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"Sant’Anna di Stazzema non è in Europa", di Moni Ovadia

La sentenza di archiviazione per gli imputati della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema è un atto di ingiustizia perpetrato contro le vittime innocenti trucidate dai carnefici delle SS, contro i sopravvissuti e i loro discendenti e rappresenta anche uno strappo brutale inferto alla carne della memoria europea. Il danno principale, tuttavia, lo riceve paradossalmente la credibilità di quei giudici. Il loro giudizio pone un interrogativo serio sul carattere del loro retroterra culturale.
Cerchiamo di capire perché. Un tribunale militare italiano dopo anni di lunghe e dolorose indagini ha emesso una sentenza di colpevolezza e una conseguente condanna sulla base delle numerose deposizioni di testimoni oculari, ma anche sulla base di confessioni di colpevolezza rese agli inquirenti e alla stampa da alcuni esecutori di quell’eccidio. I magistrati di Stoccarda, indagando con puntiglio e meticolosità, hanno deciso per l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove, di fatto dichiarando che le prove di colpevolezza riconosciute dai magistrati italiani sono a loro parere prove «fabbricate». Inoltre hanno addotto, a titolo di attenuante, il fatto che lo scopo principale di quella azione era di natura bellica con l’obiettivo di contrasto ai partigiani e che essere nelle Ss non è di per sé una prova di colpevolezza. Giusto. Ma una pesantissima aggravante si! Nelle Ss si entrava volontari giurando cieca e assoluta ubbidienza a Hitler con l’ordine di perpetrare genocidi e crimini di ogni sorta per la gloria del Reich. I giudici di Stoccarda sostengono di essersi scrupolosamente attenuti la legge. Come dire: Dura lex sed lex, ma hanno ignorato il: summum jus summa iniuria, ovvero l’eccesso di «giustizia» si trasforma nel massimo di ingiustizia. Quei magistrati si sono anche assunti la responsabilità di avere costituito un precedente che farà la gioia dei negazionisti di ogni risma e fornirà sostegno all’impunità di genocidi e massacratori di ogni luogo e di ogni tempo, per non dire dei sedicenti esportatori di democrazia con le bombe e le stragi senza numero di civili innocenti. Non è improprio dunque sostenere, se questa sentenza è legittima, che le azioni militari contro i partigiani dessero piena giustificazione alle Ss di trucidare donne vecchi e bambini e, di passo in passo, far passare l’idea che i partigiani non fossero combattenti per la libertà e la giustizia che si opponevano alla più criminale forza di occupazione della Storia ma banditi, come recitava il cartello che era messo loro al collo prima di essere impiccati agli alberi o ai lampioni. I revisionisti di casa nostra e i loro complici mediatici possono davvero ritenersi soddisfatti.

L’Unità 06.10.12

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“Da Stoccarda sentenza sconcertante” “Per ribaltare il verdetto caccia alle colpe individuali” Lo storico Carlo Gentile: “Nei documenti italiani ci sono”
«Troppa omertà e menzogne da parte dei testimoni della difesa delle ex SS»
di Alessandro Alviani

Lo storico Carlo Gentile si occupa da oltre dieci anni dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ed è stato consulente della procura militare di La Spezia nel processo che portò nel 2005 alla condanna all’ergastolo di dieci ex membri delle SS. Lavora all’università di Colonia, ad agosto è uscito in Germania un suo nuovo libro sulle stragi naziste in Italia.
Per la procura di Stoccarda mancano elementi per dire che l’eccidio fosse pianificato sin dall’inizio. Che ne pensa?
«Dal punto di vista storico è abbastanza problematico: abbiamo pochissimo materiale originale sulla vicenda. Sulla base dei miei studi sui perpetratori delle stragi in Italia, in particolare su quelli della divisione responsabile della strage di Sant’Anna di Stazzema, posso dire che la storia di queste unità mi induce a pensare che l’uccisione delle donne e dei bambini fosse prevista già dall’inizio».
Perché?
«Non è l’unica strage che esse compiono, il fatto stesso che in Italia le azioni condotte dalla divisione “Reichsführer SS” siano in pratica stragi della popolazione civile mi fa pensare che fosse una strategia seguita da questa divisione. Visto come si è comportata – la strage di Sant’Anna di Stazzema, di Bardine, di Valla, di Vinca, di Bergiola Foscalina, le stragi intorno a Massa, quelle vicino a Lucca, quella di Marzabotto: 2.400-2.500 civili uccisi solo da questa divisione in Italia – non credo si possa sostenere che sia stata una situazione sfuggita di mano a soldati che in realtà volevano solo catturare delle persone o dare la caccia ai partigiani».
Come sostiene la Procura.
«A mio avviso l’idea che questi soldati siano andati a Sant’Anna di Stazzema convinti di fare una normale operazione contro i partigiani e di arrestare qualcuno non è sostenibile. Quegli uomini sapevano che, nella situazione in cui si sarebbero trovati, avrebbero potuto uccidere donne e bambini, perché ciò faceva parte del bagaglio della loro cultura di guerra. Sulla vicenda ho pubblicato diverse cose, probabilmente alla Procura non le hanno lette molto intensamente, perché altrimenti non avrebbero scritto che manca la prova che l’azione sia partita sin dall’inizio con il potenziale di diventare strage. È deludente che non si sia ricavato di più da quest’indagine: in dieci anni gli inquirenti non sono riusciti a superare quel muro di ostruzionismo, di omertà, di menzogne e di mezze verità che i testimoni delle ex SS hanno costruito».
C’erano elementi per muovere l’accusa contro i 17 indiziati?
«Sulla base delle mie conoscenze mi sembrava che per lo meno in alcuni casi il materiale probatorio esistente fosse sufficiente a mandare avanti l’indagine».
L’archiviazione l’ha sorpresa?
«La decisione mi ha deluso, per cui capisco e condivido l’indignazione che molti provano, ma non mi ha sorpreso, perché non è la prima volta che indagini di questo tipo vengono chiuse così. Temevo si sarebbe giunti a questo esito. C’è una serie di problemi ricorrenti».
Ad esempio?
«In Germania pesa molto la distinzione tra omicidio doloso semplice, che va in prescrizione dopo un certo numero di anni, e omicidio aggravato che non va in prescrizione. Oggi, in riferimento alla Seconda guerra mondiale, si possono solo perseguire crimini che risultino qualificabili come omicidio aggravato. Nel caso di Sant’Anna, pur avendo la Procura di Stoccarda ritenuto comprovato che il fatto in sé costituisce un crimine di guerra, non ha ritenuto di poter classificare ogni singola uccisione come omicidio aggravato. È anche un problema di ordinamenti giuridici differenti».
Per Stoccarda non è dimostrata la colpa individuale degli indiziati. Crede che la magistratura tedesca abbia interesse a chiarire la vicenda?
«Sì, senz’altro. Ma ci sono anche limiti oggettivi: per la Procura tedesca portare la prova della responsabilità individuale significa avere una prova documentale scritta o una testimonianza che dimostri il coinvolgimento di una persona in un crimine. Ma è un problema se nessuno parla, se il documento non esiste più negli archivi o non indica con precisione l’unità o il nome di questa persona. In Italia queste prove si sono invece trovate».

