresidente Anci, e sindaco di Pavia, Alessandro Cattaneo: «L’Imu deve tornare per intero ai Comuni già dal prossimo anno e su questo non retrocediamo di un solo millimetro. A parte le tecnicalità che il governo vorrà adottare, soprattutto per quanto riguarda il Fondo di riequilibrio, ricordo – afferma Cattaneo – che l’Imu, con il 50% di gettito ai Comuni e il 50% allo Stato, è un’imposta farraginosa e per l’Anci rappresenta, insieme al Patto di stabilità, una battaglia culturale per la piena autonomia e la responsabilità».
IL SALDO A DICEMBRE
Mentre la proroga al 31 ottobre dei termini per modificare le aliquote Imu è già stata decisa dal Consiglio dei ministri, («si trattava di un provvedimento necessario per valutare bene la situazione nelle casse dei Comuni, evitando così di fare bilanci fasulli», spiega sempre Delrio), le regole relative al funzionamento del Fondo sono dunque ancora da scrivere. A partire dalla proposta del sottosegretario Ceriani, secondo cui la quota oggi incassata dallo Stato dovrà confluire direttamente nel Fondo, il cui importo dovrà risultare invariato. L’Anci spingerà anche perché il governo faccia proprio il suggerimento di modificare i 500 milioni di taglio ai trasferimenti ai Comuni per il 2012, spostandoli verso il patto di stabilità o sul debito da coprire. «Questo produrrebbe un danno minore sui Comuni», dice infatti Delrio.
Si avvicina intanto il nuovo termine per modificare le aliquote Imu da parte dei Comuni. Con la prima tranche po- chi si sono tenuti sotto le 5 aliquote e le 3-4 agevolazioni.
CHIESA: NUOVO STOP
E a questo punto l’interrogativo è quanti Comuni si asterranno davvero dal far ricadere sull’Imu i costi dei tagli governativi ai trasferimenti per gli Enti locali. Il saldo dell’imposta, dopo l’acconto versato a giugno, dovrà essere versato entro dicembre.
Sul fronte dell’imposta municipale unica va ricordato anche lo stop del Consiglio di Stato al regolamento per la Chiesa. Perché, secondo i giudici, va oltre i poteri indicati dal decreto Libera-Italia con cui a inizio anno è stato disciplinato il regime di esenzione dall’imposta per gli immobili degli enti non commerciali. Il provvedimento, insomma, è andato oltre i margini di intervento consentiti al governo, e a questo punto per disciplinare la materia serve un provvedimento normativo differente. I giudici ricordano anche la procedura di effrazione già avviata nell’ottobre 2010 dall’Unione europea, secondo cui l’esenzione dalla vecchia Ici si configura come aiuto di Stato. Per Delrio, insomma, «la sostanza non può cambiare: la Chiesa dovrà pagare l’Imu». Si tratta di trovare lo strumento legislativo adeguato per regolare la questione. I parlamentari radicali, comunque, hanno già annunciato che si rivolgeranno alla Commissione europea «sollecitandola a procedere contro l’Italia e a richiedere agli enti ecclesiastici proprietari di immobili destinati ad attività commerciali di pagare l’Imu».
L’Unità 08.10.12

"Onore al segretario rischia la trappola", di Federico Geremicca

Onore e complimenti a Pier Luigi Bersani, per il coraggio, la coerenza e la già nota generosità. Ma anche tanti auguri e in bocca al lupo a Pier Luigi Bersani, per aver deciso di rendere possibile una sfida, quella delle primarie, che ora rischia di trasformarsi in una trappola micidiale per lui ed il suo gruppo dirigente. E’ lui, infatti, l’uomo che nella competizione con Renzi e Vendola ha tutto da perdere e poco o niente da guadagnare; ed è lui, soprattutto, che – sceso in gara per conquistare lo scettro di candidato-premier – potrebbe uscirne senza più nemmeno i gradi di segretario.
Ma questi sono, diciamo così, i possibili effetti collaterali – non irrilevanti, certo – di un approdo che getta invece le premesse per una possibile iniezione di vitalità alla fiaccata democrazia italiana: milioni di italiani andranno ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra nel pieno di un crepuscolo etico e politico che – contemporaneamente – spinge milioni di altri ad annunciare che non andranno alle urne neppure per le elezioni vere.

Ogni iniziativa che tenti di riavvicinare alla politica cittadini nauseati da quel che leggono o vedono tutti i giorni in tv è – naturalmente – salutare e benvenuta. E questo vale, a maggior ragione, nel caso di primarie come quelle messe in cantiere dal Pd, che non saranno un giro di valzer ma un passaggio duro e aspro: capace, a seconda dell’esito, perfino di precipitare in una vera e propria scomposizione e rifondazione del campo riformista (ed è una svolta che molti elettori di centrosinistra auspicano da tempo). Dunque, proprio il carattere che potrebbero assumere queste primarie – con i rischi che nascondono – rende ancor più apprezzabile la rotta tenuta fin qui da Pier Luigi Bersani.

