Le vicende dell’amministrazione regionale del Lazio non devono essere viste solo come una questione di costume, come una estrema manifestazione di decadenza morale ed estetica. I casi di malgoverno nelle amministrazioni locali sono all’ordine del giorno, i principi etici che a parole muovono le forze di governo sono regolarmente immolati a un detestabile affarismo, a leggere le cronache giudiziarie. Le differenze paiono spesso esteriori, di natura estetica appunto: eleganti yacht e isole esotiche invece di maiali e gladiatori.
Al di là delle vicende penali e dei casi più palesi e succulenti dal punto di vista della cronaca, mi pare si configuri una situazione allarmante abbastanza generale nell’esercizio dell’amministrazione locale in Italia. Molti sono i fattori che potenzialmente spiegano tutto questo. Non ultimo un meccanismo di selezione della classe dirigente (non solo politica) per nulla aperto al merito e schiacciato invece sui rapporti di appartenenza al gruppo rilevante di riferimento, la famiglia, la chiesa, il partito, o quant’altro. Ma se alcuni tratti culturali deteriori del nostro Paese non ci portano in modo naturale all’amministrazione oculata ed efficiente della cosa pubblica, la struttura legislativa che governa l’amministrazione locale certamente non aiuta. La legge sul federalismo (più propriamente la modifica del capitolo V della Costituzione del 2001; ma la normativa sul decentramento amministrativo inizia negli anni 70), al di là della competenza e delle qualità morali degli amministratori, fornisce loro incentivi perversi. Essa prevede infatti una forte autonomia locale di spesa senza stabilire a fronte una corrispettiva responsabilità locale nella raccolta fiscale. Di conseguenza, un ammini-stratore che costruisca ospedali e tribunali in ogni villaggio del suo collegio provvede ad un servizio. Questo servizio ha però un costo che il collegio elettorale non paga. Non vi è modo quindi di garantire che l’amministratore abbia incentivo a produrre il servizio efficientemente (ad esempio, evitando di favorire i suoi particolari gruppi di riferimento negli appalti), né di stabilire che i benefici sociali del servizio siano superiori ai costi (quando ad esempio, il costo di rivolgersi all’ospedale o al tribunale del paese a fianco sia ridotto). In alcuni casi, in regioni purtroppo abituate al malgoverno, anche ospedali di bassa qualità e tribunali eccessivamente lenti sono meglio di niente. In questo contesto, poi, assunzioni clientelari sono una manna dal cielo.
Questo meccanismo, di per sé in atto a livello locale in tutto il Paese, opera a un livello spesso scandaloso nel caso delle regioni a statuto speciale. Il caso della Regione Sicilia è stato scalzato dalle prime pagine dei giornali dal caso Lazio, ma non per questo gli immensi sprechi dell’amministrazione di questa regione sono cessati. E anche quelle regioni che hanno saputo sfruttare lo statuto speciale a favore dei propri abitanti, come il Trentino Alto Adige, lo hanno fatto a costi in larga parte afferenti al resto del Paese.
In secondo luogo la legge prevede una notevole autonomia decisionale delle amministrazioni locali riguardo al finanziamento della propria attività. Ancora una volta, naturalmente, senza che il collegio elettorale ne paghi un costo diretto. A leggere sui giornali in questi giorni che (l’ufficio di presidenza del la Regione Lazio abbia potuto far lievitare le erogazioni ai gruppi politici da 1 a 14 milioni, autonomamente, con un semplice voto di ratifica del consiglio regionale, viene davvero da trasecolare. Come è possibile una struttura normativa così abnormemente avulsa dalla più basilare logica di analisi degli incentivi. Eppure è così, e non solo a livello locale: osserviamo in questi giorni che i membri del Senato possono autonomamente rifiutare di assoggettare i propri gruppi politici a pur minime norme di trasparenza.
Quando le leggi sembrano disegnate per produrre massimi incentivi al malgoverno e alla corruzione, in un Paese la cui classe dirigente è cooptata senza riguardo al merito, in cui il malgoverno è spesso accettato nella migliore delle ipotesi con rassegnazione, il controllo della politica finisce per essere demandato ex-post alla magistratura. Questa sarebbe una soluzione estremamente inefficiente, anche se la magistratura non avesse i problemi strutturali che ha in Italia.