La Stampa 06.10.12

"Sant’Anna di Stazzema non è in Europa", di Moni Ovadia

La sentenza di archiviazione per gli imputati della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema è un atto di ingiustizia perpetrato contro le vittime innocenti trucidate dai carnefici delle SS, contro i sopravvissuti e i loro discendenti e rappresenta anche uno strappo brutale inferto alla carne della memoria europea. Il danno principale, tuttavia, lo riceve paradossalmente la credibilità di quei giudici. Il loro giudizio pone un interrogativo serio sul carattere del loro retroterra culturale.
Cerchiamo di capire perché. Un tribunale militare italiano dopo anni di lunghe e dolorose indagini ha emesso una sentenza di colpevolezza e una conseguente condanna sulla base delle numerose deposizioni di testimoni oculari, ma anche sulla base di confessioni di colpevolezza rese agli inquirenti e alla stampa da alcuni esecutori di quell’eccidio. I magistrati di Stoccarda, indagando con puntiglio e meticolosità, hanno deciso per l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove, di fatto dichiarando che le prove di colpevolezza riconosciute dai magistrati italiani sono a loro parere prove «fabbricate». Inoltre hanno addotto, a titolo di attenuante, il fatto che lo scopo principale di quella azione era di natura bellica con l’obiettivo di contrasto ai partigiani e che essere nelle Ss non è di per sé una prova di colpevolezza. Giusto. Ma una pesantissima aggravante si! Nelle Ss si entrava volontari giurando cieca e assoluta ubbidienza a Hitler con l’ordine di perpetrare genocidi e crimini di ogni sorta per la gloria del Reich. I giudici di Stoccarda sostengono di essersi scrupolosamente attenuti la legge. Come dire: Dura lex sed lex, ma hanno ignorato il: summum jus summa iniuria, ovvero l’eccesso di «giustizia» si trasforma nel massimo di ingiustizia. Quei magistrati si sono anche assunti la responsabilità di avere costituito un precedente che farà la gioia dei negazionisti di ogni risma e fornirà sostegno all’impunità di genocidi e massacratori di ogni luogo e di ogni tempo, per non dire dei sedicenti esportatori di democrazia con le bombe e le stragi senza numero di civili innocenti. Non è improprio dunque sostenere, se questa sentenza è legittima, che le azioni militari contro i partigiani dessero piena giustificazione alle Ss di trucidare donne vecchi e bambini e, di passo in passo, far passare l’idea che i partigiani non fossero combattenti per la libertà e la giustizia che si opponevano alla più criminale forza di occupazione della Storia ma banditi, come recitava il cartello che era messo loro al collo prima di essere impiccati agli alberi o ai lampioni. I revisionisti di casa nostra e i loro complici mediatici possono davvero ritenersi soddisfatti.
L’Unità 06.10.12
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“Da Stoccarda sentenza sconcertante” “Per ribaltare il verdetto caccia alle colpe individuali” Lo storico Carlo Gentile: “Nei documenti italiani ci sono”
«Troppa omertà e menzogne da parte dei testimoni della difesa delle ex SS»
di Alessandro Alviani
Lo storico Carlo Gentile si occupa da oltre dieci anni dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ed è stato consulente della procura militare di La Spezia nel processo che portò nel 2005 alla condanna all’ergastolo di dieci ex membri delle SS. Lavora all’università di Colonia, ad agosto è uscito in Germania un suo nuovo libro sulle stragi naziste in Italia.
Per la procura di Stoccarda mancano elementi per dire che l’eccidio fosse pianificato sin dall’inizio. Che ne pensa?
«Dal punto di vista storico è abbastanza problematico: abbiamo pochissimo materiale originale sulla vicenda. Sulla base dei miei studi sui perpetratori delle stragi in Italia, in particolare su quelli della divisione responsabile della strage di Sant’Anna di Stazzema, posso dire che la storia di queste unità mi induce a pensare che l’uccisione delle donne e dei bambini fosse prevista già dall’inizio».
Perché?
«Non è l’unica strage che esse compiono, il fatto stesso che in Italia le azioni condotte dalla divisione “Reichsführer SS” siano in pratica stragi della popolazione civile mi fa pensare che fosse una strategia seguita da questa divisione. Visto come si è comportata – la strage di Sant’Anna di Stazzema, di Bardine, di Valla, di Vinca, di Bergiola Foscalina, le stragi intorno a Massa, quelle vicino a Lucca, quella di Marzabotto: 2.400-2.500 civili uccisi solo da questa divisione in Italia – non credo si possa sostenere che sia stata una situazione sfuggita di mano a soldati che in realtà volevano solo catturare delle persone o dare la caccia ai partigiani».
Come sostiene la Procura.
«A mio avviso l’idea che questi soldati siano andati a Sant’Anna di Stazzema convinti di fare una normale operazione contro i partigiani e di arrestare qualcuno non è sostenibile. Quegli uomini sapevano che, nella situazione in cui si sarebbero trovati, avrebbero potuto uccidere donne e bambini, perché ciò faceva parte del bagaglio della loro cultura di guerra. Sulla vicenda ho pubblicato diverse cose, probabilmente alla Procura non le hanno lette molto intensamente, perché altrimenti non avrebbero scritto che manca la prova che l’azione sia partita sin dall’inizio con il potenziale di diventare strage. È deludente che non si sia ricavato di più da quest’indagine: in dieci anni gli inquirenti non sono riusciti a superare quel muro di ostruzionismo, di omertà, di menzogne e di mezze verità che i testimoni delle ex SS hanno costruito».
C’erano elementi per muovere l’accusa contro i 17 indiziati?
«Sulla base delle mie conoscenze mi sembrava che per lo meno in alcuni casi il materiale probatorio esistente fosse sufficiente a mandare avanti l’indagine».
L’archiviazione l’ha sorpresa?
«La decisione mi ha deluso, per cui capisco e condivido l’indignazione che molti provano, ma non mi ha sorpreso, perché non è la prima volta che indagini di questo tipo vengono chiuse così. Temevo si sarebbe giunti a questo esito. C’è una serie di problemi ricorrenti».
Ad esempio?
«In Germania pesa molto la distinzione tra omicidio doloso semplice, che va in prescrizione dopo un certo numero di anni, e omicidio aggravato che non va in prescrizione. Oggi, in riferimento alla Seconda guerra mondiale, si possono solo perseguire crimini che risultino qualificabili come omicidio aggravato. Nel caso di Sant’Anna, pur avendo la Procura di Stoccarda ritenuto comprovato che il fatto in sé costituisce un crimine di guerra, non ha ritenuto di poter classificare ogni singola uccisione come omicidio aggravato. È anche un problema di ordinamenti giuridici differenti».
Per Stoccarda non è dimostrata la colpa individuale degli indiziati. Crede che la magistratura tedesca abbia interesse a chiarire la vicenda?
«Sì, senz’altro. Ma ci sono anche limiti oggettivi: per la Procura tedesca portare la prova della responsabilità individuale significa avere una prova documentale scritta o una testimonianza che dimostri il coinvolgimento di una persona in un crimine. Ma è un problema se nessuno parla, se il documento non esiste più negli archivi o non indica con precisione l’unità o il nome di questa persona. In Italia queste prove si sono invece trovate».
La Stampa 06.10.12