Ha accettato una sfida che, secondo lo Statuto del Pd, avrebbe incontestabilmente potuto rifiutare; da un certo punto in poi, è parso volere le primarie addirittura contro il parere degli stessi big che lo sostengono (da Bindi a D’Alema, passando per Veltroni e Marini); le regole che ha fissato – in parte ancora da definire – sono state accettate da Renzi, il che vuol dire che del suo potere di segretario ha approfittato poco o niente. Non è dunque sbagliato affermare che se le primarie si terranno, ciò accadrà – in larga parte – per merito del leader del Pd. Detto tutto questo, però, è da qui che cominciano i guai.

Pier Luigi Bersani, infatti, queste primarie può perderle per davvero: è una sensazione ormai largamente diffusa anche tra i suoi sostenitori. Se fossimo di fronte all’avvio di una regata, potremmo dire che Matteo Renzi è entrato nel campo di gara con le vele tese dal vento della voglia di ricambio (che non è liquidabile come antipolitica tout court) mentre il segretario è costretto ad un’andatura di bolina: avendo quel vento, insomma, che gli soffia contro. Renzi va illustrando, in giro per l’Italia, un programma assai semplice: in fondo, per ora si limita a dire «cari amici, eccolo il programma, sono io, mandiamo a casa chi ci ha portato fin qua». Bersani non può farlo, ed è un handicap non da poco: preannuncia una gara tutta in salita.

Sarà insomma una sfida dura per il leader del Pd, e questo rende ancor più significativo il fatto che l’abbia voluta lo stesso. Certo, ora i rapporti con i big della sua maggioranza (leader che giocano una partita per la sopravvivenza) non sono dei migliori. E infatti, col tono di chi vuol mostrarsi preoccupato, da qualche giorno vanno proponendo interrogativi micidiali: che succede se al primo turno delle primarie Renzi batte Bersani? Può restare segretario del partito un leader sconfitto dal voto dei suoi stessi iscritti ed elettori? «Sarebbe un problema», si rispondono da soli. In verità sarebbe un gigantesco problema: e Pier Luigi Bersani naturalmente lo sa.

Dicono che abbia voluto la sfida con Renzi per non trasformarsi nel simbolo del vecchio da «rottamare», per evitare che – di fronte a primarie negate – il sindaco di Firenze scendesse in campo con liste proprie, e per non restare prigioniero dei capicorrente della sua stessa maggioranza. Chissà se, in fondo, Bersani stesso non condivida il giudizio espresso ieri su di lui da Carlo De Benedetti: «E’ una persona equilibrata e saggia, ma deve scrollarsi di dosso una nomenklatura che lo ha condizionato e che è stata assolutamente negativa per il Paese». Riuscirà a farlo, lanciando segnali già nel corso della campagna per le primarie? Lo si vedrà. Da ieri, però, Bersani sa che se non ci proverà lui, potrebbe farlo qualcun altro: Matteo Renzi adesso è lì, pronto a sfruttare qualunque errore e qualunque timidezza. Uno stimolo non da poco a trasformare una semplice «resa dei conti» in una salutare (e indispensabile) rivoluzione…

La Stampa 07.10.12

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“NOMENKLATURA E DEMOCRAZIA”, di CURZIO MALTESE

LE PRIMARIE sono una faccenda troppo seria per lasciarle fare ai generali del Pd. Alla fine ha prevalso il buon senso e gli emendamenti anti-Renzi studiati dalla nomenklatura per complicare il voto con mene burocratiche sono stati cancellati. Quelle del 25 novembre rimarranno le primarie più libere e incerte della
storia. Per questo, le più partecipate dai cittadini. È la buona notizia, in tempi grami per la politica. Non ci fossero le primarie del Pd, l’intero sistema democratico sarebbe già crollato a pezzi sotto i colpi dell’antipolitica, sepolto dalla vergogna degli scandali.
La cattiva notizia è che i gruppi dirigenti del partitone ci hanno comunque provato a boicottarle nei fatti, dopo aver cercato invano di stroncarle sul nascere. A riprova dell’ormai incolmabile distanza di un pezzo di ceto politico dagli umori del Paese. Per mesi la nomenklatura aveva cullato l’idea di non farle proprio le primarie e non si era preoccupata delle regole. Per altri mesi ancora aveva comunque immaginato una vittoria di Bersani in assenza di veri rivali. Quando sul tavolo dei dirigenti sono arrivati i sondaggi che davano vincente Matteo Renzi oltre i quattro milioni di votanti, ecco scattare l’allarme. Passati in un attimo dalla sicumera della vittoria al panico della sconfitta, un percorso classico della sinistra italiana, i dirigenti hanno perso la testa e sono corsi allo stratagemma. Controlli, check in, registrazioni, varchi burocratici. Una serie di emendamenti fra il furbo e l’odioso che lo stesso presunto beneficiario, Pierluigi Bersani, ha chiesto infine di ritirare. Della complessa macchina messa in campo per scoraggiare il popolo degli elettori è sopravvissuto soltanto il divieto di votare al ballottaggio per chi non ha partecipato al primo turno. Ma è probabile che salti nella trattativa con Nichi Vendola, il quale ha già chiarito di voler concorrere a primarie democratiche e non a un reality show.
Pierluigi Bersani esce molto bene dall’assemblea del Pd. È stato il segretario, l’unico del gruppo dirigente ad aver sempre voluto primarie senza se e senza ma, a disinnescare la bomba confezionata dai soliti geniali strateghi dell’autodistruzione. Ma esce bene anche Matteo Renzi, che senza far polemiche si è limitato a incassare con un sorriso l’ennesimo favore elettorale. Sconfitti sono i vecchi dirigenti inventori dei paletti anti-Renzi, il cui terrore da rottamazione è ormai un dato quasi fisico, a giudicare dai discorsi urlati e stravolti di Bindi, Marini e Fioroni, per citarne alcuni di ieri.
Un giorno qualche specialista, ma uno bravo, dovrà pur spiegare la vocazione al suicidio della classe dirigente. Tutti i partiti lavorano per Grillo e la maggioranza del Pd si adopera da mesi per far vincere il rottamatore Renzi. Non passa giorno senza che un’intervista o una comparsata televisiva di qualche pezzo da novanta del Pd non ricordino all’elettore medio quanto sarebbe auspicabile un ricambio. In fondo è gente che faceva il ministro quando Barack Obama ancora faceva l’avvocato. Volessero davvero aiutare Bersani nella vittoria, dovrebbe semplicemente firmare una lettera di dimissioni dal seggio parlamentare. E invece eccoli lì a regalare al nemico centomila voti a botta tutte le volte che lo chiamano «il Grillo del Pd». Come fosse un handicap, di questi tempi.
Come Grillo, Matteo Renzi ha un unico argomento, il «tutti a casa»: ma i suoi avversari, invece di smontarlo, lo alimentano ogni giorno. Come Grillo, sa usare la Rete, è circondato da astuti consiglieri, bravo a rovesciare la frittata senza farsi accorgere, svelto nel pescare consensi a destra e a sinistra. Come Grillo, Renzi è peggiore di chi lo vota, o per meglio dire nel suo caso, ancora inadeguato a esprimere una novità sostanziale e non di facciata. Ma rappresenta comunque un’alternativa al già visto per un pezzo d’Italia vitale, moderna, sincera e onesta. Al contrario, Bersani è migliore della tradizione che incarna e l’ha dimostrato anche ieri, con la scelta di opporsi ai trucchi escogitati in suo favore e con un discorso tosto e convincente rivolto al paese reale e non al ceto politico. Sarebbe un’ottima cosa se gli apparati, le correnti, i gruppi di potere lo liberassero della zavorra di un appoggio controproducente e lo lasciassero da solo in campo contro il giovane rivale, liberi entrambi di giocarsi l’ultima carta del sistema democratico contro l’alta marea del populismo.