È necessario invece agire con urgenza sulla legislazione per garantire che essa produca il più possibile incentivi appropriati. Una volta definiti con chiarezza i capitoli di spesa da demandare alle regioni e di qui ai comuni (da per scontato che le province aggiungano sostanzialmente un inutile strato burocratico ed ammi-nistrativo), si dovrebbe affiancare all’autonomia di spesa un sistema di imposte (addizionali Irpef, ad esempio) che garantisca anno per anno bilanci regionali e comunali in pareggio, così da trasferire immediatamente sul collegio elettorale il costo di servizi pubblici inefficienti. Non solo, ma è assolutamente necessario che i bilanci delle amministrazioni locali siano soggetti annualmente a certificazione pubblica da parte di società contabili responsabili e che i costi amministrativi per capitolo di spesa (sanità, istruzione, gestione politica, ecc.) pro-capite siano pubblicizzati in modo chiaro e trasparente ai cittadini. E infine, naturalmente, norme severissime contro corruzione e reati contabili, per quegli amministratori locali per cui gli incentivi
non siano sufficienti.
La Repubblica 28.09.12
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"Ora di religione, la riforma parta dai docenti", di Gian Enrico Rusconi
Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Ciclicamente sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne seguivano erano molto articolate – dalla soppressione pura e semplice dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che contano) del mondo cattolico.
Nel frattempo si sono aggiunte altre problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura (argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a quella islamica ) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il ruolo pubblico delle religioni».
Il tutto si è accompagnato con crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una «religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa – senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più secolarizzati.
In questo contesto il monopolio della Chiesa nell’insegnamento religioso nelle scuole – comunque definito – è solo un tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di offrire alternative.
E’ possibile superare questo circolo vizioso? Non già contro la Chiesa – come subito si accuserà – ma per rinnovare profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa.
Nel nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche. Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema.
La stragrande maggioranza delle famiglie italiane – loro stesse caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa – mandano i figli all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» – come assicurano molti degli insegnanti cattolici. Ma qui nasce un altro brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del cristianesimo, che – sia detto per inciso – teologicamente parlando non coincide con il cattolicesimo.
Suppongo che il cattolico che leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso delle cose che sto dicendo. Ma qui si apre un altro problema, forse il più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima congiuntura politica.
Il vero problema è che l’Italia ha urgenza di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle religioni – non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua collaborazione – che risponda seriamente alla nuova problematica del pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.
La Stampa 28.09.12
"Ora di religione, la riforma parta dai docenti", di Gian Enrico Rusconi
Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Ciclicamente sorge il problema dell’insegnamento della religione nella scuola pubblica. Tutti gli argomenti sono stati usati e spesi, con risultati modesti, salvo la possibilità dell’esenzione dall’ora di religione. Sino a qualche anno fa il problema veniva sollevato soprattutto in nome del principio della laicità dell’educazione pubblica. Le richieste che ne seguivano erano molto articolate – dalla soppressione pura e semplice dell’ora di religione alla istituzione sostitutiva di una lezione di etica, all’introduzione della storia delle religioni, Tutte le proposte sono sempre state contestate e respinte dai rappresentanti (quelli che contano) del mondo cattolico.
Nel frattempo si sono aggiunte altre problematiche: l’enfasi sulle «radici cristiane» della nostra cultura (argomento poi vergognosamente politicizzato), la presenza crescente di allievi di altre religioni ( con riferimento costante se non esclusivo a quella islamica ) e i discorsi sempre più frequenti sul ritorno e «il ruolo pubblico delle religioni».
Il tutto si è accompagnato con crescente deferenza pubblica verso la Chiesa la cui posizione dottrinale poco alla volta ha acquistato la funzione surrogatoria di una «religione civile». Si è creato l’equivoco di misurare i criteri dell’etica pubblica sulle indicazioni della dottrina della Chiesa – senza preoccuparsi della effettiva adesione ad essa dei comportamenti dei cittadini che dicono di essere credenti. Il tasso di trasgressione delle indicazioni ecclesiastiche da parte dei cittadini italiani non è affatto minore di quella generale dei Paesi considerati più secolarizzati.
In questo contesto il monopolio della Chiesa nell’insegnamento religioso nelle scuole – comunque definito – è solo un tassello, cui non intende minimamente rinunciare. D’altra parte oggi né l’istituzione statale né la cosiddetta società civile sono in grado di offrire alternative.
E’ possibile superare questo circolo vizioso? Non già contro la Chiesa – come subito si accuserà – ma per rinnovare profondamente o semplicemente dare concretezza alla libertà religiosa.
