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"Più alunni per classe ma la paga dei prof scende", di Giovanni Scancarello

Quasi ovunque il numero di studenti per classe diminuisce per mettere la scuola in condizione di sfruttare al massimo le potenzialità dell’autonomia. E se non accade è perché i finanziamenti servono a retribuire meglio i docenti. Ebbene, in Italia non succede né l’una né l’altra cosa. Dal 2000 al 2010, affermano i ricercatori Ocse nell’ultimo rapporto sull’educazione, nel mondo la media delle classi è scesa di uno studente per classe sia alle primarie che alle medie. Si passa dai 17,4 studenti per classe in Islanda ai 38,5 della Corea nel 2000, dai 19,4 studenti in Lussemburgo e Regno Unito, ai 34,7 della Corea nel 2010. In Paesi come l’Italia, che invece avevano classi meno affollate nel 2000, il numero degli alunni è in aumento, da noi anche per effetto dell’incremento di un punto del rapporto alunni/docenti previsto dall’articolo 64 del decreto-legge n. 112 del 2008. Va detto che che nella 57^ seduta del gruppo di senatori del 2008 aveva ammonito l’allora governo Berlusconi sui rischi del sovraffollamento delle classi, con il cambio di governo le cose non sono cambiate. È vero che con l’art. 50 del decreto legge semplificazioni è stato poi annunciato dal governo Monti un piano di potenziamento dell’autonomia scolastica, con l’istituzione dell’organico funzionale d’istituto e di rete, ma è ormai da giugno che le scuole aspettano l’uscita dei decreti attuativi della legge di conversione. Alla fine la sensazione che emerge anche dalla lettura dei dati Ocse è disorientante. Da una parte il previsto aumento degli studenti per classe avrebbe dovuto portare ad un aumento degli stipendi che non c’è stato. Dall’altra si richiede alla scuola dell’autonomia di lavorare per personalizzare il curricolo ma con le risorse della scuola dei primi governi unitari. Alla fine quasi ovunque, tra il 2000 e il 2010, i salari dei docenti sono cresciuti, tranne che in Italia. Non solo, ma l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui il salario dei docenti praticamente diminuisce a fronte dell’incremento del numero di studenti per classe (più 9% in dieci anni). Fosse almeno servito per stimolare i docenti pagandoli appunto di più, sarà pure argomento di bassa lega, ma sembvra che altrove funzioni (Brewer, Krop, Gill, and Reichardt, 1999, Blatchford et al., 2002).
da ItaliaOggi 02.10.12

"Concorso in bilico, ecco perché", di Carlo Forte

Il concorso a cattedra dell’era Profumo non piace ai precari e ai sindacati. E rischia di rimanere schiacciato sotto il maglio del Tar Lazio. Perché il bando presenta alcuni punti deboli, grazie ai quali gli eventuali ricorrenti potrebbero avere gioco facile in eventuali azioni di annullamento. Sia quelli che vorrebbero impedire che il concorso si tenesse, sia quelli che vorrebbero parteciparvi, ma non possono, perché non possiedono i requisiti per accedere alla selezione.

Va detto subito che, a seconda delle posizioni dei potenziali ricorrenti, cambiano anche i rimedi esperibili. In ogni caso, per impugnare il bando davanti al Tar Lazio per chiederne la cancellazione basta anche un solo ricorrente. Perché un’eventuale sentenza costitutiva di annullamento, da parte dei giudici amministrativi, oltre a travolgere il bando, comporterebbe l’obbligo, per l’amministrazione, di scriverlo da capo attenendosi alle disposizioni del Tar indicate nella sentenza.

Per contro, eventuali azioni volte ad ottenere l’ammissione al concorso, dovrebbero necessariamente essere proposte da ognuno di soggetti interessati. In questi casi, infatti, eventuali pronunce favorevoli avrebbero effetti solo per i ricorrenti. Sempre che l’amministrazione, in via di autotutela, non dovesse decidere di sanare la questione azzerando tutto a reiterando la procedura. Ipotesi, questa, invero assai improbabile. E comunque percorribile solo nel caso in cui le selezioni concorsuali non fossero state avviate.

