Niente politica industriale, disattenzione alle emergenze del lavoro, zero investimenti, crescita pericolosa delle diseguaglianze. Questo autunno propone un’Italia in piena emergenza economica e sociale, una situazione che viene fronteggiata dal governo con politiche inadeguate, insufficienti. Per questo Susanna Camusso chiama la Cgil a una nuova stagione di mobilitazione e di impegno. A partire dalla giornata del 20 ottobre, in piazza San Giovanni a Roma, la piazza delle grandi sfide sindacali.
Spiega: «Chiediamo al governo scelte chiare di politica industriale, difesa degli insediamenti produttivi, detassazione delle tredicesime, sostegno ai lavoratori esodati, ai dipendenti delle aziende in difficoltà. C%%è bisogno di una svolta profonda di politica economica perchè il Paese non ce la fa».
Segretario Camusso, qual è la situazione del lavoro e dell’industria? «Assistiamo con enorme preoccupazione alla scomparsa di pezzi importanti del tessuto industriale. Siderurgia, auto, alluminio, distribuzione sono settori a rischio. Siamo un Paese che non investe. Per richiamare l’attenzione i lavoratori devono mettere in pericolo la propria vita salendo sui tetti, sulle torri, sui campanili. Il governo e il Paese forse non comprendono pienamente la gravità e i rischi di questo momento. L’occupazione e la difesa della nostra industria sono priorità assolute».
L’azione del governo Monti non la soddisfa? «No, e non una questione personale.Non soddisfa il Paese. Dobbiamo fare uno sforzo comune, forte per aiutare chi perde il posto, chi vede la chiusura della propria azienda, chi cerca di salvare un pezzo di produzione. C’è una distanza enorme tra le condizioni reali di vita dei cittadini e le azioni del governo. C’è un’Italia insicura, impaurita che va aiutata, dobbiamo ricostruire un clima di fiducia, di speranza tra le persone».
Cosa chiede alla politica? «Mi piacerebbe che la politica parlasse al Paese, dei problemi della gente, anzichè concentrarsi su se stessa, su formule ed equilibri spesso incomprensibili. Sarebbe necessaria in questo momento una proposta forte, radicale, di autoriforma della politica in grado di riconquistare il consenso dei cittadini, di rafforzare la base democratica. Tocca ai partiti formulare proposte chiare per battere le diseguaglianze crescenti, per migliorare le condizioni di vita di chi sta peggio, per garantire reddito, lavoro, pensioni, occupazione ai giovani e alle donne».
Monti sostiene che la differenza non è più tra destra e sinistra, ma tra chi paga le tasse e chi evade. È d’accordo? «No. È una semplificazione che non va bene. L’evasione fiscale è stata una scelta politica di destra, di Berlusconi. È la destra che ha favorito i condoni, i capitali scudati, i furbetti del fisco. Si può criticare la politica, ma la politica non è tutta uguale».
Il governo ha ventilato l’ipotesi di una riduzione del carico fiscale, Squinzi dice che di troppe tasse si muore… «Il governo ha offerto un messaggio contraddittorio sulle tasse. Ha aperto uno spiraglio e poi ha fatto marcia indietro. A Squinzi vorrei dire che di troppa diseguaglianza fiscale si muore. Sono i lavoratori dipendenti, i pensionati che pagano troppe tasse. Sono i redditi delle persone fisiche gravati da un carico eccessivo, non sono certo le rendite ad essere penalizzate. Questa ingiustizia peggiora la recessione e favorisce i privilegiati che fuggono dal fisco».
Cosa si attende dal Pd? «Una proposta per un’Italia diversa. Il Pd ha la grande responsabilità di guidare la svolta di governo. È un impegno gravoso, ma stimolante. Metta al centro della sua politica il lavoro, i diritti, il welfare, la politica industriale, un modello di equaglianza sociale, tiri fuori il Paese da questo disastro combinato dai liberisti».