Nel nostro Paese cresce paurosamente l’incultura religiosa, che non ha nulla a che vedere con la laicità. Anche se gli uomini di Chiesa ne danno volentieri la colpa al laicismo, al relativismo, al nichilismo ecc. Solo i più sensibili si interrogano sul paradosso della crescente incultura religiosa in un Paese dove la Chiesa è accreditata di un’enorme autorità morale. Solo i più sensibili si chiedono se non c’è qualcosa che non va in un magistero e in una strategia comunicativa che rischia di impoverirsi teologicamente, perché tutta assorbita dalla preoccupazione per quelli che sono chiamati perentoriamente «i valori», a loro volta monopolizzati dai temi della «vita» e della «famiglia naturale», sostenuti e trattati con fragili argomentazioni teologiche. Una particolare (discutibile) antropologia morale ha preso il posto della riflessione teologica. So che è un discorso impegnativo e complicato, da rimandare ad altra sede. Ma c’entra con il nostro tema.
La stragrande maggioranza delle famiglie italiane – loro stesse caratterizzate da basso tasso di cultura religiosa – mandano i figli all’ora di religione perché «fa loro bene». Lo considerano un surrogato di insegnamento morale, senza troppo preoccuparsi dei contenuti. Anzi sono ben contenti che i ragazzi non fanno «lezione di catechismo» – come assicurano molti degli insegnanti cattolici. Ma qui nasce un altro brutto paradosso. Certamente è giusto che non si faccia catechismo. Ma la lezione di religione deve comunque fornire contenuti di conoscenza su che cosa significa avere una fede. La sua origine, la sua storia, la sua evoluzione, i suoi conflitti interni, le differenze rispetto alle altre religioni ma anche il loro confronto positivo. Tutto questo per noi è «storia delle religioni», anche a partire dalla centralità del cristianesimo, che – sia detto per inciso – teologicamente parlando non coincide con il cattolicesimo.
Suppongo che il cattolico che leggesse queste righe, direbbe con cipiglio severo che è esattamente quello che fanno (o dovrebbero fare) gli insegnanti ufficiali di religione, quelli autorizzati dal vescovo, per intenderci. Non dubito che ci sono molti insegnanti di religione «ufficiali» ottimi nel senso delle cose che sto dicendo. Ma qui si apre un altro problema, forse il più delicato e decisivo. Non ci si può fidare o affidare alla maturità soggettiva dei singoli insegnanti o all’assicurazione dell’autorità ecclesiastica, se vogliamo che la lezione di religione o di storia delle religioni si configuri come vero servizio della scuola pubblica. Si obietterà che le norme attualmente vigenti sono concepite diversamente e vanno rispettate. Bene. Ma è tempo di cambiarle, senza aspettare l’esternazione del prossimo ministro dell’Istruzione o la prossima congiuntura politica.
Il vero problema è che l’Italia ha urgenza di formare laicamente un ceto di insegnanti di religione o delle religioni – non già contro la Chiesa ma sperabilmente con la sua collaborazione – che risponda seriamente alla nuova problematica del pluralismo religioso. In molte università italiane ci sono buoni centri di ricerca sui fenomeni religiosi, con opportuni collegamenti interdisciplinari con le scienze antropologiche e di storia delle civiltà. Si tratta di valorizzare tali centri, di metterli in collegamento e renderli funzionali per la formazione di nuovi docenti per la scuola. E’ un lavoro impegnativo, ma necessario e urgente. E’ un vero peccato invece che molti influenti cattolici del nostro Paese si chiudano a riccio con argomenti davvero molto modesti.
La Stampa 28.09.12
"L'altro Paese visto da lontano", di Bernardo Valli
La nostra cronaca nazionale letta all’estero induce a concludere, parafrasando Amleto, che non c’è qualcosa di marcio, ma di molto marcio nel “regno d’Italia”. Al parigino, al londinese, al newyorkese, al berlinese vengono proposte in queste ore due immagini: quella dell’Italia virtuosa che Mario Monti cerca di promuovere all’Assemblea generale dell’Onu, e quella dell’Italia rappresentata da Batman, dilapidatore dei fondi assegnati al suo partito, in pranzi, automobili e
vacanze. Per il primo i conti pubblici cominciano a tornare, e l’Italia può affacciarsi alla ribalta europea come un elemento rassicurante, quasi esemplare. Ma c’è subito Batman che irrompe sulla scena e guasta l’effetto, confermando l’immagine dell’Italia corrotta. La quale è ben lontano dal rassicurare l’Unione europea cui appartiene con il nobile rango di paese fondatore.
