attualità, memoria

"Addio Shlomo, l’ultimo sopravvissuto di Auschwitz", di Oreste Pivetta

182727. Nell’aprile 1944, Shlomo Venezia divenne un numero. Di quel numero, tatuato sul braccio in inchiostro nero, s’è forse liberato ieri morendo l’ultima volta, dopo essere morto mille e mille volte, lui che era vissuto –scrisse – con le mani nella morte, convincendo qualcuno a entrare nella camera a gas, trascinandone il cadavere, raccogliendo le sue ceneri, triturando le ossa più resistenti al fuoco, quelle del bacino, perché le tracce di un essere umano fossero le meno palpabili possibili… Raccontava Shlomo Venezia che anche le ceneri venivano passate al setaccio e solo dopo caricate da una carriola a un camion e poi disperse nel fiume.
Shlomo Venezia ad Auschwitz-Birkenau arrivò che aveva ventuno anni (era nato a Salonicco il 29 dicembre 1923), era ebreo di origine italiana, l’avevano prelevato dentro la Sinagoga di Atene e, dopo qualche giorno in un carcere, l’avevano rinchiuso in un vagone insieme con altri ebrei come lui, con partigiani greci rastrellati sulle colline. Dodici giorni dopo si ritrovò a Birkenau. Finì in uno stanzone, senza sapere dove fosse, che cosa si sarebbe dovuto aspettare. Da una finestra vide una ciminiera e il fumo che saliva. Sentì parlare yiddish, si rivolse a quello sconosciuto in tedesco e lo sconosciuto gli rispose: chi non è più con noi si sta liberando da qualche parte del cielo. Tu passerai per il camino, come dice la storia dei campi di sterminio nazisti e come narrò in un libro, con quel titolo, un giovane partigiano italiano, deportato a Mauthausen, Vincenzo Pappalettera.
Shlomo Venezia ebbe il suo numero, 182727. Raccontava del dolore fisico patito quando lo incisero, dell’istintivo gesto di massaggiare il braccio, del grumo di sangue e inchiostro rimasto appiccicato alla mano e della paura di aver cancellato il numero: se l’avesse cancellato, come avrebbero reagito i suoi aguzzini. Il numero rimase lì per una vita a segnare la sua storia. Anche la «selezione» gli rimase addosso per una vita: era forte e lo scelsero per il sonderkommando, la squadra speciale. Tre mesi e poi ci sarà una nuova selezione, lo avvertirono i compagni. La «nuova selezione» significava l’eliminazione. Ma quel lavoro dà da mangiare? Gli assicurarono che qualcosa c’era. Non c’era invece scelta: davanti ai suoi occhi tre ragazzi ebrei ortodossi rifiutarono e subito vennero fucilati. Cominciò a entrare in quello stanzone, a cavarne corpi nudi deformati dall’asfissia e dall’orrore: all’inizio era difficile, un cumulo alto un paio di metri, non si sapeva dove poggiare i piedi e come districare quel groviglio di scheletri. Una volta un compagno udì un gemito, come di un essere ancora vivo… Lui e gli altri continuarono a scavare. Il gemito si udì ancora. Tutti si diressero ad un angolo e videro un bambino ancora attaccato al seno della madre. Era vivo, lo raccolsero, una guardia se lo fece consegnare e gli sparò con la soddisfazione di un cacciatore sulla preda. Quelli del sonderkommando dovevano sgombrare la camera a gas, lavare il pavimento, ridipingere di calce bianca le pareti. Non si doveva lasciar segno di quanto era avvenuto prima. I condannati dovevano entrare senza alcun sospetto, pensando ad una doccia, le donne per prime, con l’idea che era meglio sbrigarsi. Morivano tutti. Morì anche un cugino incontrato sulla porta del crematorio, un cugino che lo pregava di intercedere presso le Ss, perché lo salvassero. Ci provò. Dovette convincerlo a compiere l’ultimo passo, assicurandogli che non avrebbe sofferto.