La Repubblica 07.10.12

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“E il segretario scarica i notabili”, di GOFFREDO DE MARCHIS

«NON userò nemmeno il simbolo del Pd. Nessun dirigente salirà sul palco con me. Non è una campagna del partito, sono primarie di coalizione per la scelta del candidato premier». La nomenklatura democratica interpreta con preoccupazione i ripetuti segnali di Pier Luigi Bersani.
ITONI, i bersagli sono diversi da quelli del rottamatore Matteo Renzi ma al fondo l’obiettivo è lo stesso: rivoluzionare il centrosinistra, cambiare i volti, i vissuti, la foto di famiglia. E liberarsi del peso di alcune lunghe e onorate carriere politiche. Lui da solo contro il sindaco di Firenze significa un duello senza la zavorra degli “oligarchi”.
Il primo appuntamento della campagna da candidato premier conferma questo indirizzo. Bersani partirà, con un discorso
sull’Italia, domenica prossima, il 14 ottobre, dal piazzale della stazione di servizio che fu di suo padre Pino, benzinaio e meccanico a Bettola, il paese a 33 chilomentri da Piacenza dove il segretario è nato 62 anni fa. «Questo sono io, questa è la mia storia», è il messaggio subliminale di una scelta sorprendente. Privata, quasi intima. «Si sarà capito che l’eccesso di personalizzazione nella politica mi infastidisce», diceva nell’intervista-biografia raccolta un anno fa da Miguel Gotor e Claudio Sardo. Ma cosa c’è di più personale di questo ritorno a casa, alle umili origini della sua famiglia? Cosa è cambiato da allora, nella strategia bersaniana? È cambiato tutto. C’è uno sfidante giovane e per niente sprovveduto. C’è una crisi
della politica che giocoforza investe chi quella politica l’ha interpretata, anche dalla parte della ragione. L’abbraccio a Bettola e ai primi passi è un altro segno che questa partita Bersani la vuole giocare in proprio. Che sono saltati i “patti di sindacato”, le alleanze interne.
I big del Pd lo sanno. Renzi fa comodo a Bersani perché diventa il parafulmine di un odio manifesto dei maggiorenti. «Il nemico è Renzi, non Vendola», sibila Massimo D’Alema a chi gli chiede un giudizio sulle primarie. Ne fa una questione personale e non ha tutti i torti: è dura essere dipinto come il male assoluto nei teatri pieni delle province toccate dal camper. Ma ora preoccupa anche l’atteggiamento di Bersani. «Spero che
vinca Pier Luigi, ma il giorno dopo Renzi non sarà cancellato. Rimarranno sul tavolo le sue battaglie, qualcuno sarà rottamato», spiega rassegnato un notabile. Sarà per primo il segretario a non accettare la cancellazione di un profondo ricambio. Una prova? Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, qualche giorno fa, è corso da lui per chiedergli conto di una proposta di legge firmata dal bersaniano Dario Ginefra che fissa, per i parlamentari, il limite inderogabile di tre mandati. «È una roba delicata, che faccio, procedo?». «Ma certo, andiamo avanti», ha risposto Bersani.
Con un rischio voluto e calcolato, Bersani può trovarsi davvero solo (e libero) nella sua corsa, i maggiorenti freddi e distanti. Il
presidente della Toscana Enrico Rossi si ribella alle aperture del segretario: «Non cediamo alla prepotenza di Renzi». Dopo nemmeno due ore di assemblea, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca lascia furente l’hotel Ergife: «Non commento questo orrore altrimenti sconfino nel codice penale e mi arrestano». Franco Marini non accetta l’ineluttabile esito: «Voto il cambio dello Statuto solo per disciplina ». Rosy Bindi si aggrappa, confortata dalle parole di Enrico Letta e di Maurizio Migliavacca, al filtro delle regole. Ma Bersani non si guarda indietro.
L’intesa di fondo con Renzi
non impedirà al segretario di condurre una campagna “aggressiva”. Il capo della sua comunicazione Stefano Di Traglia l’ha preparata nei dettagli. Sfidando il guru Giorgio Gori, con le armi più adatte a Bersani. Al format renziano che gira i teatri italiani recitando sempre lo stesso copione, verranno contrapposte 25 tappe con diversi canovacci. La scenografia sarà sempre reale: una fabbrica, una scuola, un centro di ricerca. Ogni volta si affronterà un tema nuovo. E i big, anche locali, sono pregati di accomodarsi non solo giù dal palco ma anche in fondo alla sala. In prima fila Bersani vuole i giovani dei circoli e delle associazioni. È la sua partita. La nomenklatura deve fare un passo indietro.