Chi segue le nostre cronache vede nella vicenda Batman il più recente (ma non ultimo) capitolo dello scandalo cronico che coinvolge larga parte della società politica. Appare come l’ennesima puntata di una storia che rischia di offuscare quella nazionale. Le precedenti sono ancora ben vive nelle memorie. E oso definirle memorie mondiali perché le migliaia di caricature e di articoli dedicati a Silvio Berlusconi hanno animato per anni un feuilletton che dall’Argentina al Giappone, dal Libano al Guatemala, ha divertito o scandalizzato. In questi giorni, per consentire ai lettori di riprendere il filo, viene rievocato il bunga bunga e la sfilata di prostitute nelle residenze private dell’ex presidente del consiglio.
Si passa poi a un’altra puntata, al caso della Lega Nord, esploso appena placato l’interesse per Berlusconi a causa delle sue dimissioni. Si sottolinea che nel nuovo scandalo sia rimasta impigliata la famiglia del fondatore; il tesoriere del partito le pagava infatti le spese private; cosi la figura di Umberto Bossi, campione del populismo europeo e severo censore della Roma “ladrona”, si è sgonfiata come un pallone. Appariva minacciosa ed è diventata una maschera comico-tragica del dramma politico italiano. Una maschera, sia pure secondaria, ma altrettanto grottesca, da affiancare a quella di Berlusconi.
Nel leggere la stampa straniera in queste ore ho l’impressione di ripassare la recente storia patria. Non c’è stata una pausa sufficiente per far dimenticare gli scandali Berlusconi e Bossi, perché è subito intervenuta la vicenda di Luigi Lusi. Il democristiano che ha sottratto venti milioni di euro dalle casse della Margherita, partito ormai inesistente, ma sempre beneficiario di fondi pubblici. Sembra una burla, ma è una burla costosa e avvilente. Una versione della corruzione italiana.
Le Monde è molto preciso nell’elencare gli scandali che ritmano la nostra vita nazionale e che, secondo il New York Times, fanno apparire la classe politica incapace e fuori dalla realtà, in un paese immerso in una grave crisi economica. Il Guardian ricorda che Monti ha definito «non scusabile» l’insabbiamento in Parlamento della legge contro la corruzione. Ed è come sottolineare la complicità della maggioranza degli eletti.
Per non far perdere il filo ai lettori, i corrispondenti stranieri riassumono le puntate (Berlusconi, Bossi, Lusi…) prima di arrivare alle dimissioni di Renata Polverini. La posizione della presidente della Regione Lazio è considerata strana. Come poteva ignorare le malefatte della sua maggioranza se è nel suo ufficio che è stato deciso l’aumento da uno a quattordici milioni dei fondi assegnati ai partiti?
Altri elementi inducono a concludere che c’è del marcio nel “regno d’Italia”, come fa il corrispondente del quotidiano del pomeriggio parigino. Nicole Minetti, consigliera della Regione Lombardia, accusata di complicità per incitazione di minori alla prostituzione, nel caso Rubygate, sfila in costume da bagno affermando che cosi lavora «all’immagine dell’Italia». E sempre in Lombardia, il governatore, Roberto Formigoni, i cui soggiorni nei Caraibi sono stati pagati da un affarista, rifiuta di fornire spiegazioni. E come non ricordare che il presidente della Regione Sicilia ha più collaboratori di Barak Obama e che quello della Lombardia è pagato meglio di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite? La rassegna degli scandali e dell’uso eccessivo o abusivo del pubblico denaro in Italia, appare dunque meticolosa e puntuale sulla stampa internazionale.
A chi attribuire le responsabilità? Gli italiani sono rassegnati o complici? Soltanto una ventina di persone, fanno notare i corrispondenti stranieri, hanno protestato davanti alla Regione Lazio. E altre regioni (Campania, Calabria, Sardegna) occupano nel frattempo i giudici italiani. La collera crescente nelle manifestazioni in difesa del lavoro, in vari centri della Penisola, è probabilmente dovuta anche agli scandali, all’indignazione per l’abuso del denaro pubblico. In quanto alle responsabilità della classe politica, c’è chi le attribuisce in parte all’arrivo, con Berlusconi, nei posti pubblici di persone formatesi nel mondo dell’industria e del commercio, senza quindi una coscienza politica. E c’è chi vede una delle cause nel forte decentramento, con la conseguente autonomia delle amministrazioni locali, lasciate a se stesse, senza controlli. Il risultato è che nello stesso momento in cui Monti mette a posto i conti, Batman li saccheggia.