Shlomo Venezia andò avanti così, di tre mesi in tre mesi, fino a quando due carri armati sovietici si presentarono alle porte di Auschwitz. Non fu tutto, perché Shlomo per anni, malato ai polmoni, dovette fare la spola tra un sanatorio e l’altro. Il ritorno alla vita civile fu in solitudine. Poi visse a Rimini e quindi Roma, si sposò con Marika, ebbe tre figli, ritrovò un’apparenza di normalità, solo un’apparenza, perchè «tutto mi riporta al campo». «Qualunque cosa faccia – scrisse nel suo libro, Sonderkommando Auschwitz, pubblicato nel 2007 da Rizzoli – qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio». Si chiuse nel silenzio. Quasi mezzo secolo dopo Birkenau, nel 1992, si decise a parlare (diede una consulenza a Benigni per il suo film «La vita è bella»). Nel 1992. «Un giorno – disse – ho trovato il coraggio di raccontare tutto quello che posso raccontare, quello che sono certo di aver visto».Tornò ad Auschwitz, rivide la torretta dell’ingresso con quella scritta, il lavoro rende liberi, non riuscì subito ad orientarsi non scorgendo più gli edifici dei crematori che i nazisti avevano fatto saltare, sempre quell’idea di far sparire i resti dei loro delitti. Ricordò soprattutto per i giovani, tornando più di una volta in quel luogo di insuperabile dolore. L’ultimo italiano della squadra speciale sopravvissuto, ricordò finché la salute lo sorres-e, perché era certo che i giovani dovessero sapere.
L’Unità 02.10.12
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Addio a Shlomo, raccontò la Shoah ai ragazzi”, di PAOLO G. BRERA
Lui c’era. Shlomo Venezia, ebreo catturato a Salonicco nel ’44 e trasportato ad Auschwitz con tutta la famiglia, se n’è andato via per sempre ieri mattina, a 88 anni: era scampato allo sterminio «per caso», ma portava sull’anima un peso che piegherebbe le gambe a chiunque. Appena arrivati sul treno galera alla
Judenrampe, la banchina su cui venivano fatti scendere gli ebrei, «mi attardai per aiutare mia madre a scendere e un soldato mi colpì due volte, allontanandomi. Fu l’ultima volta che vidi lei e le mie due sorelline, Marika e Marta». Quasi tutti vennero spediti direttamente alla camera a gas, Shlomo si salvò perché aveva 20 anni, era forte e i nazisti lo reclutarono nel Sonderkommando: addetto al “Krematorium 2”, il grande forno in cui «facevamo i turni dalle 8 alle 20, o dalle 20 alle 8, e cremavamo tra 550 e 600 ebrei al giorno».
È stato uno dei pochissimi al mondo a sopravvivere al Sonderkommando, perché i nazisti non lasciavano testimoni. Ma per tanti anni non era riuscito neppure a raccontarla, la sua storia terribile: tagliava i capelli alle donne davanti alle camere a gas, poi raccoglieva i corpi e li portava alla pira nel grande forno crematorio. «Attraverso l’istituzione del Sonderkommando si tentava di spostare sulle vittime il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti », scrisse Primo Levi che però non fu tenero con i «corvi neri del crematorio», come chiamò quegli uomini costretti a collaborare coi nazisti.
«Qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal Crematorio», raccontò Shlomo in “Sonderkommando Auschwitz”, il libro verità del 2007 tradotto in 24 lingue. Il dramma del nazismo sulla sua pelle. Non gli piaceva esibire il dolore, e con pudore mostrava il “182.727” tatuato sull’avambraccio. A fine guerra era solo e malato, distrutto nel fisico e nell’io. Per anni non riuscì a dire una parola sul suo dramma: «Poi, un giorno, ho trovato il coraggio, perché tutti sappiano». Era il ’92: sui negozi sotto casa a Roma qualcuno aveva scritto “giudei al forno”. Era troppo. Da allora aprì la sua anima a migliaia di ragazzi delle scuole, accompagnandoli nei “Viaggi della memoria” per esorcizzare il ritorno del male assoluto. E Benigni lo scelse come consulente per “La vita è bella”.
La Repubblica 02.10.12