La Repubblica 07.10.12

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Bersani al Pd “adesso non ci ammazza più nessuno”, di Simone Collini

«È un piccolo capolavoro politico del segretario», dice Andrea Cozzolino giusto qualche minuto dopo che Pier Luigi Bersani va via dall’Ergife parlando dell’Assemblea nazionale come di un «capolavoro di democrazia». L’europarlamentare del Pd ha vissuto sulla propria pelle cosa significhino primarie senza regole, sa quanto sia insidioso il rischio di infiltrazioni da parte di elettori del centrodestra e quanto sia facile con contestazioni del giorno dopo far saltare tutto per aria. È successo a Napoli, l’anno scorso. E Bersani vuole non succeda anche il mese prossimo, per primarie che dovranno scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Per questo il leader del Pd ieri ha giocato la partita evitando da un lato di provocare una spaccatura interna al partito, ma assicurandosi dall’altro lato la possibilità di definire insieme alle altre forze della coalizione regole che mettano la sfida ai gazebo al riparo da infiltrazioni e contestazioni. Come? Prevedendo, come Bersani dirà agli altri partiti del centrosinistra, «meccanismi che distinguono il voto dalla registrazione» e che «salvo casi eccezionali» potrà votare al secondo turno soltanto chi si è iscritto (cioè ha firmato il manifesto pubblico a sostegno del centrosinistra) entro il giorno del primo turno.
Questo può voler dire che lo scontro con Renzi sulle norme è solo rinviato alla prossima settimana, quando Bersani per il Pd, Vendola per Sel e Nencini per il Psi sigleranno un accordo sulle regole per le primarie. Ma è un prezzo che il leader democratico è pronto a pagare, pur di garantire alla sfida ai gazebo la necessaria trasparenza e impedire l’incursione di “Batman” vari (riferimento al «campione di preferenze Fiorito»). Il primo passo c’è stato, altri seguiranno.

Ieri l’Assemblea nazionale del Pd ha dato il via libera all’albo pubblico degli elettori (ci si potrà registrare da 21 giorni prima del voto fino al giorno stesso della consultazione) e al doppio turno (nel caso nessun candidato ottenga il 50% dei voti il 25 novembre si andrà al ballottaggio tra i primi due la domenica successiva). È un cedimento da parte di Renzi, che voleva una sfida a un solo turno e nessun obbligo per gli elettori di iscriversi ad una lista consultabile.

Bersani ha non solo messo sul piatto una deroga allo statuto che consenta al sindaco di Firenze di correre, ma ha anche chiesto e ottenuto che gli emendamenti più indigesti per il «rottamatore» venissero ritirati, rinviando ogni decisione al tavolo della coalizione.

Dal fronte dei bindiani e degli ulivisti erano infatti arrivati documenti che chiedevano di sancire già ieri l’obbligo di registrarsi in luoghi diversi da quelli in cui si voterà e il divieto di votare al secondo turno per chi non si fosse registrato entro la domenica del primo turno. «I documenti presentati parlano già chiaro, dobbiamo discutere con la coalizione, quindi la mia indicazione è fermiamoci lì», dice Bersani prima che comincino le operazioni di voto. Marina Magistrelli e gli altri firmatari accettano di ritirare gli emendamenti.

Il coordinatore della campagna di Renzi, Roberto Reggi, che aveva definito quei documenti «una dichiarazione di guerra», canta vittoria. Enrico Letta illustra il documento con cui si dà mandato a Bersani di definire le regole con Sel e Psi e definisce l’emendamento Magistrelli «pleonastico rispetto al testo». Poi si passa alle votazioni.