La Repubblica 28.09.12
"L'altro Paese visto da lontano", di Bernardo Valli
La nostra cronaca nazionale letta all’estero induce a concludere, parafrasando Amleto, che non c’è qualcosa di marcio, ma di molto marcio nel “regno d’Italia”. Al parigino, al londinese, al newyorkese, al berlinese vengono proposte in queste ore due immagini: quella dell’Italia virtuosa che Mario Monti cerca di promuovere all’Assemblea generale dell’Onu, e quella dell’Italia rappresentata da Batman, dilapidatore dei fondi assegnati al suo partito, in pranzi, automobili e
vacanze. Per il primo i conti pubblici cominciano a tornare, e l’Italia può affacciarsi alla ribalta europea come un elemento rassicurante, quasi esemplare. Ma c’è subito Batman che irrompe sulla scena e guasta l’effetto, confermando l’immagine dell’Italia corrotta. La quale è ben lontano dal rassicurare l’Unione europea cui appartiene con il nobile rango di paese fondatore.
Chi segue le nostre cronache vede nella vicenda Batman il più recente (ma non ultimo) capitolo dello scandalo cronico che coinvolge larga parte della società politica. Appare come l’ennesima puntata di una storia che rischia di offuscare quella nazionale. Le precedenti sono ancora ben vive nelle memorie. E oso definirle memorie mondiali perché le migliaia di caricature e di articoli dedicati a Silvio Berlusconi hanno animato per anni un feuilletton che dall’Argentina al Giappone, dal Libano al Guatemala, ha divertito o scandalizzato. In questi giorni, per consentire ai lettori di riprendere il filo, viene rievocato il bunga bunga e la sfilata di prostitute nelle residenze private dell’ex presidente del consiglio.
Si passa poi a un’altra puntata, al caso della Lega Nord, esploso appena placato l’interesse per Berlusconi a causa delle sue dimissioni. Si sottolinea che nel nuovo scandalo sia rimasta impigliata la famiglia del fondatore; il tesoriere del partito le pagava infatti le spese private; cosi la figura di Umberto Bossi, campione del populismo europeo e severo censore della Roma “ladrona”, si è sgonfiata come un pallone. Appariva minacciosa ed è diventata una maschera comico-tragica del dramma politico italiano. Una maschera, sia pure secondaria, ma altrettanto grottesca, da affiancare a quella di Berlusconi.
Nel leggere la stampa straniera in queste ore ho l’impressione di ripassare la recente storia patria. Non c’è stata una pausa sufficiente per far dimenticare gli scandali Berlusconi e Bossi, perché è subito intervenuta la vicenda di Luigi Lusi. Il democristiano che ha sottratto venti milioni di euro dalle casse della Margherita, partito ormai inesistente, ma sempre beneficiario di fondi pubblici. Sembra una burla, ma è una burla costosa e avvilente. Una versione della corruzione italiana.
Le Monde è molto preciso nell’elencare gli scandali che ritmano la nostra vita nazionale e che, secondo il New York Times, fanno apparire la classe politica incapace e fuori dalla realtà, in un paese immerso in una grave crisi economica. Il Guardian ricorda che Monti ha definito «non scusabile» l’insabbiamento in Parlamento della legge contro la corruzione. Ed è come sottolineare la complicità della maggioranza degli eletti.
Per non far perdere il filo ai lettori, i corrispondenti stranieri riassumono le puntate (Berlusconi, Bossi, Lusi…) prima di arrivare alle dimissioni di Renata Polverini. La posizione della presidente della Regione Lazio è considerata strana. Come poteva ignorare le malefatte della sua maggioranza se è nel suo ufficio che è stato deciso l’aumento da uno a quattordici milioni dei fondi assegnati ai partiti?
Altri elementi inducono a concludere che c’è del marcio nel “regno d’Italia”, come fa il corrispondente del quotidiano del pomeriggio parigino. Nicole Minetti, consigliera della Regione Lombardia, accusata di complicità per incitazione di minori alla prostituzione, nel caso Rubygate, sfila in costume da bagno affermando che cosi lavora «all’immagine dell’Italia». E sempre in Lombardia, il governatore, Roberto Formigoni, i cui soggiorni nei Caraibi sono stati pagati da un affarista, rifiuta di fornire spiegazioni. E come non ricordare che il presidente della Regione Sicilia ha più collaboratori di Barak Obama e che quello della Lombardia è pagato meglio di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite? La rassegna degli scandali e dell’uso eccessivo o abusivo del pubblico denaro in Italia, appare dunque meticolosa e puntuale sulla stampa internazionale.