Qual è una politica alternativa? «Una piattaforma socialdemocratica per il welfare, la civiltà del lavoro, la costruzione di un modello più giusto di società per rimettere insieme il Paese, per attutire i danni combinati dalla destra che ha lavorato per dividere i cittadini. Dobbiamo riflettere sul fatto che cresce non solo la disoccupazione, ma anche il lavoro povero e chi è occupato spesso non ce la fa. C’è un deterioramento pericoloso del tessuto sociale, anche di quei soggetti che definiamo garantiti.L’Italia ha bisogno di una svolta perchè dopo quattro anni di crisi e due di sacrifici pesantissimi siamo ancora in mezzo al guado»
Il sindacato cosa può offrire in questo percorso? «Il sindacato ha i suoi problemi, le divisioni non aiutano, nè aiuta l’ eccesso di esposizione di alcune parti verso schieramenti politici. Ma il sindacato ha fatto la sua parte nella crisi, ha gestito vertenze, ristrutturazioni, accordi, confrontandosi con forti innovazioni. Continueremo in questa direzione, ma nessuno può pensare di ridurre il potere di contrattazione dei lavoratori, nè di continuare a discriminare i giovani, le donne, i soggetti più deboli».
La Cgil cosa si propone con l’iniziativa del 20 ottobre? «È l’inizio di un percorso. Vogliamo cambiare passo, pressare questo governo di congiuntura. La Cgil è ben consapevole che il movimento sindacale deve uscire dalla difensiva. Prepariamo alla conferenza di programma per lanciare un Piano del lavoro, che parli di welfare e di ambiente come sviluppo, di innovazione e ricerca, di contrattazione sull’organizzazione e sui modelli di partecipazione del lavoro. Se saremo uniti sarà più facile».
C’è un gruppo di liberisti che lancia il manifesto Fermiamo il declino . La Cgil partava di declino 10 anni fa… «…E tutti ci accusavano di essere disfattisti, cassandre, portatori di sciagure. Nel 2004 la Cgil fece uno sciopero generale per fermare il declino e alcuni dei firmatari di questo manifesto liberista ci definivano statalisti, nazionalisti. Noi abbiamo tanti difetti, ma siamo vicino alla gente e capiamo i problemi. I liberisti si devono rassegnare: la crisi è figlia delle loro idee, è ora di cambiare».
L’Unità 06.10.12
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"Ue: in Italia gli stipendi dei docenti fermi a 12 anni fa", da La Tecnica della Scuola
Il dato è contenuto nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea, pubblicato il 5 ottobre dalla Commissione europea: rispetto all’inflazione, nel 2012 lo stipendio di base lordo è tornato al livello iniziale del 2000. Ma stanno peggio in Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Slovenia, ancora più colpiti dai tagli di bilancio. Il monito della commissaria Ue per l’Istruzione e la cultura: le retribuzioni sono una priorità assoluta.
L’Italia tra i 16 paesi europei dove gli stipendi degli insegnanti sono stati ridotti o bloccati a causa della crisi economica e delle politiche di austerità dei governi. Il dato è contenuto nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea (Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2011/12), pubblicato dalla Commissione europea il 5 ottobre, proprio nel giorno quindi (ironia della sorte!) della Giornata mondiale degli insegnanti.
Secondo il rapporto, il fenomeno – che disincentiva l’ingresso nella professione dei soggetti migliori e dunque la qualità dell’insegnamento, fondamentale per la crescita economica – è più marcato in Irlanda, Grecia e Portogallo, ovvero negli Stati membri che hanno chiesto l’aiuto dei Fondi di salvataggio dell’Eurozona, e che in cambio hanno dovuto ridurre drasticamente la spesa pubblica. Ma i portavoce della Commissione, rispondendo alle domande dei cronisti oggi a Bruxelles, hanno negato che a richiedere i tagli all’insegnamento sia la Troika (gli inviati dell’Fmi, della Bce e della stesso Esecutivo Ue), durante i negoziati con le autorità dei paesi sottoposti al programma di assistenza finanziaria.
Il rapporto copre 32 paesi europei, fra cui i 27 dell’Ue, e le scuole dalle elementari alla fine della secondaria. Oltre che in Irlanda, Grecia e Portogallo, fra i paesi in cui gli insegnanti sono più colpiti dai tagli di bilancio e dalle misure di austerità ci sono anche Spagna e Slovenia. Ma gli stipendi sono calati o sono stati congelati anche in Italia, Bulgaria, a Cipro, Estonia, Francia, Ungheria, Lettonia, Lituania, nel Regno Unito, in Croazia e Liechtenstein.
“La retribuzione e le condizioni di lavoro degli insegnanti dovrebbero costituire una priorità assoluta al fine di attirare e trattenere i migliori in questa professione”, ha osservato in una nota Androulla Vassiliou, commissaria Ue responsabile per l’Istruzione e la cultura.