Il risultato è un sì all’unanimità. I renziani cantano vittoria. Dopodiché, spenti i riflettori, è Rosy Bindi per prima a spiegare che «non è come pensano loro ». Poi anche il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo chiarisce che «i renziani hanno capito male». Reggi effettivamente spiega a chi lo avvicina: «Si potrà votare al secondo turno anche se non ci si è registrati al primo. E il luogo in cui si vota e quello in cui ci si registra coincideranno».

Ma Bindi smentisce. «L’emendamento sul primo turno è stato ritirato non perché sbagliato ma perché, come ha detto Letta, era superfluo rispetto al testo del documento poi approvato. Quindi è pacifico che voterà al secondo turno solo chi si sarà registrato fino al giorno del primo turno».

Idem per la norma che prevede la separazione tra il luogo in cui ci si registra e quello in cui si vota. «È una questione organizzativa e come tale sarà demandata al tavolo degli alleati. Ma il principio mi sembra chiarissimo: se vogliamo permettere alle persone di partecipare, è molto meglio registrarsi e votare in due luoghi diversi, visto che così le code saranno meno lunghe». Anche Stumpo, che nei giorni scorsi ha discusso la questione con Reggi, spiega che le iscrizioni saranno possibili fino alla domenica del primo turno e che per garantire la massima trasparenza si farà come per le normali elezioni: «Registrazione e voto saranno due operazioni distinte le cui modalità organizzative verranno decise dalla coalizione ».E i renziani che dicono diversamente? «Il documento presentato da Letta e votato all’unanimità dice questo».