A chi attribuire le responsabilità? Gli italiani sono rassegnati o complici? Soltanto una ventina di persone, fanno notare i corrispondenti stranieri, hanno protestato davanti alla Regione Lazio. E altre regioni (Campania, Calabria, Sardegna) occupano nel frattempo i giudici italiani. La collera crescente nelle manifestazioni in difesa del lavoro, in vari centri della Penisola, è probabilmente dovuta anche agli scandali, all’indignazione per l’abuso del denaro pubblico. In quanto alle responsabilità della classe politica, c’è chi le attribuisce in parte all’arrivo, con Berlusconi, nei posti pubblici di persone formatesi nel mondo dell’industria e del commercio, senza quindi una coscienza politica. E c’è chi vede una delle cause nel forte decentramento, con la conseguente autonomia delle amministrazioni locali, lasciate a se stesse, senza controlli. Il risultato è che nello stesso momento in cui Monti mette a posto i conti, Batman li saccheggia.
La Repubblica 28.09.12
"La Mastro Lindo della moralità", di Francesco Merlo
Con l’incredibile slogan “Ora facciamo pulizia!” la sporcatissima Renata Polverini è, stilisticamente parlando, la prima allieva non siciliana di Totò Cuffaro che, arrestato per mafia, lanciò lo slogan “la mafia fa schifo”. I manifesti con cui la governatrice del Lazio ha tappezzato i muri di Roma seguono infatti quello stesso copione, che non è dettato dal suo comico di fiducia, ma dall’idea, con il sapore di modernità rimasticata, che la forza della pubblicità sono i paradossi e che dunque la politologia è ormai paradossologia. La Polverini ci ha creduto così tanto che, dismessa a furor di popolo perché insozzata da ogni genere di sporcizia politica e penale, ha tappezzato i muri di Roma, presumibilmente con i soldi pubblici e certamente anche negli spazi vietati alle affissioni, con la propria immagine, un bel primo piano del suo faccione di massaia pulitrice, una specie di Mastro Lindo della moralità: «Questa gente la mando a casa io».
E il paradosso è stato ‘premiato’ nientemeno che dalla Ryanair, la compagnia aerea low cost, che si è appropriata di quella rotonda faccia tosta, una Polverini in guanti di gomma, con straccio e secchio, che promette di tagliare le spese che ha coperto, bloccare gli sprechi che ha promosso e su cui ha lucrato, far brillare la casa di vetro che ha oscurato, risanare ciò che ha guastato: «Ora basta — è lo slogan della compagnia irlandese — volate con Ryanair perché costa di meno».
La Ryanair, che in tutto il mondo si promuove grazie al sapiente uso della deriva trash, ha colto nella Polverini più che una personalità un feticcio, il totem della sfrontatezza, la maschera spudorata che il popolino di Roma definisce «una faccia come il …» , perfetta non per l’ironia ma per il sarcasmo, per il darsi di gomito, per lo sghignazzo. I manifesti della Polverini fanno infatti pensare alla ramazza che sparge immondizia; allo strofinaccio che, ad ogni passata, spalma fanghiglia; al secchio pieno di acqua sudicia.
Ma la Ryanair ha capito che non c’è nulla di più trash dell’impunità che è un’altra categoria romanesca, roba da Belli e Trilussa che certamente avrebbero cantato in versi sia la Polverini sia i suoi tre fedelissimi moschettieri che la seguono e la ispirano sin dai tempi dell’Ugl e a suo nome hanno gestito fondi enormi e governato ogni genere di clientele: Stefano Cetica, il potentissimo assessore al Bilancio, Salvatore Ronghi, il segretario generale della Regione responsabile della lista, e infine l’iracondo capo di gabinetto Pietro Giovanni Zoroddu che lunedì sera ha tentato di picchiare giornalisti e fotografi.