Invece, come risulta dal rapporto, a partire dalla metà del 2010, in un numero crescente di paesi sono stati operati tagli sia agli stipendi che alle indennità, come assegni per ferie e gratifiche.
In Italia, secondo un grafico abbinato allo studio europeo, rispetto all’inflazione lo stipendio di base lordo è calato dal 2000 al 2006, poi è risalito dal 2006 al 2009, per poi ridiscendere dal 2009 fino a tornare nel 2012 al livello iniziale del 2000.
La Grecia ha ridotto del 30% lo stipendio di base degli insegnanti (come di tutti gli altri impiegati pubblici) e ha sospeso il pagamento della gratifica natalizia e di quella pasquale. L’Irlanda ha ridotto nel 2011 del 13% lo stipendio dei nuovi insegnanti, mentre gli insegnanti nominati dopo il 31 gennaio 2012 hanno subìto un ulteriore taglio del 20% con la soppressione delle indennità di qualifica. In Spagna gli stipendi degli insegnanti e di altri dipendenti del settore pubblico sono stati ridotti del 5% circa nel 2010 e da allora non sono stati più adeguati per tenere conto dell’inflazione. Provvedimenti analoghi sono stati adottati in Portogallo.
da La Tecnica della Scuola 06.10.12
"Ue: in Italia gli stipendi dei docenti fermi a 12 anni fa", da La Tecnica della Scuola
Il dato è contenuto nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea, pubblicato il 5 ottobre dalla Commissione europea: rispetto all’inflazione, nel 2012 lo stipendio di base lordo è tornato al livello iniziale del 2000. Ma stanno peggio in Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Slovenia, ancora più colpiti dai tagli di bilancio. Il monito della commissaria Ue per l’Istruzione e la cultura: le retribuzioni sono una priorità assoluta.
L’Italia tra i 16 paesi europei dove gli stipendi degli insegnanti sono stati ridotti o bloccati a causa della crisi economica e delle politiche di austerità dei governi. Il dato è contenuto nel rapporto sugli stipendi e le indennità degli insegnanti e dei presidi in Europea (Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2011/12), pubblicato dalla Commissione europea il 5 ottobre, proprio nel giorno quindi (ironia della sorte!) della Giornata mondiale degli insegnanti.
Secondo il rapporto, il fenomeno – che disincentiva l’ingresso nella professione dei soggetti migliori e dunque la qualità dell’insegnamento, fondamentale per la crescita economica – è più marcato in Irlanda, Grecia e Portogallo, ovvero negli Stati membri che hanno chiesto l’aiuto dei Fondi di salvataggio dell’Eurozona, e che in cambio hanno dovuto ridurre drasticamente la spesa pubblica. Ma i portavoce della Commissione, rispondendo alle domande dei cronisti oggi a Bruxelles, hanno negato che a richiedere i tagli all’insegnamento sia la Troika (gli inviati dell’Fmi, della Bce e della stesso Esecutivo Ue), durante i negoziati con le autorità dei paesi sottoposti al programma di assistenza finanziaria.
Il rapporto copre 32 paesi europei, fra cui i 27 dell’Ue, e le scuole dalle elementari alla fine della secondaria. Oltre che in Irlanda, Grecia e Portogallo, fra i paesi in cui gli insegnanti sono più colpiti dai tagli di bilancio e dalle misure di austerità ci sono anche Spagna e Slovenia. Ma gli stipendi sono calati o sono stati congelati anche in Italia, Bulgaria, a Cipro, Estonia, Francia, Ungheria, Lettonia, Lituania, nel Regno Unito, in Croazia e Liechtenstein.
“La retribuzione e le condizioni di lavoro degli insegnanti dovrebbero costituire una priorità assoluta al fine di attirare e trattenere i migliori in questa professione”, ha osservato in una nota Androulla Vassiliou, commissaria Ue responsabile per l’Istruzione e la cultura.
Invece, come risulta dal rapporto, a partire dalla metà del 2010, in un numero crescente di paesi sono stati operati tagli sia agli stipendi che alle indennità, come assegni per ferie e gratifiche.
In Italia, secondo un grafico abbinato allo studio europeo, rispetto all’inflazione lo stipendio di base lordo è calato dal 2000 al 2006, poi è risalito dal 2006 al 2009, per poi ridiscendere dal 2009 fino a tornare nel 2012 al livello iniziale del 2000.