"Su cosa si fonda un partito", di Claudio Sardo

Un partito non si fonda su una regola, né su un emendamento. Non è vero neppure che il Pd si fondi sulle primarie, benché esse siano diventate un tratto distintivo della sua prassi democratica, del suo carattere partecipato, del proposito di spezzare l’autoreferenzialità di una politica peraltro divenuta impotente. Le fondamenta di un partito sono i valori comuni, l’idea di società, il desiderio di cambiamento, il progetto di governo, la «connessione sentimentale» (direbbe Antonio Gramsci) con quella parte di popolo che ne riconosce l’importanza, persino il legame di amicizia e di solidarietà.

Il passaggio che oggi l’assemblea nazionale del Pd è chiamata ad affrontare è particolarmente insidioso. Perché, nel contesto di una crisi profonda del sistema-Paese, concentra lo scontro politico sulle forme.

Certo che sono importanti le forme. Senza forme, senza regole, la politica non avrebbe alcuna speranza di recuperare una propria autonomia rispetto al dominio del mercato, della finanza, di chi detiene le grandi ricchezze, oltre che gli strumenti per farle circolare e quelli per condizionare la pubblica opinione. Ma le regole sono le righe dove si scrive la storia di un’impresa collettiva, di una speranza o di una innovazione, non saranno mai la ragione di un impegno, né di una battaglia di uguaglianza, né di una fraternità. Proprio chi dà valore alle regole e alle istituzioni ne riconosce la loro relatività.

Tanti nostri lettori ci manifestano il loro disagio, la loro inquietudine, il loro timore per come nel Pd si è aperta questa battaglia politica per la leadership. Non temono che passi un emendamento piuttosto che un altro. Temono che la trasparenza non venga garantita, oppure che la partecipazione non venga incentivata, oppure che il voto sia inquinato dalla presenza di elettori del centrodestra che scommettono sulla spaccatura del Pd. Ma più di ogni altra cosa temono proprio la divisione, la rottura, temono che il progetto naufraghi, che il centrosinistra si arrenda prima ancora di combattere, che le primarie producano alla fine un’emorragia dei consensi anziché un’espansione. Se la sfida è dare all’Italia un governo politico di cambiamento, un governo di centrosinistra alleato con i progressisti europei, tanti militanti ed elettori chiedono, anzi pretendono, anzitutto che la macchina delle primarie non porti acqua al mulino di un Monti bis (che a quel punto non sarebbe più un governo di emergenza, ma una soluzione tecnocratica per un Paese incapace di dotarsi di alternative politiche di caratura europea).