Loro tre hanno inventato, per lei e con lei, questa campagna- paradosso, che non è solo infantile ma coltiva l’idea di sfruttare la generica retorica della pulizia che in questa vicenda romana ha mostrato purtroppo la sua povertà e i suoi guasti. Tutti infatti nel consiglio regionale del Lazio invocano la pulizia e tutti sfregiano e oltraggiano «i veri colpevoli ». Anche Fiorito grida che i ladri sono gli altri e che lui aiuterà i giudici e la politica «a fare pulizia». E pure le opposizioni negano di avere a loro volta taciuto e lucrato e anzi il Pd replica sui muri con i propri manifesti, anche questi con i soldi pubblici e anche questi negli spazi non consentiti: «Polverini a casa…». E dunque anche la Polverini, perché no?, fa la vittima e al tempo stesso la ribelle. In questa storia i più colpevoli sono quelli che più gridano ‘al ladro al ladro’, un po’ come in certi funerali dei romanzi gialli dove la più appariscente corona di fiori è quella dell’assassino, e dove il bacio più rumoroso è quello del mandante, con il risultato finale che fiori e baci sono tutti e sempre sospetti. Che fare se «facciamo pulizia» diventa lo slogan di chi ha sporcato, e se anche l’onestà diventa la retorica dei disonesti?
Ecco perché questi manifesti non sono soltanto comici e la Polverini non riesce a suscitare la pietas che sempre meritano gli sconfitti. Non ha scelto infatti di andarsene in campagna. Dopo un così grave fallimento, lei rilancia. Dopo avere gettato via la dignità del suo mondo d’origine, proclama di essere la sola per bene in quel consiglio indegno, di essere addirittura la ramazza della politica laziale e di venire perseguitata in quanto buon politico, «perché siamo noi che abbiamo tagliato i fondi ai santuari della sanità privata».
Ed è stato imbarazzante vederla a Ballarò mentre, al di la della vergogna, fingeva di fare buon viso al terribile gioco di rieducazione di Crozza: «sei venuta qui a Ballarò che eri nessuno, e ora che torni sei di nuovo nessuno », «scusa se non ho indossato il mio vestito da maiale», sino al «Polverini ma che minchia sai?» che fa entrare il dialetto siciliano nella lingua italiana attraverso la porta della comicità, con una parola che in quel contesto suona lieve e non solo perché l’altra, con quelle due zeta, è sempre un’esplosione di durezza e di trivialità. Il punto è che la volgarità stava tutta concentrata nell’enormità e nell’oscenità dello scandalo e dell’abuso di danaro pubblico e in quel viso falsamente e spudoratamente ingenuo, lo stesso che ora occhieggia sui muri di Roma con i suoi slogan surrealisti: ora faccio pulizia, ora li caccio via io… Ecco: è come le signorine “per male” di una volta che si rifacevano… il trucco.
da La Repubblica
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“Polverini firma le dimissioni e licenzia 5 assessori “nemici””, di m.fv.
Data del voto, l’ex governatrice prende tempo
— È andata in tv, ha incontrato più volte i vertici del Pdl, ha partecipato alla Conferenza Stato-Regioni, ha confermato 9 dirigenti e ha fatto un rimpasto di giunta che assomiglia tanto a una vendetta proprio nei confronti del Popolo delle libertà.
Alla fine, al terzo giorno dall’annuncio, Renata Polverini ha firmato le sue «dimissioni irrevocabili ». Oggi stesso, il presidente del consiglio regionale del Lazio, Mario Abbruzzese, dovrebbe per decreto sciogliere la Pisana. A quel punto si aprirà la partita per il voto, con l’ormai ex governatrice che, per legge, ha il compito di firmare la convocazione delle elezioni. Novanta giorni per indicare una data, sostiene l’ex sindacalista, nonostante quanto sottolineato dal Quirinale che, invece, parla di tre mesi di tempo entro cui celebrare il voto. Di fronte a questo dilemma, la Polverini attende un cenno da parte del ministro del-l’Interno, Anna Maria Cancellieri, che dovrebbe portare il caso Lazio direttamente in consiglio dei ministri per valutare tempi e costi di un eventuale election day.
Intanto, però, a pesare in queste ore sono gli atti politici della governatrice. Quello più forte (dopo la conferma, due giorni fa, di 9 dirigenti, tra cui due bocciati dal Tar) l’ha varato ieri, con un taglio di 5 assessori per ridurre la sua giunta. Da 15 membri si scende a 10, proprio come vorrebbe la nuova legge che l’ormai quasi sciolto consiglio del Lazio, probabilmente, non riuscirà a votare. Un taglio che, da una parte, porta a risparmiare 43 mila euro al mese alla giunta ma che, dall’altra, nasconde invece l’ultimo atto di una guerra interna tra Polverini e Pdl. A fare le spese del rimpasto, infatti, sono stati 5 assessori, tutti targati Pdl, molti della corrente dell’europarlamentare Antonio Tajani, sponsor politico del rivale di Franco Fiorito, Francesco Battistoni: saltano, dunque, Stefano Zappalà (Turismo), Marco Mattei (Ambiente), Gabriella Sentinelli (Istruzione), Francesco Lollobrigida (Trasporti). Discorso a parte, invece, merita Angela Birindelli, ex assessore all’Agricoltura, coinvolta in un’inchiesta della Procura di Viterbo, che la vede indagata per corruzione,
abuso d’ufficio e tentata estorsione. Ieri è stata lei a dimettersi, prima ancora che venisse tagliata dalla Polverini.