La Grecia ha ridotto del 30% lo stipendio di base degli insegnanti (come di tutti gli altri impiegati pubblici) e ha sospeso il pagamento della gratifica natalizia e di quella pasquale. L’Irlanda ha ridotto nel 2011 del 13% lo stipendio dei nuovi insegnanti, mentre gli insegnanti nominati dopo il 31 gennaio 2012 hanno subìto un ulteriore taglio del 20% con la soppressione delle indennità di qualifica. In Spagna gli stipendi degli insegnanti e di altri dipendenti del settore pubblico sono stati ridotti del 5% circa nel 2010 e da allora non sono stati più adeguati per tenere conto dell’inflazione. Provvedimenti analoghi sono stati adottati in Portogallo.
da La Tecnica della Scuola 06.10.12
"Il sindaco di Firenze dovrebbe pensare a terminare il suo mandato", di Enrico Rossi*
Se si voleva ridiscutere la linea del Pd la sede naturale era il congresso. Norma ad personam per Renzi Un cedimento alla prepotenza. Oggi sarò all’assemblea nazionale del Pd a discutere, ma non a votare perché sono solo un invitato permanente, del cambiamento dello Statuto che consentirà a Renzi di candidarsi alle primarie per le quali si è già impegnato, con il camper da settimane e sulle tv da anni. Lo farò molto malvolentieri, provando a portare un contributo solo per non peggiorare la situazione. Lo farò per senso di responsabilità. Penso che la modifica dello Statuto ad personam sia un cedimento alla prepotenza, costituisca una rinuncia all’autonomia della politica e scalfisca le regole per le quali si aderisce consapevolmente a un’associazione.
Ci sono in Toscana due precedenti che sono andati in senso opposto: Leonardo Domenici, che avrebbe gradito candidarsi in Parlamento nel 2008, dopo quasi due mandati da sindaco di Firenze. E Claudio Martini, che nel 2009, alla fine del secondo mandato da presidente della Regione, avendo una grande e riconosciuta esperienza in Europa, avrebbe voluto candidarsi al Parlamento europeo. A entrambi il partito mandò a dire che non se ne parlava nemmeno e che avrebbero dovuto finire il loro mandato, come da regola e nel rispetto dell’impegno preso con i cittadini. Vi assicuro che Domenici e Martini non avevano e non hanno nulla da invidiare a nessuno quanto a capacità politiche, cultura e consenso.
Cos’è cambiato nel mio partito per garantire a Renzi, da poco più di tre anni eletto sindaco di Firenze, il mestiere più bello del mondo, un trattamento opposto e di favore? A mio avviso solo un fatto: la spregiudicatezza con cui il giovane sindaco si è costruito una visibilità nazionale attaccando pressoché quotidianamente il Pd; non impegnandosi in un’opera di rinnovamento, ma criticando a palle incatenate e trovando in questo modo spazio sui grandi media che, per lo più, non accettano che nel nostro Paese esista un partito libero, forte e organizzato, che non risponda a oligarchie ma solo ai suoi iscritti e agli elettori. Cambiare lo Statuto ad personam è già un cedimento pericoloso e non giustificato dalla buona intenzione di voler così aumentare la partecipazione, che come sappiamo è sempre stata ampia anche quando il Pd ha sostenuto un suo unico candidato. L’idea poi che dovremmo
non avere regole per consentire agli elettori del centrodestra di essere determinanti nella scelta del leader di centrosinistra non solo lede i miei diritti di militante ed elettore di sinistra, ma non ha neppure un riscontro nelle democrazie occidentali e rappresenta il massimo del populismo a cui finora si è avuto la sfrontatezza di spingersi. Un populismo figlio di Berlusconi e di quella cultura con cui, non a caso, il giovane Renzi non ha saputo, né voluto intenzionalmente fare i conti.