L’Unità 07.10.12

"Onore al segretario rischia la trappola", di Federico Geremicca

Onore e complimenti a Pier Luigi Bersani, per il coraggio, la coerenza e la già nota generosità. Ma anche tanti auguri e in bocca al lupo a Pier Luigi Bersani, per aver deciso di rendere possibile una sfida, quella delle primarie, che ora rischia di trasformarsi in una trappola micidiale per lui ed il suo gruppo dirigente. E’ lui, infatti, l’uomo che nella competizione con Renzi e Vendola ha tutto da perdere e poco o niente da guadagnare; ed è lui, soprattutto, che – sceso in gara per conquistare lo scettro di candidato-premier – potrebbe uscirne senza più nemmeno i gradi di segretario.
Ma questi sono, diciamo così, i possibili effetti collaterali – non irrilevanti, certo – di un approdo che getta invece le premesse per una possibile iniezione di vitalità alla fiaccata democrazia italiana: milioni di italiani andranno ai gazebo per scegliere il candidato premier del centrosinistra nel pieno di un crepuscolo etico e politico che – contemporaneamente – spinge milioni di altri ad annunciare che non andranno alle urne neppure per le elezioni vere.
Ogni iniziativa che tenti di riavvicinare alla politica cittadini nauseati da quel che leggono o vedono tutti i giorni in tv è – naturalmente – salutare e benvenuta. E questo vale, a maggior ragione, nel caso di primarie come quelle messe in cantiere dal Pd, che non saranno un giro di valzer ma un passaggio duro e aspro: capace, a seconda dell’esito, perfino di precipitare in una vera e propria scomposizione e rifondazione del campo riformista (ed è una svolta che molti elettori di centrosinistra auspicano da tempo). Dunque, proprio il carattere che potrebbero assumere queste primarie – con i rischi che nascondono – rende ancor più apprezzabile la rotta tenuta fin qui da Pier Luigi Bersani.
Ha accettato una sfida che, secondo lo Statuto del Pd, avrebbe incontestabilmente potuto rifiutare; da un certo punto in poi, è parso volere le primarie addirittura contro il parere degli stessi big che lo sostengono (da Bindi a D’Alema, passando per Veltroni e Marini); le regole che ha fissato – in parte ancora da definire – sono state accettate da Renzi, il che vuol dire che del suo potere di segretario ha approfittato poco o niente. Non è dunque sbagliato affermare che se le primarie si terranno, ciò accadrà – in larga parte – per merito del leader del Pd. Detto tutto questo, però, è da qui che cominciano i guai.
Pier Luigi Bersani, infatti, queste primarie può perderle per davvero: è una sensazione ormai largamente diffusa anche tra i suoi sostenitori. Se fossimo di fronte all’avvio di una regata, potremmo dire che Matteo Renzi è entrato nel campo di gara con le vele tese dal vento della voglia di ricambio (che non è liquidabile come antipolitica tout court) mentre il segretario è costretto ad un’andatura di bolina: avendo quel vento, insomma, che gli soffia contro. Renzi va illustrando, in giro per l’Italia, un programma assai semplice: in fondo, per ora si limita a dire «cari amici, eccolo il programma, sono io, mandiamo a casa chi ci ha portato fin qua». Bersani non può farlo, ed è un handicap non da poco: preannuncia una gara tutta in salita.
Sarà insomma una sfida dura per il leader del Pd, e questo rende ancor più significativo il fatto che l’abbia voluta lo stesso. Certo, ora i rapporti con i big della sua maggioranza (leader che giocano una partita per la sopravvivenza) non sono dei migliori. E infatti, col tono di chi vuol mostrarsi preoccupato, da qualche giorno vanno proponendo interrogativi micidiali: che succede se al primo turno delle primarie Renzi batte Bersani? Può restare segretario del partito un leader sconfitto dal voto dei suoi stessi iscritti ed elettori? «Sarebbe un problema», si rispondono da soli. In verità sarebbe un gigantesco problema: e Pier Luigi Bersani naturalmente lo sa.
Dicono che abbia voluto la sfida con Renzi per non trasformarsi nel simbolo del vecchio da «rottamare», per evitare che – di fronte a primarie negate – il sindaco di Firenze scendesse in campo con liste proprie, e per non restare prigioniero dei capicorrente della sua stessa maggioranza. Chissà se, in fondo, Bersani stesso non condivida il giudizio espresso ieri su di lui da Carlo De Benedetti: «E’ una persona equilibrata e saggia, ma deve scrollarsi di dosso una nomenklatura che lo ha condizionato e che è stata assolutamente negativa per il Paese». Riuscirà a farlo, lanciando segnali già nel corso della campagna per le primarie? Lo si vedrà. Da ieri, però, Bersani sa che se non ci proverà lui, potrebbe farlo qualcun altro: Matteo Renzi adesso è lì, pronto a sfruttare qualunque errore e qualunque timidezza. Uno stimolo non da poco a trasformare una semplice «resa dei conti» in una salutare (e indispensabile) rivoluzione…
La Stampa 07.10.12
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“NOMENKLATURA E DEMOCRAZIA”, di CURZIO MALTESE
LE PRIMARIE sono una faccenda troppo seria per lasciarle fare ai generali del Pd. Alla fine ha prevalso il buon senso e gli emendamenti anti-Renzi studiati dalla nomenklatura per complicare il voto con mene burocratiche sono stati cancellati. Quelle del 25 novembre rimarranno le primarie più libere e incerte della
storia. Per questo, le più partecipate dai cittadini. È la buona notizia, in tempi grami per la politica. Non ci fossero le primarie del Pd, l’intero sistema democratico sarebbe già crollato a pezzi sotto i colpi dell’antipolitica, sepolto dalla vergogna degli scandali.
La cattiva notizia è che i gruppi dirigenti del partitone ci hanno comunque provato a boicottarle nei fatti, dopo aver cercato invano di stroncarle sul nascere. A riprova dell’ormai incolmabile distanza di un pezzo di ceto politico dagli umori del Paese. Per mesi la nomenklatura aveva cullato l’idea di non farle proprio le primarie e non si era preoccupata delle regole. Per altri mesi ancora aveva comunque immaginato una vittoria di Bersani in assenza di veri rivali. Quando sul tavolo dei dirigenti sono arrivati i sondaggi che davano vincente Matteo Renzi oltre i quattro milioni di votanti, ecco scattare l’allarme. Passati in un attimo dalla sicumera della vittoria al panico della sconfitta, un percorso classico della sinistra italiana, i dirigenti hanno perso la testa e sono corsi allo stratagemma. Controlli, check in, registrazioni, varchi burocratici. Una serie di emendamenti fra il furbo e l’odioso che lo stesso presunto beneficiario, Pierluigi Bersani, ha chiesto infine di ritirare. Della complessa macchina messa in campo per scoraggiare il popolo degli elettori è sopravvissuto soltanto il divieto di votare al ballottaggio per chi non ha partecipato al primo turno. Ma è probabile che salti nella trattativa con Nichi Vendola, il quale ha già chiarito di voler concorrere a primarie democratiche e non a un reality show.