Quanto alle posizioni dei sindacati, sebbene modulate a varie altezze, il dissenso è pressoché unanime. Secondo la Flc-Cgil si tratta di «un provvedimento inutile e costoso». La Cisl parla invece di emanazione frettolosa «che rischia di non risolvere affatto i problemi esistenti ma di crearne ancora di più». Per la Uil sarebbe opportuno indire concorsi solo «dove sono esaurite le graduatorie.». Lo Snals lamenta che l’amministrazione avrebbe dovuto «procedere con gradualità, trasparenza e sulla base di un confronto con i sindacati, che purtroppo è mancato». Infine, per la Gilda-Unams «mettere in piedi la macchina concorsuale senza aver prima affrontato i problemi di tutti coloro che sono già abilitati all’insegnamento, costituisce solo un grande spreco e mostra l´indifferenza ministeriale nei confronti dei precari».

Si tratta per il momento di posizioni politiche, che però veicolano l’umore della piazza dei precari. Che potrebbero non fermarsi alla mera critica e procedere con azioni legali vere e proprie. Tanto più che c’è già un precedente. Il Consiglio di stato, infatti, ha stabilito che il principio dello scorrimento della graduatoria, in luogo della indizione di nuovi concorsi sugli stessi posti, non vale solo per le amministrazioni soggette a vincoli sulle assunzioni. Ma anche per le altre amministrazioni che, in ogni caso, restano soggette all’osservanza del vincolo dell’obiettivo della riduzione della spesa per il personale «tipicamente attraverso una solo parziale reintegrazione delle unità cessate dal servizio»(V sezione. n. 4770/2012).

E siccome il nuovo concorso sembrerebbe essere stato tarato sull’intera copertura del turn over (in tandem con lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento) la tesi della illegittimità del concorso potrebbe avere un qualche fondamento. Specie se si pensa alla situazione dei precari che si trovano attualmente ai vertici delle graduatorie dei precedenti concorsi. Che si vedranno soffiare l’immissione in ruolo sotto il naso quando entreranno in vigore le graduatorie dei nuovi concorsi.

E poi ci sono gli argomenti di chi invece il concorso vorrebbe farlo. Come per esempio i docenti di ruolo ai quali l’accesso alla selezione è precluso, sebbene non vi sia alcuna norma che lo preveda. A nulla rilevando che il comma 4 quinquies all’art. 1 della legge n. 167/09 preveda la cancellazione da tutte le graduatorie a esaurimento all’atto dell’immissione in ruolo. La norma, infatti, vale solo nel caso espressamente previsto dalla disposizione.

E poi ci sono altri soggetti, che lamentano l’esclusione dal concorso di coloro che vantano il possesso dei titoli di studio conseguiti dopo il 2001. E cioè, nel periodo di tempo non coperto dagli effetti del decreto interministeriale 10 marzo 1997. Tesi, questa, che sembrerebbe non tenere conto del carattere di norma eccezionale del decreto e, quindi, della necessaria limitatezza della relativa sfera di incidenza anche sul piano strettamente temporale.

Oppure lamentano illegittimità nell’individuazione della soglia minima di punteggio necessario al superamento delle preselezioni (35/50). Che pure sembrerebbe identica a quella delle prove, nonché informata alle norme generali in materia di concorsi nella pubblica amministrazione, che fissano tale soglia in 7/10.

E poi c’è il problema delle pari opportunità da assicurare ai candidati in sede di preselezione, che sembrerebbe il vero vulnus della situazione, a causa della «varietà» dei pc costituenti il parco informatico delle scuole dove si svolgeranno tali prove.