Leggo oggi che Renzi, alternando vittimismo e arroganza, comincia ad accettare l’idea che qualche regola dovrà pur esserci. Penso che se avessimo cominciato prima a far valere le nostre ragioni, comprese quelle dell’educazione, probabilmente non ci saremo trovati oggi in questo pasticcio e Renzi avrebbe potuto continuare a misurarsi con un ruolo importante come quello di sindaco di Firenze, dove avrebbe messo effettivamente alla prova le sue capacità. Se poi avesse voluto dire la sua in politica, come è suo diritto e dovere, non ci sarebbe stata occasione migliore che fare un congresso, magari per tesi, seguito da una conferenza di organizzazione che avrebbe potuto toglierci dall’imbarazzo anche sul ruolo e funzionamento dell’assemblea nazionale. Cosa che mi provai a dire in un articolo del dicembre 2011 sull’Espresso. Si sarebbe così sentito Renzi parlare nelle sedi appropriate e avremmo ascoltato, magari ripulite dagli effetti speciali degli scenari della Leopolda, le sue proposte per spostare a destra l’asse del partito. A mio avviso non avrebbero avuto grandi consensi.
L’Unità 06.10.12
"Il sindaco di Firenze dovrebbe pensare a terminare il suo mandato", di Enrico Rossi*
Se si voleva ridiscutere la linea del Pd la sede naturale era il congresso. Norma ad personam per Renzi Un cedimento alla prepotenza. Oggi sarò all’assemblea nazionale del Pd a discutere, ma non a votare perché sono solo un invitato permanente, del cambiamento dello Statuto che consentirà a Renzi di candidarsi alle primarie per le quali si è già impegnato, con il camper da settimane e sulle tv da anni. Lo farò molto malvolentieri, provando a portare un contributo solo per non peggiorare la situazione. Lo farò per senso di responsabilità. Penso che la modifica dello Statuto ad personam sia un cedimento alla prepotenza, costituisca una rinuncia all’autonomia della politica e scalfisca le regole per le quali si aderisce consapevolmente a un’associazione.
Ci sono in Toscana due precedenti che sono andati in senso opposto: Leonardo Domenici, che avrebbe gradito candidarsi in Parlamento nel 2008, dopo quasi due mandati da sindaco di Firenze. E Claudio Martini, che nel 2009, alla fine del secondo mandato da presidente della Regione, avendo una grande e riconosciuta esperienza in Europa, avrebbe voluto candidarsi al Parlamento europeo. A entrambi il partito mandò a dire che non se ne parlava nemmeno e che avrebbero dovuto finire il loro mandato, come da regola e nel rispetto dell’impegno preso con i cittadini. Vi assicuro che Domenici e Martini non avevano e non hanno nulla da invidiare a nessuno quanto a capacità politiche, cultura e consenso.
Cos’è cambiato nel mio partito per garantire a Renzi, da poco più di tre anni eletto sindaco di Firenze, il mestiere più bello del mondo, un trattamento opposto e di favore? A mio avviso solo un fatto: la spregiudicatezza con cui il giovane sindaco si è costruito una visibilità nazionale attaccando pressoché quotidianamente il Pd; non impegnandosi in un’opera di rinnovamento, ma criticando a palle incatenate e trovando in questo modo spazio sui grandi media che, per lo più, non accettano che nel nostro Paese esista un partito libero, forte e organizzato, che non risponda a oligarchie ma solo ai suoi iscritti e agli elettori. Cambiare lo Statuto ad personam è già un cedimento pericoloso e non giustificato dalla buona intenzione di voler così aumentare la partecipazione, che come sappiamo è sempre stata ampia anche quando il Pd ha sostenuto un suo unico candidato. L’idea poi che dovremmo
non avere regole per consentire agli elettori del centrodestra di essere determinanti nella scelta del leader di centrosinistra non solo lede i miei diritti di militante ed elettore di sinistra, ma non ha neppure un riscontro nelle democrazie occidentali e rappresenta il massimo del populismo a cui finora si è avuto la sfrontatezza di spingersi. Un populismo figlio di Berlusconi e di quella cultura con cui, non a caso, il giovane Renzi non ha saputo, né voluto intenzionalmente fare i conti.
Leggo oggi che Renzi, alternando vittimismo e arroganza, comincia ad accettare l’idea che qualche regola dovrà pur esserci. Penso che se avessimo cominciato prima a far valere le nostre ragioni, comprese quelle dell’educazione, probabilmente non ci saremo trovati oggi in questo pasticcio e Renzi avrebbe potuto continuare a misurarsi con un ruolo importante come quello di sindaco di Firenze, dove avrebbe messo effettivamente alla prova le sue capacità. Se poi avesse voluto dire la sua in politica, come è suo diritto e dovere, non ci sarebbe stata occasione migliore che fare un congresso, magari per tesi, seguito da una conferenza di organizzazione che avrebbe potuto toglierci dall’imbarazzo anche sul ruolo e funzionamento dell’assemblea nazionale. Cosa che mi provai a dire in un articolo del dicembre 2011 sull’Espresso. Si sarebbe così sentito Renzi parlare nelle sedi appropriate e avremmo ascoltato, magari ripulite dagli effetti speciali degli scenari della Leopolda, le sue proposte per spostare a destra l’asse del partito. A mio avviso non avrebbero avuto grandi consensi.