Guai se l’assemblea del Pd dimenticherà oggi che questa è la domanda principale a cui deve rispondere. Il progetto di governo vale più di ogni singola regola. È una responsabilità che riguarda tutti, nessuno escluso. Si può rinunciare a una norma, si può rinunciare persino a un’idea di sistema politico, ma se svanisce l’ambizione di governare il Paese con una politica che metta al primo posto il lavoro, una politica di maggiore equità, di innovazione, di sviluppo qualitativamente diverso, di legalità, di sussidiarietà, allora saltano le ragioni dello stare insieme e si rischia di smarrire persino il senso della diversità tra destra e sinistra.

Queste primarie, diciamo la verità, nascono dentro contraddizioni difficilmente sanabili. Ancora non è chiaro neppure con quale legge elettorale voteremo la prossima primavera. Non sappiamo se siamo condannati a restare ancora nella seconda Repubblica (fondata, quella sì, sul presidenzialismo di fatto e sulla demolizione dei partiti popolari) oppure se avremo la forza di compiere un primo passo fuori dal tunnel. Ciò che sappiamo è che lo statuto del Pd non è capace di regolare questa partita, né di rispondere alle domande che il segretario del Pd e i suoi sfidanti hanno posto. In questo contesto, molti bocconi amari devono essere mandati giù. Perché non si sono fatte le primarie congressuali anziché quelle di coalizione? Perché il Pd non si batte per rafforzare il partito anziché la coalizione? Perché non si chiede l’impegno a tutti gli sfidanti di sottoscrivere un patto per convergere presto nella medesima forza politica? Perché si cercano regole sempre diverse, aumentando così il rischio di trasformare una cruciale contesa politica in una sorta di concorso di bellezza? Le domande sono tante, e a dire il vero, anch’esse contraddittorie. Non c’è oggi una quadratura del cerchio.

C’è però un grave deficit di credibilità della politica, e delle stesse istituzioni democratiche. Ci vuole il coraggio di mettersi in discussione, di rischiare. I cittadini non sopportano la corruzione, e non sopportano neppure i privilegi della politica. E l’autoreferenzialità oggi appare come un privilegio. Bisogna aprire le porte. Siamo davanti a un bivio storico e il rinnovamento deve radicarsi su nuovi programmi e su un nuovo costume politico. Altrimenti restiamo dentro il paradigma culturale del berlusconismo. Dall’assemblea di oggi alle primarie, e poi alle secondarie, il Pd è chiamato a rispondere a questa chiamata: costruire un governo all’altezza del Paese. Un governo all’altezza di una domanda di cambiamento, dopo anni in cui i mercati finanziari hanno fatto da padrone e la destra europea da garante degli squilibri sociali. Un governo che faccia tesoro di ciò che Monti ha dato all’Italia ma che riesca a sconfiggere domani la tentazione oligarchica e tecnocratica. Per meno di questo, le primarie non avrebbero ragione di essere.

L’Unità 06.10.12

"Su cosa si fonda un partito", di Claudio Sardo

Un partito non si fonda su una regola, né su un emendamento. Non è vero neppure che il Pd si fondi sulle primarie, benché esse siano diventate un tratto distintivo della sua prassi democratica, del suo carattere partecipato, del proposito di spezzare l’autoreferenzialità di una politica peraltro divenuta impotente. Le fondamenta di un partito sono i valori comuni, l’idea di società, il desiderio di cambiamento, il progetto di governo, la «connessione sentimentale» (direbbe Antonio Gramsci) con quella parte di popolo che ne riconosce l’importanza, persino il legame di amicizia e di solidarietà.
Il passaggio che oggi l’assemblea nazionale del Pd è chiamata ad affrontare è particolarmente insidioso. Perché, nel contesto di una crisi profonda del sistema-Paese, concentra lo scontro politico sulle forme.
Certo che sono importanti le forme. Senza forme, senza regole, la politica non avrebbe alcuna speranza di recuperare una propria autonomia rispetto al dominio del mercato, della finanza, di chi detiene le grandi ricchezze, oltre che gli strumenti per farle circolare e quelli per condizionare la pubblica opinione. Ma le regole sono le righe dove si scrive la storia di un’impresa collettiva, di una speranza o di una innovazione, non saranno mai la ragione di un impegno, né di una battaglia di uguaglianza, né di una fraternità. Proprio chi dà valore alle regole e alle istituzioni ne riconosce la loro relatività.
Tanti nostri lettori ci manifestano il loro disagio, la loro inquietudine, il loro timore per come nel Pd si è aperta questa battaglia politica per la leadership. Non temono che passi un emendamento piuttosto che un altro. Temono che la trasparenza non venga garantita, oppure che la partecipazione non venga incentivata, oppure che il voto sia inquinato dalla presenza di elettori del centrodestra che scommettono sulla spaccatura del Pd. Ma più di ogni altra cosa temono proprio la divisione, la rottura, temono che il progetto naufraghi, che il centrosinistra si arrenda prima ancora di combattere, che le primarie producano alla fine un’emorragia dei consensi anziché un’espansione. Se la sfida è dare all’Italia un governo politico di cambiamento, un governo di centrosinistra alleato con i progressisti europei, tanti militanti ed elettori chiedono, anzi pretendono, anzitutto che la macchina delle primarie non porti acqua al mulino di un Monti bis (che a quel punto non sarebbe più un governo di emergenza, ma una soluzione tecnocratica per un Paese incapace di dotarsi di alternative politiche di caratura europea).
Guai se l’assemblea del Pd dimenticherà oggi che questa è la domanda principale a cui deve rispondere. Il progetto di governo vale più di ogni singola regola. È una responsabilità che riguarda tutti, nessuno escluso. Si può rinunciare a una norma, si può rinunciare persino a un’idea di sistema politico, ma se svanisce l’ambizione di governare il Paese con una politica che metta al primo posto il lavoro, una politica di maggiore equità, di innovazione, di sviluppo qualitativamente diverso, di legalità, di sussidiarietà, allora saltano le ragioni dello stare insieme e si rischia di smarrire persino il senso della diversità tra destra e sinistra.
Queste primarie, diciamo la verità, nascono dentro contraddizioni difficilmente sanabili. Ancora non è chiaro neppure con quale legge elettorale voteremo la prossima primavera. Non sappiamo se siamo condannati a restare ancora nella seconda Repubblica (fondata, quella sì, sul presidenzialismo di fatto e sulla demolizione dei partiti popolari) oppure se avremo la forza di compiere un primo passo fuori dal tunnel. Ciò che sappiamo è che lo statuto del Pd non è capace di regolare questa partita, né di rispondere alle domande che il segretario del Pd e i suoi sfidanti hanno posto. In questo contesto, molti bocconi amari devono essere mandati giù. Perché non si sono fatte le primarie congressuali anziché quelle di coalizione? Perché il Pd non si batte per rafforzare il partito anziché la coalizione? Perché non si chiede l’impegno a tutti gli sfidanti di sottoscrivere un patto per convergere presto nella medesima forza politica? Perché si cercano regole sempre diverse, aumentando così il rischio di trasformare una cruciale contesa politica in una sorta di concorso di bellezza? Le domande sono tante, e a dire il vero, anch’esse contraddittorie. Non c’è oggi una quadratura del cerchio.
C’è però un grave deficit di credibilità della politica, e delle stesse istituzioni democratiche. Ci vuole il coraggio di mettersi in discussione, di rischiare. I cittadini non sopportano la corruzione, e non sopportano neppure i privilegi della politica. E l’autoreferenzialità oggi appare come un privilegio. Bisogna aprire le porte. Siamo davanti a un bivio storico e il rinnovamento deve radicarsi su nuovi programmi e su un nuovo costume politico. Altrimenti restiamo dentro il paradigma culturale del berlusconismo. Dall’assemblea di oggi alle primarie, e poi alle secondarie, il Pd è chiamato a rispondere a questa chiamata: costruire un governo all’altezza del Paese. Un governo all’altezza di una domanda di cambiamento, dopo anni in cui i mercati finanziari hanno fatto da padrone e la destra europea da garante degli squilibri sociali. Un governo che faccia tesoro di ciò che Monti ha dato all’Italia ma che riesca a sconfiggere domani la tentazione oligarchica e tecnocratica. Per meno di questo, le primarie non avrebbero ragione di essere.
L’Unità 06.10.12