da ItaliaOggi 02.10.12

"Concorso in bilico, ecco perché", di Carlo Forte

Il concorso a cattedra dell’era Profumo non piace ai precari e ai sindacati. E rischia di rimanere schiacciato sotto il maglio del Tar Lazio. Perché il bando presenta alcuni punti deboli, grazie ai quali gli eventuali ricorrenti potrebbero avere gioco facile in eventuali azioni di annullamento. Sia quelli che vorrebbero impedire che il concorso si tenesse, sia quelli che vorrebbero parteciparvi, ma non possono, perché non possiedono i requisiti per accedere alla selezione.
Va detto subito che, a seconda delle posizioni dei potenziali ricorrenti, cambiano anche i rimedi esperibili. In ogni caso, per impugnare il bando davanti al Tar Lazio per chiederne la cancellazione basta anche un solo ricorrente. Perché un’eventuale sentenza costitutiva di annullamento, da parte dei giudici amministrativi, oltre a travolgere il bando, comporterebbe l’obbligo, per l’amministrazione, di scriverlo da capo attenendosi alle disposizioni del Tar indicate nella sentenza.
Per contro, eventuali azioni volte ad ottenere l’ammissione al concorso, dovrebbero necessariamente essere proposte da ognuno di soggetti interessati. In questi casi, infatti, eventuali pronunce favorevoli avrebbero effetti solo per i ricorrenti. Sempre che l’amministrazione, in via di autotutela, non dovesse decidere di sanare la questione azzerando tutto a reiterando la procedura. Ipotesi, questa, invero assai improbabile. E comunque percorribile solo nel caso in cui le selezioni concorsuali non fossero state avviate.
Quanto alle posizioni dei sindacati, sebbene modulate a varie altezze, il dissenso è pressoché unanime. Secondo la Flc-Cgil si tratta di «un provvedimento inutile e costoso». La Cisl parla invece di emanazione frettolosa «che rischia di non risolvere affatto i problemi esistenti ma di crearne ancora di più». Per la Uil sarebbe opportuno indire concorsi solo «dove sono esaurite le graduatorie.». Lo Snals lamenta che l’amministrazione avrebbe dovuto «procedere con gradualità, trasparenza e sulla base di un confronto con i sindacati, che purtroppo è mancato». Infine, per la Gilda-Unams «mettere in piedi la macchina concorsuale senza aver prima affrontato i problemi di tutti coloro che sono già abilitati all’insegnamento, costituisce solo un grande spreco e mostra l´indifferenza ministeriale nei confronti dei precari».
Si tratta per il momento di posizioni politiche, che però veicolano l’umore della piazza dei precari. Che potrebbero non fermarsi alla mera critica e procedere con azioni legali vere e proprie. Tanto più che c’è già un precedente. Il Consiglio di stato, infatti, ha stabilito che il principio dello scorrimento della graduatoria, in luogo della indizione di nuovi concorsi sugli stessi posti, non vale solo per le amministrazioni soggette a vincoli sulle assunzioni. Ma anche per le altre amministrazioni che, in ogni caso, restano soggette all’osservanza del vincolo dell’obiettivo della riduzione della spesa per il personale «tipicamente attraverso una solo parziale reintegrazione delle unità cessate dal servizio»(V sezione. n. 4770/2012).
E siccome il nuovo concorso sembrerebbe essere stato tarato sull’intera copertura del turn over (in tandem con lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento) la tesi della illegittimità del concorso potrebbe avere un qualche fondamento. Specie se si pensa alla situazione dei precari che si trovano attualmente ai vertici delle graduatorie dei precedenti concorsi. Che si vedranno soffiare l’immissione in ruolo sotto il naso quando entreranno in vigore le graduatorie dei nuovi concorsi.
E poi ci sono gli argomenti di chi invece il concorso vorrebbe farlo. Come per esempio i docenti di ruolo ai quali l’accesso alla selezione è precluso, sebbene non vi sia alcuna norma che lo preveda. A nulla rilevando che il comma 4 quinquies all’art. 1 della legge n. 167/09 preveda la cancellazione da tutte le graduatorie a esaurimento all’atto dell’immissione in ruolo. La norma, infatti, vale solo nel caso espressamente previsto dalla disposizione.
E poi ci sono altri soggetti, che lamentano l’esclusione dal concorso di coloro che vantano il possesso dei titoli di studio conseguiti dopo il 2001. E cioè, nel periodo di tempo non coperto dagli effetti del decreto interministeriale 10 marzo 1997. Tesi, questa, che sembrerebbe non tenere conto del carattere di norma eccezionale del decreto e, quindi, della necessaria limitatezza della relativa sfera di incidenza anche sul piano strettamente temporale.
Oppure lamentano illegittimità nell’individuazione della soglia minima di punteggio necessario al superamento delle preselezioni (35/50). Che pure sembrerebbe identica a quella delle prove, nonché informata alle norme generali in materia di concorsi nella pubblica amministrazione, che fissano tale soglia in 7/10.
E poi c’è il problema delle pari opportunità da assicurare ai candidati in sede di preselezione, che sembrerebbe il vero vulnus della situazione, a causa della «varietà» dei pc costituenti il parco informatico delle scuole dove si svolgeranno tali prove.
da ItaliaOggi 02.10.12