L’Unità 06.10.12
"L'ultima eredità del berlusconismo", di Giovanni Valentini
L’interrogativo rilevante per il futuro del sistema politico italiano, tuttavia, è cosa rimarrà nell’immaginario e nella visione politica degli italiani della narrazione berlusconiana e della sua promessa di un’Italia diversa.
(da “Il racconto del capo” di Sofia Ventura – Laterza, 2012 – pag. 128)
Era prevedibile ed era stato anche previsto che il berlusconismo potesse sopravvivere a Silvio Berlusconi. E anzi, che senza di lui potesse diventare perfino peggio, a giudicare dall’assortita compagnia dei suoi epigoni e dei suoi imitatori. Dalla Lombardia al Lazio fino alla Sicilia, gli scandali regionali che stanno scuotendo il Paese con la violenza di un movimento tellurico non sono altro che i lasciti del berlusconismo allo stadio terminale; l’ultima eredità di quella “ideologia pubblicitaria” che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la tv commerciale ha instillato per oltre un quarto di secolo nella mentalità nazionale a colpi di spot, minispot, telepromozioni e televendite. Le vacanze dorate del governatore lombardo Roberto Formigoni, già leader di Comunione e Liberazione; i festini e gli scandali dell’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito; gli sprechi e gli sperperi della giunta siciliana, hanno una matrice in comune: quella commistione tra pubblico e privato che ha trovato la massima rappresentazione nel conflitto di interessi in capo a Berlusconi. Una teoria generale dell’appropriazione indebita che purtroppo ha fatto scuola nell’Italia di questi anni, per diventare un modello sociale (o asociale) di comportamento collettivo. Un basso magistero di malcostume e malaffare, di opportunismo, trasformismo, corruttela, dissoluzione e depravazione che ha progressivamente trasformato un «popolo di formiche» in un’orda di cicale e cavallette.
Di questa rivoluzione antropologica, il Cavaliere è stato finora la guida spirituale e l’incarnazione mediatica. Nella sua figura e nel suo mito popolare una gran parte dei cittadini italiani s’è riconosciuta e identificata, secondo un processo simbiotico analogo a quello che lega il capo di una setta ai suoi adepti. E il peggio è che una tale narrazione ha finito per coinvolgere e contagiare perfino una parte degli oppositori, in mancanza di sufficienti anticorpi culturali e morali.
Gli scandali delle Regioni dimostrano una volta di più che il decentramento amministrativo non può essere sottratto al coordinamento e al controllo dello Stato, come pretenderebbe la propaganda separatista di un malinteso federalismo. Altrimenti, si rischia di tornare all’Italia medievale dei feudatari, dei signori e signorotti, dei vassalli e valvassori. A partire proprio dalla concezione originaria di Carlo Cattaneo, invece, il federalismo è stato inteso come uno strumento per aggregare e unire, non per dividere: e così è dagli Stati Uniti d’America ai länder tedeschi.
Alla prova dei fatti, bisogna riconoscere che non ha prodotto risultati particolarmente apprezzabili la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, approvata dal centrosinistra con pochi voti di maggioranza sotto il governo di Giuliano Amato nel 2001. L’ampliamento del potere legislativo delle Regioni a statuto ordinario s’è rivelato in realtà un boomerang, alimentando ulteriormente il disordine istituzionale nei rapporti con lo Stato centrale. Né la cosiddetta autonomia finanziaria, invocata a gran voce dalla Lega in nome del federalismo fiscale e non ancora operativa, sembra in grado di risolvere con un colpo di bacchetta magica le istanze di rigore e trasparenza che interpellano direttamente la classe politica.
Dal centro alla periferia, da Roma a Milano e a Palermo, la questione fondamentale resta quella di un ceto o di una casta che oggi appare nel suo complesso inaffidabile, invasiva, predatoria. La politica come professione, impiego o mestiere, piuttosto che come servizio ai cittadini. E dunque, una cattiva politica che genera e produce l’antipolitica. Il “racconto del capo”, di cui tratta il libro citato all’inizio, minaccia di diventare così l’autobiografia di un’intera nazione.