Pierluigi Bersani esce molto bene dall’assemblea del Pd. È stato il segretario, l’unico del gruppo dirigente ad aver sempre voluto primarie senza se e senza ma, a disinnescare la bomba confezionata dai soliti geniali strateghi dell’autodistruzione. Ma esce bene anche Matteo Renzi, che senza far polemiche si è limitato a incassare con un sorriso l’ennesimo favore elettorale. Sconfitti sono i vecchi dirigenti inventori dei paletti anti-Renzi, il cui terrore da rottamazione è ormai un dato quasi fisico, a giudicare dai discorsi urlati e stravolti di Bindi, Marini e Fioroni, per citarne alcuni di ieri.
Un giorno qualche specialista, ma uno bravo, dovrà pur spiegare la vocazione al suicidio della classe dirigente. Tutti i partiti lavorano per Grillo e la maggioranza del Pd si adopera da mesi per far vincere il rottamatore Renzi. Non passa giorno senza che un’intervista o una comparsata televisiva di qualche pezzo da novanta del Pd non ricordino all’elettore medio quanto sarebbe auspicabile un ricambio. In fondo è gente che faceva il ministro quando Barack Obama ancora faceva l’avvocato. Volessero davvero aiutare Bersani nella vittoria, dovrebbe semplicemente firmare una lettera di dimissioni dal seggio parlamentare. E invece eccoli lì a regalare al nemico centomila voti a botta tutte le volte che lo chiamano «il Grillo del Pd». Come fosse un handicap, di questi tempi.
Come Grillo, Matteo Renzi ha un unico argomento, il «tutti a casa»: ma i suoi avversari, invece di smontarlo, lo alimentano ogni giorno. Come Grillo, sa usare la Rete, è circondato da astuti consiglieri, bravo a rovesciare la frittata senza farsi accorgere, svelto nel pescare consensi a destra e a sinistra. Come Grillo, Renzi è peggiore di chi lo vota, o per meglio dire nel suo caso, ancora inadeguato a esprimere una novità sostanziale e non di facciata. Ma rappresenta comunque un’alternativa al già visto per un pezzo d’Italia vitale, moderna, sincera e onesta. Al contrario, Bersani è migliore della tradizione che incarna e l’ha dimostrato anche ieri, con la scelta di opporsi ai trucchi escogitati in suo favore e con un discorso tosto e convincente rivolto al paese reale e non al ceto politico. Sarebbe un’ottima cosa se gli apparati, le correnti, i gruppi di potere lo liberassero della zavorra di un appoggio controproducente e lo lasciassero da solo in campo contro il giovane rivale, liberi entrambi di giocarsi l’ultima carta del sistema democratico contro l’alta marea del populismo.
La Repubblica 07.10.12
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“E il segretario scarica i notabili”, di GOFFREDO DE MARCHIS
«NON userò nemmeno il simbolo del Pd. Nessun dirigente salirà sul palco con me. Non è una campagna del partito, sono primarie di coalizione per la scelta del candidato premier». La nomenklatura democratica interpreta con preoccupazione i ripetuti segnali di Pier Luigi Bersani.
ITONI, i bersagli sono diversi da quelli del rottamatore Matteo Renzi ma al fondo l’obiettivo è lo stesso: rivoluzionare il centrosinistra, cambiare i volti, i vissuti, la foto di famiglia. E liberarsi del peso di alcune lunghe e onorate carriere politiche. Lui da solo contro il sindaco di Firenze significa un duello senza la zavorra degli “oligarchi”.
Il primo appuntamento della campagna da candidato premier conferma questo indirizzo. Bersani partirà, con un discorso
sull’Italia, domenica prossima, il 14 ottobre, dal piazzale della stazione di servizio che fu di suo padre Pino, benzinaio e meccanico a Bettola, il paese a 33 chilomentri da Piacenza dove il segretario è nato 62 anni fa. «Questo sono io, questa è la mia storia», è il messaggio subliminale di una scelta sorprendente. Privata, quasi intima. «Si sarà capito che l’eccesso di personalizzazione nella politica mi infastidisce», diceva nell’intervista-biografia raccolta un anno fa da Miguel Gotor e Claudio Sardo. Ma cosa c’è di più personale di questo ritorno a casa, alle umili origini della sua famiglia? Cosa è cambiato da allora, nella strategia bersaniana? È cambiato tutto. C’è uno sfidante giovane e per niente sprovveduto. C’è una crisi
della politica che giocoforza investe chi quella politica l’ha interpretata, anche dalla parte della ragione. L’abbraccio a Bettola e ai primi passi è un altro segno che questa partita Bersani la vuole giocare in proprio. Che sono saltati i “patti di sindacato”, le alleanze interne.
I big del Pd lo sanno. Renzi fa comodo a Bersani perché diventa il parafulmine di un odio manifesto dei maggiorenti. «Il nemico è Renzi, non Vendola», sibila Massimo D’Alema a chi gli chiede un giudizio sulle primarie. Ne fa una questione personale e non ha tutti i torti: è dura essere dipinto come il male assoluto nei teatri pieni delle province toccate dal camper. Ma ora preoccupa anche l’atteggiamento di Bersani. «Spero che
vinca Pier Luigi, ma il giorno dopo Renzi non sarà cancellato. Rimarranno sul tavolo le sue battaglie, qualcuno sarà rottamato», spiega rassegnato un notabile. Sarà per primo il segretario a non accettare la cancellazione di un profondo ricambio. Una prova? Il capogruppo alla Camera Dario Franceschini, qualche giorno fa, è corso da lui per chiedergli conto di una proposta di legge firmata dal bersaniano Dario Ginefra che fissa, per i parlamentari, il limite inderogabile di tre mandati. «È una roba delicata, che faccio, procedo?». «Ma certo, andiamo avanti», ha risposto Bersani.
Con un rischio voluto e calcolato, Bersani può trovarsi davvero solo (e libero) nella sua corsa, i maggiorenti freddi e distanti. Il