"Il sistema Sesto del proconsole rosso", di Piero Colaprico

Fatti e accuse vecchi di dodici anni fa», dice Filippo Penati. Ma i contributi nel 2009, sotto elezioni, tanto vecchi non sono. Nessuna novità rilevante », ribadisce, ma i pubblici ministeri mettono nero su bianco che “Fare metropoli”, l’associazione culturale legata all’ex presidente della Provincia di Milano, era il «mero schermo destinato ad occultare la diretta destinazione delle somme a Penati ». Non c’è solo l’inchiesta giudiziaria, con i suoi tempi e i suoi riscontri, ma anche una scansione di storie (sia certe, sia ambigue) a rendere difficile la posizione giudiziaria, e politica, ovviamente, di Penati: del fu proconsole dell’ex Pci nelle terre del centrodestra leghista e berlusconiano.
Era Penati un taciturno funzionario che «ci sapeva fare», era stato il sindaco di Sesto San Giovanni, paese di operai che nel dopoguerra e negli anni del boom votavano in massa Pci. Quando le fabbriche spengono le ciminiere e le città crescono cosmopolite, terziarie, senza tute blu, quelle aree industriali, vuote e rimesse a nuovo, diventano splendide per il business immobiliare. Una di queste, la ex Ercole Marelli, era nelle mani di un ricco imprenditore di Sesto, Giuseppe Pasini. Al momento di costruire, però, non tutto fila liscio. Sul più che benestante Pasini piovono alcune imposizioni. Una, associarsi, questo dice il suo verbale e non solo, alle Coop rosse. Due, sborsare una tangente e scegliere di pagare alcuni consulenti legati a Penati.
Se questo è il “sistema Penati” sull’edilizia a Sesto, l’ex Stalingrado d’Italia, bisogna aggiungere altre mazzette: quelle denunciate da Pietro Di Caterina, con la sua Caronte, società impegnata nel trasporto pubblico. Non appena Di Caterina comincia ad avere guai con creditori e giustizia, da amico e “bancomat” qual era, cambia strategia: vuole indietro i soldi che ha dato a Penati, quelli che Penati nella sua difesa smitizza ironicamente come «presunte tangenti con l’elastico ». Di Caterina comincia a far sapere in giro che «può parlare». E in anni che non sono di ricchezza facile accade una magia.
Di Caterina mette in vendita una sua proprietà immobiliare. La Codelfa, società del gruppo di Marcellino Gavio, dice che vuole comprarla e firma un contratto. Però non compra, ma resta obbligata a pagare una caparra di 2 milioni a Di Caterina. Si pagano 2 milioni di euro così facilmente? Bisogna aprire una parentesi. Questo schema dei contratti con clausole durissime emerge anche nell’inchiesta su Pierangelo Daccò, Antonio Simone e Roberto Formigoni. Esiste una società di Daccò, la Euroworldwide, che sottopone al San Raffaele «un ventaglio di proposte di vendita di alcuni aerei». Con una commissione del 6 per cento da calcolarsi sul prezzo dell’aereo che poi sarebbe stato acquistato. Euroworldwide consegna dunque una serie di stampe raccattate su Internet; l’ospedale firma il contratto e non compra l’aereo; Daccò intasca 2 milioni e spiccioli. Sembra insomma esistere, nella Lombardia patria dei commercialisti,
un metodo per lasciar correre da una società a un’altra denaro apparentemente legale.
In tutti questi contratti, resta però sempre sospesa una domanda: ma come mai uno paga tanti soldi quando può farne a meno? Infatti, com’è possibile che uno potente come Gavio, con società nazionali quotate, debba pagare sull’unghia 2 milioni all’ex camionista di periferia Di Caterina? Forse perché a pagare una parte dei costi della politica di Penati era il cosiddetto “sistema Sesto” e Di Caterina va tacitato? Per i pubblici ministeri, che da ieri chiedono il rinvio a giudizio, la risposta è sì. Anche perché era stato lo stesso Penati a rendersi protagonista di una sconcertante iniziativa politico-finanziaria che, letta in chiave giudiziaria, diventa ancor più negativa. Non più sindaco di Sesto, ma presidente della Provincia di Milano, fa acquistare dal “suo” ente pubblico le azioni dell’autostrada Milano-Serravalle di proprietà di Gavio. La Provincia paga un prezzo micidiale, Gavio guadagna ben 6 euro ad azione.
Esiste, quindi, un innegabile e continuo giro di danza, e di dareavere, tra Penati, alcuni imprenditori, politici e faccendieri. E c’è l’errore tipico di chi si sente braccato. Quando lo scandalo innescato da Di Caterina si profila, che cosa fa Penati? Chiede un incontro al ricco Pasini, al proprietario dell’ex area Marelli, a suo tempo “stritolato” dal sistema. Non sa Penati che la polizia giudiziaria tallona l’ultraottantenne, al quale dice: «Vero, Giuseppe, che io non ti ho mai chiesto soldi?». Penati si proclama innocente, e ne ha diritto. Resta anche in consiglio regionale, dove incassa la solidarietà di Roberto Formigoni. Ma fuori dai palazzi della politica lombarda cresce lo sconcerto, perché le sette pagine di rinvio a giudizio, con ventitré accusati, parlano di concussione delle aree ex Falck e Marelli, delle mancate bonifiche a Milano nell’area Santa Giulia-Montecity, parlano di architetti e faccendieri. E viene da pensare a quanto di meglio si sarebbe potuto costruire e fare, alle tante occasioni sprecate. E forse anche per questo “magone” metropolitano, per questo risentimento collettivo, se ci sarà il rinvio a giudizio Penati darà retta a chi (Pd, Udc) gli dice di dare un segnale: e mollare.