La Repubblica 06.10.12
"L'ultima eredità del berlusconismo", di Giovanni Valentini
L’interrogativo rilevante per il futuro del sistema politico italiano, tuttavia, è cosa rimarrà nell’immaginario e nella visione politica degli italiani della narrazione berlusconiana e della sua promessa di un’Italia diversa.
(da “Il racconto del capo” di Sofia Ventura – Laterza, 2012 – pag. 128)
Era prevedibile ed era stato anche previsto che il berlusconismo potesse sopravvivere a Silvio Berlusconi. E anzi, che senza di lui potesse diventare perfino peggio, a giudicare dall’assortita compagnia dei suoi epigoni e dei suoi imitatori. Dalla Lombardia al Lazio fino alla Sicilia, gli scandali regionali che stanno scuotendo il Paese con la violenza di un movimento tellurico non sono altro che i lasciti del berlusconismo allo stadio terminale; l’ultima eredità di quella “ideologia pubblicitaria” che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, la tv commerciale ha instillato per oltre un quarto di secolo nella mentalità nazionale a colpi di spot, minispot, telepromozioni e televendite. Le vacanze dorate del governatore lombardo Roberto Formigoni, già leader di Comunione e Liberazione; i festini e gli scandali dell’ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito; gli sprechi e gli sperperi della giunta siciliana, hanno una matrice in comune: quella commistione tra pubblico e privato che ha trovato la massima rappresentazione nel conflitto di interessi in capo a Berlusconi. Una teoria generale dell’appropriazione indebita che purtroppo ha fatto scuola nell’Italia di questi anni, per diventare un modello sociale (o asociale) di comportamento collettivo. Un basso magistero di malcostume e malaffare, di opportunismo, trasformismo, corruttela, dissoluzione e depravazione che ha progressivamente trasformato un «popolo di formiche» in un’orda di cicale e cavallette.
Di questa rivoluzione antropologica, il Cavaliere è stato finora la guida spirituale e l’incarnazione mediatica. Nella sua figura e nel suo mito popolare una gran parte dei cittadini italiani s’è riconosciuta e identificata, secondo un processo simbiotico analogo a quello che lega il capo di una setta ai suoi adepti. E il peggio è che una tale narrazione ha finito per coinvolgere e contagiare perfino una parte degli oppositori, in mancanza di sufficienti anticorpi culturali e morali.
Gli scandali delle Regioni dimostrano una volta di più che il decentramento amministrativo non può essere sottratto al coordinamento e al controllo dello Stato, come pretenderebbe la propaganda separatista di un malinteso federalismo. Altrimenti, si rischia di tornare all’Italia medievale dei feudatari, dei signori e signorotti, dei vassalli e valvassori. A partire proprio dalla concezione originaria di Carlo Cattaneo, invece, il federalismo è stato inteso come uno strumento per aggregare e unire, non per dividere: e così è dagli Stati Uniti d’America ai länder tedeschi.
Alla prova dei fatti, bisogna riconoscere che non ha prodotto risultati particolarmente apprezzabili la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione, approvata dal centrosinistra con pochi voti di maggioranza sotto il governo di Giuliano Amato nel 2001. L’ampliamento del potere legislativo delle Regioni a statuto ordinario s’è rivelato in realtà un boomerang, alimentando ulteriormente il disordine istituzionale nei rapporti con lo Stato centrale. Né la cosiddetta autonomia finanziaria, invocata a gran voce dalla Lega in nome del federalismo fiscale e non ancora operativa, sembra in grado di risolvere con un colpo di bacchetta magica le istanze di rigore e trasparenza che interpellano direttamente la classe politica.
Dal centro alla periferia, da Roma a Milano e a Palermo, la questione fondamentale resta quella di un ceto o di una casta che oggi appare nel suo complesso inaffidabile, invasiva, predatoria. La politica come professione, impiego o mestiere, piuttosto che come servizio ai cittadini. E dunque, una cattiva politica che genera e produce l’antipolitica. Il “racconto del capo”, di cui tratta il libro citato all’inizio, minaccia di diventare così l’autobiografia di un’intera nazione.
La Repubblica 06.10.12