presidente della Toscana Enrico Rossi si ribella alle aperture del segretario: «Non cediamo alla prepotenza di Renzi». Dopo nemmeno due ore di assemblea, il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca lascia furente l’hotel Ergife: «Non commento questo orrore altrimenti sconfino nel codice penale e mi arrestano». Franco Marini non accetta l’ineluttabile esito: «Voto il cambio dello Statuto solo per disciplina ». Rosy Bindi si aggrappa, confortata dalle parole di Enrico Letta e di Maurizio Migliavacca, al filtro delle regole. Ma Bersani non si guarda indietro.
L’intesa di fondo con Renzi
non impedirà al segretario di condurre una campagna “aggressiva”. Il capo della sua comunicazione Stefano Di Traglia l’ha preparata nei dettagli. Sfidando il guru Giorgio Gori, con le armi più adatte a Bersani. Al format renziano che gira i teatri italiani recitando sempre lo stesso copione, verranno contrapposte 25 tappe con diversi canovacci. La scenografia sarà sempre reale: una fabbrica, una scuola, un centro di ricerca. Ogni volta si affronterà un tema nuovo. E i big, anche locali, sono pregati di accomodarsi non solo giù dal palco ma anche in fondo alla sala. In prima fila Bersani vuole i giovani dei circoli e delle associazioni. È la sua partita. La nomenklatura deve fare un passo indietro.
La Repubblica 07.10.12
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Bersani al Pd “adesso non ci ammazza più nessuno”, di Simone Collini
«È un piccolo capolavoro politico del segretario», dice Andrea Cozzolino giusto qualche minuto dopo che Pier Luigi Bersani va via dall’Ergife parlando dell’Assemblea nazionale come di un «capolavoro di democrazia». L’europarlamentare del Pd ha vissuto sulla propria pelle cosa significhino primarie senza regole, sa quanto sia insidioso il rischio di infiltrazioni da parte di elettori del centrodestra e quanto sia facile con contestazioni del giorno dopo far saltare tutto per aria. È successo a Napoli, l’anno scorso. E Bersani vuole non succeda anche il mese prossimo, per primarie che dovranno scegliere il candidato premier del centrosinistra.
Per questo il leader del Pd ieri ha giocato la partita evitando da un lato di provocare una spaccatura interna al partito, ma assicurandosi dall’altro lato la possibilità di definire insieme alle altre forze della coalizione regole che mettano la sfida ai gazebo al riparo da infiltrazioni e contestazioni. Come? Prevedendo, come Bersani dirà agli altri partiti del centrosinistra, «meccanismi che distinguono il voto dalla registrazione» e che «salvo casi eccezionali» potrà votare al secondo turno soltanto chi si è iscritto (cioè ha firmato il manifesto pubblico a sostegno del centrosinistra) entro il giorno del primo turno.
Questo può voler dire che lo scontro con Renzi sulle norme è solo rinviato alla prossima settimana, quando Bersani per il Pd, Vendola per Sel e Nencini per il Psi sigleranno un accordo sulle regole per le primarie. Ma è un prezzo che il leader democratico è pronto a pagare, pur di garantire alla sfida ai gazebo la necessaria trasparenza e impedire l’incursione di “Batman” vari (riferimento al «campione di preferenze Fiorito»). Il primo passo c’è stato, altri seguiranno.
Ieri l’Assemblea nazionale del Pd ha dato il via libera all’albo pubblico degli elettori (ci si potrà registrare da 21 giorni prima del voto fino al giorno stesso della consultazione) e al doppio turno (nel caso nessun candidato ottenga il 50% dei voti il 25 novembre si andrà al ballottaggio tra i primi due la domenica successiva). È un cedimento da parte di Renzi, che voleva una sfida a un solo turno e nessun obbligo per gli elettori di iscriversi ad una lista consultabile.
Bersani ha non solo messo sul piatto una deroga allo statuto che consenta al sindaco di Firenze di correre, ma ha anche chiesto e ottenuto che gli emendamenti più indigesti per il «rottamatore» venissero ritirati, rinviando ogni decisione al tavolo della coalizione.
Dal fronte dei bindiani e degli ulivisti erano infatti arrivati documenti che chiedevano di sancire già ieri l’obbligo di registrarsi in luoghi diversi da quelli in cui si voterà e il divieto di votare al secondo turno per chi non si fosse registrato entro la domenica del primo turno. «I documenti presentati parlano già chiaro, dobbiamo discutere con la coalizione, quindi la mia indicazione è fermiamoci lì», dice Bersani prima che comincino le operazioni di voto. Marina Magistrelli e gli altri firmatari accettano di ritirare gli emendamenti.
Il coordinatore della campagna di Renzi, Roberto Reggi, che aveva definito quei documenti «una dichiarazione di guerra», canta vittoria. Enrico Letta illustra il documento con cui si dà mandato a Bersani di definire le regole con Sel e Psi e definisce l’emendamento Magistrelli «pleonastico rispetto al testo». Poi si passa alle votazioni.
Il risultato è un sì all’unanimità. I renziani cantano vittoria. Dopodiché, spenti i riflettori, è Rosy Bindi per prima a spiegare che «non è come pensano loro ». Poi anche il responsabile Organizzazione del Pd Nico Stumpo chiarisce che «i renziani hanno capito male». Reggi effettivamente spiega a chi lo avvicina: «Si potrà votare al secondo turno anche se non ci si è registrati al primo. E il luogo in cui si vota e quello in cui ci si registra coincideranno».
Ma Bindi smentisce. «L’emendamento sul primo turno è stato ritirato non perché sbagliato ma perché, come ha detto Letta, era superfluo rispetto al testo del documento poi approvato. Quindi è pacifico che voterà al secondo turno solo chi si sarà registrato fino al giorno del primo turno».
Idem per la norma che prevede la separazione tra il luogo in cui ci si registra e quello in cui si vota. «È una questione organizzativa e come tale sarà demandata al tavolo degli alleati. Ma il principio mi sembra chiarissimo: se vogliamo permettere alle persone di partecipare, è molto meglio registrarsi e votare in due luoghi diversi, visto che così le code saranno meno lunghe». Anche Stumpo, che nei giorni scorsi ha discusso la questione con Reggi, spiega che le iscrizioni saranno possibili fino alla domenica del primo turno e che per garantire la massima trasparenza si farà come per le normali elezioni: «Registrazione e voto saranno due operazioni distinte le cui modalità organizzative verranno decise dalla coalizione ».E i renziani che dicono diversamente? «Il documento presentato da Letta e votato all’unanimità dice questo».
L’Unità 07.10.12