La Repubblica 02.10.12

"Il sistema Sesto del proconsole rosso", di Piero Colaprico

Fatti e accuse vecchi di dodici anni fa», dice Filippo Penati. Ma i contributi nel 2009, sotto elezioni, tanto vecchi non sono. Nessuna novità rilevante », ribadisce, ma i pubblici ministeri mettono nero su bianco che “Fare metropoli”, l’associazione culturale legata all’ex presidente della Provincia di Milano, era il «mero schermo destinato ad occultare la diretta destinazione delle somme a Penati ». Non c’è solo l’inchiesta giudiziaria, con i suoi tempi e i suoi riscontri, ma anche una scansione di storie (sia certe, sia ambigue) a rendere difficile la posizione giudiziaria, e politica, ovviamente, di Penati: del fu proconsole dell’ex Pci nelle terre del centrodestra leghista e berlusconiano.
Era Penati un taciturno funzionario che «ci sapeva fare», era stato il sindaco di Sesto San Giovanni, paese di operai che nel dopoguerra e negli anni del boom votavano in massa Pci. Quando le fabbriche spengono le ciminiere e le città crescono cosmopolite, terziarie, senza tute blu, quelle aree industriali, vuote e rimesse a nuovo, diventano splendide per il business immobiliare. Una di queste, la ex Ercole Marelli, era nelle mani di un ricco imprenditore di Sesto, Giuseppe Pasini. Al momento di costruire, però, non tutto fila liscio. Sul più che benestante Pasini piovono alcune imposizioni. Una, associarsi, questo dice il suo verbale e non solo, alle Coop rosse. Due, sborsare una tangente e scegliere di pagare alcuni consulenti legati a Penati.
Se questo è il “sistema Penati” sull’edilizia a Sesto, l’ex Stalingrado d’Italia, bisogna aggiungere altre mazzette: quelle denunciate da Pietro Di Caterina, con la sua Caronte, società impegnata nel trasporto pubblico. Non appena Di Caterina comincia ad avere guai con creditori e giustizia, da amico e “bancomat” qual era, cambia strategia: vuole indietro i soldi che ha dato a Penati, quelli che Penati nella sua difesa smitizza ironicamente come «presunte tangenti con l’elastico ». Di Caterina comincia a far sapere in giro che «può parlare». E in anni che non sono di ricchezza facile accade una magia.
Di Caterina mette in vendita una sua proprietà immobiliare. La Codelfa, società del gruppo di Marcellino Gavio, dice che vuole comprarla e firma un contratto. Però non compra, ma resta obbligata a pagare una caparra di 2 milioni a Di Caterina. Si pagano 2 milioni di euro così facilmente? Bisogna aprire una parentesi. Questo schema dei contratti con clausole durissime emerge anche nell’inchiesta su Pierangelo Daccò, Antonio Simone e Roberto Formigoni. Esiste una società di Daccò, la Euroworldwide, che sottopone al San Raffaele «un ventaglio di proposte di vendita di alcuni aerei». Con una commissione del 6 per cento da calcolarsi sul prezzo dell’aereo che poi sarebbe stato acquistato. Euroworldwide consegna dunque una serie di stampe raccattate su Internet; l’ospedale firma il contratto e non compra l’aereo; Daccò intasca 2 milioni e spiccioli. Sembra insomma esistere, nella Lombardia patria dei commercialisti,
un metodo per lasciar correre da una società a un’altra denaro apparentemente legale.