"La rabbia degli studenti. Scontri e feriti in piazza", di Chiara Saraceno

Non hanno solo protestato contro i tagli ad una scuola stretta tra le mirabolanti promesse tecnologiche e i soffitti che crollano, tra premi per i più bravi e riduzione delle risorse necessarie perché i meritevoli possano davvero provare di esserlo, nonostante disuguali condizioni di partenza.
HANNO dichiarato la loro sfiducia a tutta la classe dirigente, agli adulti che hanno il potere di prendere le decisioni cruciali per il loro destino: governo, partiti politici, sindacati, imprenditori. Derubricare questa protesta come manifestazione adolescenziale senza una vera maturità politica, sarebbe grave e forse pericoloso. Dopo essersi sentiti definire da tutti una generazione perduta, questi ragazzi stanno provando a dire che non vogliono fare le vittime sacrificali degli errori altrui. Lo spettacolo dato dalla politica è stato una miccia per una ribellione che non poteva non esplodere. A fronte delle continue esortazioni a portare pazienza, perché non ci sono risorse, alla promessa che la riforma delle pensioni e quella del lavoro sono state fatte per loro, i giovani, è arrivata anche la prova che molti soldi vengono buttati, che chi ha il potere di decidere si tiene stretti i propri privilegi (e qualcuno anche ruba). Sarà semplicistico dedurre che basterebbe togliere, subito, non a partire dalla prossima legislatura, rimborsi elettorali, vitalizi e pensioni facili e ridurre un po’ gli stipendi dei politici, per avere le risorse necessarie alla scuola e ai servizi sociali. Ma andatelo a spiegare a ragazzi che si sentono continuamente fare la lezione da chi poi pratica, o avvalla, o non denuncia questi sprechi e abusi. Non mi sorprende che la sfiducia sia più bruciante nei confronti del centro-sinistra e dei sindacati: perché da loro ci si aspettava di più.
Anche nel movimento del ‘68 la critica ai partiti di sinistra era stata radicale e un po’ tranchant. Ma allora l’accusa era di aver tradito la promessa di cambiare il mondo. Il terreno del conflitto, persino gli ideali, erano, o si volevano, comuni. Oggi l’accusa rivolta ai politici di ogni colore è che pensano solo a farsi gli affari propri, che badano solo al proprio interesse. Spero che nessun partito e nessun gruppo dirigente pensi di poter cavalcare questa protesta a puri fini elettoralistici. O viceversa di poterla ignorare come una febbre di stagione o bollarla di anti-politica. Tanto più che dietro a quelli che sono scesi a protestare, ci sono i molti altri che esprimono la sfiducia nel silenzio, nel cinismo di chi sa che tanto non cambia nulla. E ci sono gli adulti, i genitori, altrettanto sfiduciati se non anche un po’ atterriti dalla tenaglia della crisi economica, cui si aggiunge quella della devastazione economica e morale prodotta dalla gestione politica e della politica ad ogni livello.
Il governo e i partiti, in particolare il Pd se vuole continuare ad avere un senso e un futuro, hanno la responsabilità di provare a ricostruire un terreno di comunicazione, prima ancora che di confronto, con questa generazione. Senza false promesse, ma anche senza dire loro che l’unica cosa che si può fare oggi è attraversare il deserto, stringendo i denti, e poi si vedrà. Occorre restituire a questi ragazzi la speranza che anche per loro ci sia un futuro dignitoso, per il quale valga la pena di impegnarsi, la dignità di essere considerati come la risorsa più preziosa. Occorre mostrare loro che ci sono interlocutori affidabili, non solo perché non rubano e sono sobri, ma per le scelte che fanno e che accettano di discutere e verificare con gli interessati. Altrimenti sì che si rischia di abbandonarli ad un destino di generazione perduta, con la rabbia, la violenza, il cinismo che ne sono l’inevitabile corollario.