In tutti questi contratti, resta però sempre sospesa una domanda: ma come mai uno paga tanti soldi quando può farne a meno? Infatti, com’è possibile che uno potente come Gavio, con società nazionali quotate, debba pagare sull’unghia 2 milioni all’ex camionista di periferia Di Caterina? Forse perché a pagare una parte dei costi della politica di Penati era il cosiddetto “sistema Sesto” e Di Caterina va tacitato? Per i pubblici ministeri, che da ieri chiedono il rinvio a giudizio, la risposta è sì. Anche perché era stato lo stesso Penati a rendersi protagonista di una sconcertante iniziativa politico-finanziaria che, letta in chiave giudiziaria, diventa ancor più negativa. Non più sindaco di Sesto, ma presidente della Provincia di Milano, fa acquistare dal “suo” ente pubblico le azioni dell’autostrada Milano-Serravalle di proprietà di Gavio. La Provincia paga un prezzo micidiale, Gavio guadagna ben 6 euro ad azione.
Esiste, quindi, un innegabile e continuo giro di danza, e di dareavere, tra Penati, alcuni imprenditori, politici e faccendieri. E c’è l’errore tipico di chi si sente braccato. Quando lo scandalo innescato da Di Caterina si profila, che cosa fa Penati? Chiede un incontro al ricco Pasini, al proprietario dell’ex area Marelli, a suo tempo “stritolato” dal sistema. Non sa Penati che la polizia giudiziaria tallona l’ultraottantenne, al quale dice: «Vero, Giuseppe, che io non ti ho mai chiesto soldi?». Penati si proclama innocente, e ne ha diritto. Resta anche in consiglio regionale, dove incassa la solidarietà di Roberto Formigoni. Ma fuori dai palazzi della politica lombarda cresce lo sconcerto, perché le sette pagine di rinvio a giudizio, con ventitré accusati, parlano di concussione delle aree ex Falck e Marelli, delle mancate bonifiche a Milano nell’area Santa Giulia-Montecity, parlano di architetti e faccendieri. E viene da pensare a quanto di meglio si sarebbe potuto costruire e fare, alle tante occasioni sprecate. E forse anche per questo “magone” metropolitano, per questo risentimento collettivo, se ci sarà il rinvio a giudizio Penati darà retta a chi (Pd, Udc) gli dice di dare un segnale: e mollare.
La Repubblica 02.10.12

"Addio Shlomo, l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz", di Oreste Pivetta

182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto –scrisse – con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili… Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.

Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline. Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.

Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era. Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo… Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda. Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.

Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia – scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli – qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio. Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno – disse – ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorres-e, perché era certo che i giovani dovessero sapere.

L’Unità 02.10.12

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Addio a Shlomo, raccontò la Shoah ai ragazzi”, di PAOLO G. BRERA