La Repubblica 06.10.12

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“E nei twitter da un corteo all’altro paure e speranze dei nuovi arrabbiati”, di Corrado Zunino

Fumogeni granata accesi da ragazzi con la maglietta “Roma antifa’”, manganelli che scendono sugli scudi letterari che difendono la prima fila, i book bloc la cui fama è ormai consegnata ai libri di carta. Hanno quindici anni i ragazzi e twitter gli fa sapere che a Torino e a Bologna quindicenni hanno sfondato le linee del reparto mobile. “Sfondiamo anche noi”. Porta Portese, il mercato dell’usato e del rubato della capitale, è la nuova linea Maginot per i nuovi studenti in strada. Accelerano il passo, corrono, altre manganellate della polizia. Questa volta sui denti, sugli zigomi. Uno di loro, quindici anni, viene trascinato via, sull’asfalto, per la maglietta rossa. Due calci alla schiena, poi il vicequestore chiamerà i genitori.

L’autunno caldo è qui, sotto il sole di un’altra giornata d’estate. Dopo gli operai dell’Alcoa, in corteo ora ci sono adolescenti del ciclo superiore della scuola media. Sono tornati in piazza gli studenti delle metropoli, delle scuole dei centri storici italiani. Come nell’autunno 2008, quando l’Onda s’infranse sullo scontro in piazza Navona rossi contro fasci . Come nell’autunno 2010, quando il movimento anti-Gelmini insorse in piazza del Popolo appena seppe – da twitter – che il governo Berlusconi restava in piedi comprando tre deputati di Fli. Quella generazione, Generazione P, precaria, perse perché le leggi Gelmini sulla scuola e sull’università contestate sui tetti passarono in aula. Vinse, però, perché resistette un secondo in più del governo Berlusconi, come aveva promesso.

I quindicenni sotto l’arco di Porta Portese, cresciuti sotto un governo tecnico che non capiscono, che non è roba loro, ora sono arrabbiati, spauriti. Insieme. Sono organizzati male, visto che sono nuovi all’impresa, e pericolosi quando si muovono nelle strade di Trastevere fra le auto parcheggiate e i negozi con la merce esposta sul marciapiede. Sono fuori controllo, ecco. Le generazioni precedenti che si erano fatte (e rotte) le ossa in piazza sono filate via all’università e quelli dell’università arriveranno solo venerdì prossimo. Un altro corteo.

Berlusconi no, non c’è più. Ora c’è un governo di liberali, di cattolici e di banchieri gradito all’Europa e a Obama e un ministro dell’Istruzione che loro, quindicenni, scambiano per un banchiere. I loro fratelli maggiori sono precari come sotto Berlusconi e le tasse universitarie sono di nuovo cresciute, per volontà del ministro o dei singoli atenei poco importa. E la legge Fornero, che gli aveva promesso di spazzare via le quarantotto precarietà istituzionalizzate dal codice civile, gli offre solo un nuovo tirocinio. Per andare dove?

“No alla tessera del tifoso”, dice l’altra t-shirt, perché prima di venire in piazza si è fatta formazione in curva. I licei alla testa del corteo romano, dietro lo striscione “Riprendiamoci la scuola e le città”, sono i soliti. Il Virgilio, il Tasso, il Righi, il Mameli. Protestano anche per conto degli istituti tecnici in periferia, assicurano, lì se devono saltare scuola poi in corteo non ci vanno: “Non siamo una questione di ordine pubblico, ma se non ci ascoltate lo diventeremo”, urla al megafono uno che ha un paio d’anni più degli altri. I volti di alcuni che invece urlano “sbitto di m…” raccontano come i loro genitori arrivarono qui, nell’altro secolo, dalla Cina, dal Perù, dal Senegal. E loro ora cantano i cori con l’accento romano, li hanno assimilati allo stadio. Parlano dell’As Roma come fosse cosa loro, altro che governo tecnico. I ragazzini precari sono tornati, la precarietà dei ragazzini è sempre lì. L’autunno sarà lungo.