Lui c’era. Shlomo Venezia, ebreo catturato a Salonicco nel ’44 e trasportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, se n’è andato via per sempre ieri mattina, a 88 anni: era scampato allo sterminio «per caso», ma portava sull’anima un peso che piegherebbe le gambe a chiunque. Appena arrivati sul treno galera alla
Judenrampe, la banchina su cui venivano fatti scendere gli ebrei, «mi attardai per aiutare mia madre a scendere e un soldato mi colpì due volte, allontanandomi. Fu l’ultima volta che vidi lei e le mie due sorelline, Marika e Marta». Quasi tutti vennero spediti direttamente alla camera a gas, Shlomo si salvò perché aveva 20 anni, era forte e i nazisti lo reclutarono nel Sonderkommando: addetto al “Krematorium 2”, il grande forno in cui «facevamo i turni dalle 8 alle 20, o dalle 20 alle 8, e cremavamo tra 550 e 600 ebrei al giorno».
È stato uno dei pochissimi al mondo a sopravvivere al Sonderkommando, perché i nazisti non lasciavano testimoni. Ma per tanti anni non era riuscito neppure a raccontarla, la sua storia terribile: tagliava i capelli alle donne davanti alle camere a gas, poi raccoglieva i corpi e li portava alla pira nel grande forno crematorio. «Attraverso l’istituzione del Sonderkommando si tentava di spostare sulle vittime il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti », scrisse Primo Levi che però non fu tenero con i «corvi neri del crematorio», come chiamò quegli uomini costretti a collaborare coi nazisti.
«Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio», raccontò Shlomo in “Sonderkommando Auschwitz”, il libro verità del 2007 tradotto in 24 lingue. Il dramma del nazismo sulla sua pelle. Non gli piaceva esibire il dolore, e con pudore mostrava il “182.727” tatuato sull’avambraccio. A fine guerra era solo e malato, distrutto nel fisico e nell’io. Per anni non riuscì a dire una parola sul suo dramma: «Poi, un giorno, ho trovato il coraggio, perché tutti sappiano». Era il ’92: sui negozi sotto casa a Roma qualcuno aveva scritto “giudei al forno”. Era troppo. Da allora aprì la sua anima a migliaia di ragazzi delle scuole, accompagnandoli nei “Viaggi della memoria” per esorcizzare il ritorno del male assoluto. E Benigni lo scelse come consulente per “La vita è bella”.

La Repubblica 02.10.12

"Addio Shlomo, l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz", di Oreste Pivetta

182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto –scrisse – con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili… Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline. Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era. Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo… Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda. Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia – scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli – qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio. Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno – disse – ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorres-e, perché era certo che i giovani dovessero sapere.
L’Unità 02.10.12
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Addio a Shlomo, raccontò la Shoah ai ragazzi”, di PAOLO G. BRERA
Lui c’era. Shlomo Venezia, ebreo catturato a Salonicco nel ’44 e trasportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, se n’è andato via per sempre ieri mattina, a 88 anni: era scampato allo sterminio «per caso», ma portava sull’anima un peso che piegherebbe le gambe a chiunque. Appena arrivati sul treno galera alla
Judenrampe, la banchina su cui venivano fatti scendere gli ebrei, «mi attardai per aiutare mia madre a scendere e un soldato mi colpì due volte, allontanandomi. Fu l’ultima volta che vidi lei e le mie due sorelline, Marika e Marta». Quasi tutti vennero spediti direttamente alla camera a gas, Shlomo si salvò perché aveva 20 anni, era forte e i nazisti lo reclutarono nel Sonderkommando: addetto al “Krematorium 2”, il grande forno in cui «facevamo i turni dalle 8 alle 20, o dalle 20 alle 8, e cremavamo tra 550 e 600 ebrei al giorno».
È stato uno dei pochissimi al mondo a sopravvivere al Sonderkommando, perché i nazisti non lasciavano testimoni. Ma per tanti anni non era riuscito neppure a raccontarla, la sua storia terribile: tagliava i capelli alle donne davanti alle camere a gas, poi raccoglieva i corpi e li portava alla pira nel grande forno crematorio. «Attraverso l’istituzione del Sonderkommando si tentava di spostare sulle vittime il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti », scrisse Primo Levi che però non fu tenero con i «corvi neri del crematorio», come chiamò quegli uomini costretti a collaborare coi nazisti.
«Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio», raccontò Shlomo in “Sonderkommando Auschwitz”, il libro verità del 2007 tradotto in 24 lingue. Il dramma del nazismo sulla sua pelle. Non gli piaceva esibire il dolore, e con pudore mostrava il “182.727” tatuato sull’avambraccio. A fine guerra era solo e malato, distrutto nel fisico e nell’io. Per anni non riuscì a dire una parola sul suo dramma: «Poi, un giorno, ho trovato il coraggio, perché tutti sappiano». Era il ’92: sui negozi sotto casa a Roma qualcuno aveva scritto “giudei al forno”. Era troppo. Da allora aprì la sua anima a migliaia di ragazzi delle scuole, accompagnandoli nei “Viaggi della memoria” per esorcizzare il ritorno del male assoluto. E Benigni lo scelse come consulente per “La vita è bella”.
La Repubblica 02.10.12