La Repubblica 06.10.12

"La rabbia degli studenti. Scontri e feriti in piazza", di Chiara Saraceno

Non hanno solo protestato contro i tagli ad una scuola stretta tra le mirabolanti promesse tecnologiche e i soffitti che crollano, tra premi per i più bravi e riduzione delle risorse necessarie perché i meritevoli possano davvero provare di esserlo, nonostante disuguali condizioni di partenza.
HANNO dichiarato la loro sfiducia a tutta la classe dirigente, agli adulti che hanno il potere di prendere le decisioni cruciali per il loro destino: governo, partiti politici, sindacati, imprenditori. Derubricare questa protesta come manifestazione adolescenziale senza una vera maturità politica, sarebbe grave e forse pericoloso. Dopo essersi sentiti definire da tutti una generazione perduta, questi ragazzi stanno provando a dire che non vogliono fare le vittime sacrificali degli errori altrui. Lo spettacolo dato dalla politica è stato una miccia per una ribellione che non poteva non esplodere. A fronte delle continue esortazioni a portare pazienza, perché non ci sono risorse, alla promessa che la riforma delle pensioni e quella del lavoro sono state fatte per loro, i giovani, è arrivata anche la prova che molti soldi vengono buttati, che chi ha il potere di decidere si tiene stretti i propri privilegi (e qualcuno anche ruba). Sarà semplicistico dedurre che basterebbe togliere, subito, non a partire dalla prossima legislatura, rimborsi elettorali, vitalizi e pensioni facili e ridurre un po’ gli stipendi dei politici, per avere le risorse necessarie alla scuola e ai servizi sociali. Ma andatelo a spiegare a ragazzi che si sentono continuamente fare la lezione da chi poi pratica, o avvalla, o non denuncia questi sprechi e abusi. Non mi sorprende che la sfiducia sia più bruciante nei confronti del centro-sinistra e dei sindacati: perché da loro ci si aspettava di più.
Anche nel movimento del ‘68 la critica ai partiti di sinistra era stata radicale e un po’ tranchant. Ma allora l’accusa era di aver tradito la promessa di cambiare il mondo. Il terreno del conflitto, persino gli ideali, erano, o si volevano, comuni. Oggi l’accusa rivolta ai politici di ogni colore è che pensano solo a farsi gli affari propri, che badano solo al proprio interesse. Spero che nessun partito e nessun gruppo dirigente pensi di poter cavalcare questa protesta a puri fini elettoralistici. O viceversa di poterla ignorare come una febbre di stagione o bollarla di anti-politica. Tanto più che dietro a quelli che sono scesi a protestare, ci sono i molti altri che esprimono la sfiducia nel silenzio, nel cinismo di chi sa che tanto non cambia nulla. E ci sono gli adulti, i genitori, altrettanto sfiduciati se non anche un po’ atterriti dalla tenaglia della crisi economica, cui si aggiunge quella della devastazione economica e morale prodotta dalla gestione politica e della politica ad ogni livello.
Il governo e i partiti, in particolare il Pd se vuole continuare ad avere un senso e un futuro, hanno la responsabilità di provare a ricostruire un terreno di comunicazione, prima ancora che di confronto, con questa generazione. Senza false promesse, ma anche senza dire loro che l’unica cosa che si può fare oggi è attraversare il deserto, stringendo i denti, e poi si vedrà. Occorre restituire a questi ragazzi la speranza che anche per loro ci sia un futuro dignitoso, per il quale valga la pena di impegnarsi, la dignità di essere considerati come la risorsa più preziosa. Occorre mostrare loro che ci sono interlocutori affidabili, non solo perché non rubano e sono sobri, ma per le scelte che fanno e che accettano di discutere e verificare con gli interessati. Altrimenti sì che si rischia di abbandonarli ad un destino di generazione perduta, con la rabbia, la violenza, il cinismo che ne sono l’inevitabile corollario.
La Repubblica 06.10.12
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“E nei twitter da un corteo all’altro paure e speranze dei nuovi arrabbiati”, di Corrado Zunino
Fumogeni granata accesi da ragazzi con la maglietta “Roma antifa’”, manganelli che scendono sugli scudi letterari che difendono la prima fila, i book bloc la cui fama è ormai consegnata ai libri di carta. Hanno quindici anni i ragazzi e twitter gli fa sapere che a Torino e a Bologna quindicenni hanno sfondato le linee del reparto mobile. “Sfondiamo anche noi”. Porta Portese, il mercato dell’usato e del rubato della capitale, è la nuova linea Maginot per i nuovi studenti in strada. Accelerano il passo, corrono, altre manganellate della polizia. Questa volta sui denti, sugli zigomi. Uno di loro, quindici anni, viene trascinato via, sull’asfalto, per la maglietta rossa. Due calci alla schiena, poi il vicequestore chiamerà i genitori.
L’autunno caldo è qui, sotto il sole di un’altra giornata d’estate. Dopo gli operai dell’Alcoa, in corteo ora ci sono adolescenti del ciclo superiore della scuola media. Sono tornati in piazza gli studenti delle metropoli, delle scuole dei centri storici italiani. Come nell’autunno 2008, quando l’Onda s’infranse sullo scontro in piazza Navona rossi contro fasci . Come nell’autunno 2010, quando il movimento anti-Gelmini insorse in piazza del Popolo appena seppe – da twitter – che il governo Berlusconi restava in piedi comprando tre deputati di Fli. Quella generazione, Generazione P, precaria, perse perché le leggi Gelmini sulla scuola e sull’università contestate sui tetti passarono in aula. Vinse, però, perché resistette un secondo in più del governo Berlusconi, come aveva promesso.
I quindicenni sotto l’arco di Porta Portese, cresciuti sotto un governo tecnico che non capiscono, che non è roba loro, ora sono arrabbiati, spauriti. Insieme. Sono organizzati male, visto che sono nuovi all’impresa, e pericolosi quando si muovono nelle strade di Trastevere fra le auto parcheggiate e i negozi con la merce esposta sul marciapiede. Sono fuori controllo, ecco. Le generazioni precedenti che si erano fatte (e rotte) le ossa in piazza sono filate via all’università e quelli dell’università arriveranno solo venerdì prossimo. Un altro corteo.
Berlusconi no, non c’è più. Ora c’è un governo di liberali, di cattolici e di banchieri gradito all’Europa e a Obama e un ministro dell’Istruzione che loro, quindicenni, scambiano per un banchiere. I loro fratelli maggiori sono precari come sotto Berlusconi e le tasse universitarie sono di nuovo cresciute, per volontà del ministro o dei singoli atenei poco importa. E la legge Fornero, che gli aveva promesso di spazzare via le quarantotto precarietà istituzionalizzate dal codice civile, gli offre solo un nuovo tirocinio. Per andare dove?
“No alla tessera del tifoso”, dice l’altra t-shirt, perché prima di venire in piazza si è fatta formazione in curva. I licei alla testa del corteo romano, dietro lo striscione “Riprendiamoci la scuola e le città”, sono i soliti. Il Virgilio, il Tasso, il Righi, il Mameli. Protestano anche per conto degli istituti tecnici in periferia, assicurano, lì se devono saltare scuola poi in corteo non ci vanno: “Non siamo una questione di ordine pubblico, ma se non ci ascoltate lo diventeremo”, urla al megafono uno che ha un paio d’anni più degli altri. I volti di alcuni che invece urlano “sbitto di m…” raccontano come i loro genitori arrivarono qui, nell’altro secolo, dalla Cina, dal Perù, dal Senegal. E loro ora cantano i cori con l’accento romano, li hanno assimilati allo stadio. Parlano dell’As Roma come fosse cosa loro, altro che governo tecnico. I ragazzini precari sono tornati, la precarietà dei ragazzini è sempre lì. L’autunno sarà lungo.
La Repubblica 06.10.12

"Cinque mosse per la scuola", di Benedetto Vertecchi

Quella che stiamo attraversando è una fase critica nello sviluppo del nostro sistema scolastico. Ci troviamo infatti di fronte a cambiamenti capaci di incidere profondamente. Autentiche «mutazioni» che riguardano, non solo il modo in cui la scuola esercita il proprio compito di educazione, ma la stessa interpretazione di tale compito. Molti di questi cambiamenti sono comuni al nostro sistema scolastico e a quelli di altri paesi industrializzati, in Europa e altrove. La motivazione degli allievi nei confronti dell’apprendimento è cambiata, la professione degli insegnanti ha perso molte delle caratteristiche che in altri momenti le avevano conferito credito sociale, le famiglie rivolgono alle scuole una domanda di educazione che non si limita alla sola trasmissione di una cultura organizzata, ma si estende ad aspetti (sia cognitivi, sia affettivi e di relazione) che hanno acquistato rilevanza nella vita sociale.

Il fatto è che le scuole si trovano a far fronte alle nuove esigenze in un contesto sempre più difficile. Ed è il modo in cui si affrontano le difficoltà che distingue le politiche scolastiche nei diversi paesi. In Italia si è affermato uno stile di intervento basato su fattori sincronici. Si lamenta il livello scadente dei risultati di apprendimento conseguiti dagli allievi, si compara la consistenza del personale docente rispetto a quella di altri sistemi scolastici, si rileva l’entità della spesa e così via. E, dal momento che per qualche aspetto può sembrare che le risorse non siano impegnate nel modo più opportuno, non si sa fare di meglio che tagliare la parte di spesa considerata eccessiva. A questi interventi, che complicano il funzionamento delle scuole, si affiancano annunci di modernizzazione che il più delle volte sono solo cascami di un senso comune. Non ci si preoccupa di capire i cambiamenti in atto e la complessità degli elementi che sono alla loro origine. Si fa riferimento a dati che non spiegano in che modo si sia giunti alla condizioni che si sta lamentando, e si prendono provvedimenti che in molti casi non potranno che aggiungere nuove
difficoltà. Quel che si passa sotto silenzio è che la crisi del sistema scolastico non può essere affrontata in mancanza di un disegno d’insieme, a tracciare il quale concorrano sia specifiche conoscenze che derivino da un impegno prolungato nella ricerca, sia la definizione di intenti capaci di riconfigurare il rapporto tra la scuola e la società. In pratica, ciò equivale ad affermare che per uscire dalla crisi c’è bisogno di elaborare una politica scolastica. È ciò che non si fa in Italia, ma è ciò che si sta facendo altrove. L’esempio più recente è quello offerto dalla Francia. Da alcuni mesi, da quando Hollande si è insediato alla presidenza della Repubblica, ha avuto inizio un percorso che si propone di condurre a una vera e propria rifondazione della scuola della Repubblica. Il confronto che si è avviato non si limita a osservare che c’è una frazione consistente degli allievi che si colloca al di sotto dei livelli medi risultanti dalle rilevazioni periodiche dell’Ocse. In Francia, nel primo decennio del secolo, si è assistito ad un fenomeno non troppo diverso da quello che si è verificato anche in Italia, e cioè alla crescita dell’intervallo che, dal punto di vista qualitativo, separa gli allievi delle classi popolari da quelli appartenenti a strati sociali di livello superiore. Il problema che il sistema scolastico francese si trova ad affrontare è di ricreare le condizioni di una scuola della Repubblica, e cioè che si ponga l’educazione a fondamento dei rapporti sociali, assicurando le medesime opportunità di fruire del patrimonio culturale e di partecipare alla vita politica a tutti i cittadini.

Sono cinque le condizioni considerate indispensabili per dar vita alla nuova scuola, più giusta e più efficace. In qualche caso, non si tratta di novità in senso assoluto (per esempio, non mancano echi delle linee di politica scolastica della presidenza Kennedy), ma complessivamente il disegno configura una vera e propria rivoluzione: 1) occorre promuovere una forte integrazione sociale all’interno delle classi e delle scuole, nonché degli indirizzi di studio; 2) l’educazione deve essere il risultato di un impegno che coinvolge le scuole e le famiglie, ed al quale concorrano quanti sono in grado di fornire contributi utili (questa condizione è considerata il punto di forza delle scuole pubbliche rispetto a quelle private); 3) le scelte relative a indirizzi di studio che comportano una differenziazione dei percorsi debbono essere effettuate quando gli allievi sono effettivamente in grado di compierle; 4) c’è bisogno di migliorare le condizioni di continuità nel percorso educativo che investe il complesso della popolazione (è un impegno, questo, che richiede l’acquisizione da parte degli insegnanti di competenze particolarmente complesse; 5) è indispensabile rivedere l’intero sistema della formazione degli insegnanti e le condizioni per l’accesso alla professione. Le prime decisioni (come quelle relative alla valutazione e al reclutamento di nuovo personale) sembrano indicare che dalla enunciazione delle linee della nuova politica scolastica si è già passati alla sua attuazione. Sarà interessante seguire i passi successivi.

L’Unità 06.10.12