La governatrice, a legislatura ormai conclusa, scarica dunque gli assessori di cui si fida meno (compreso Lollobrigida, vicino al potente deputato Pdl Fabio Rampelli) e rafforza i suoi fedelissimi che acquisiscono deleghe di peso, come quella ai rifiuti
(nel pieno delle polemiche per la chiusura di Malagrotta) tolta a Pietro Di Paolo (uomo del sindaco di Roma, Gianni Alemanno) e assegnata a Giuseppe Cangemi. E mentre era impegnata a ridisegnare l’architettura della sua squadra, ieri un’altra polemica ha investito la Polverini: come scrive l’Espresso, lo scorso 24 giugno la governatrice ha raggiunto l’isola di Ponza per una manife-
stazione, utilizzando due motovedette della Guardia di Finanza. E con l’opposizione che attacca «i comportamenti tenuti dalla maestrina e dal suo cerchietto magico», arrivano anche le critiche del neo presidente di Unindustria Maurizio Stirpe: «In questi due anni i rapporti con la Regione sono stati inesistenti».
da La Repubblica
"La Mastro Lindo della moralità", di Francesco Merlo
Con l’incredibile slogan “Ora facciamo pulizia!” la sporcatissima Renata Polverini è, stilisticamente parlando, la prima allieva non siciliana di Totò Cuffaro che, arrestato per mafia, lanciò lo slogan “la mafia fa schifo”. I manifesti con cui la governatrice del Lazio ha tappezzato i muri di Roma seguono infatti quello stesso copione, che non è dettato dal suo comico di fiducia, ma dall’idea, con il sapore di modernità rimasticata, che la forza della pubblicità sono i paradossi e che dunque la politologia è ormai paradossologia. La Polverini ci ha creduto così tanto che, dismessa a furor di popolo perché insozzata da ogni genere di sporcizia politica e penale, ha tappezzato i muri di Roma, presumibilmente con i soldi pubblici e certamente anche negli spazi vietati alle affissioni, con la propria immagine, un bel primo piano del suo faccione di massaia pulitrice, una specie di Mastro Lindo della moralità: «Questa gente la mando a casa io».
E il paradosso è stato ‘premiato’ nientemeno che dalla Ryanair, la compagnia aerea low cost, che si è appropriata di quella rotonda faccia tosta, una Polverini in guanti di gomma, con straccio e secchio, che promette di tagliare le spese che ha coperto, bloccare gli sprechi che ha promosso e su cui ha lucrato, far brillare la casa di vetro che ha oscurato, risanare ciò che ha guastato: «Ora basta — è lo slogan della compagnia irlandese — volate con Ryanair perché costa di meno».
La Ryanair, che in tutto il mondo si promuove grazie al sapiente uso della deriva trash, ha colto nella Polverini più che una personalità un feticcio, il totem della sfrontatezza, la maschera spudorata che il popolino di Roma definisce «una faccia come il …» , perfetta non per l’ironia ma per il sarcasmo, per il darsi di gomito, per lo sghignazzo. I manifesti della Polverini fanno infatti pensare alla ramazza che sparge immondizia; allo strofinaccio che, ad ogni passata, spalma fanghiglia; al secchio pieno di acqua sudicia.
Ma la Ryanair ha capito che non c’è nulla di più trash dell’impunità che è un’altra categoria romanesca, roba da Belli e Trilussa che certamente avrebbero cantato in versi sia la Polverini sia i suoi tre fedelissimi moschettieri che la seguono e la ispirano sin dai tempi dell’Ugl e a suo nome hanno gestito fondi enormi e governato ogni genere di clientele: Stefano Cetica, il potentissimo assessore al Bilancio, Salvatore Ronghi, il segretario generale della Regione responsabile della lista, e infine l’iracondo capo di gabinetto Pietro Giovanni Zoroddu che lunedì sera ha tentato di picchiare giornalisti e fotografi.
Loro tre hanno inventato, per lei e con lei, questa campagna- paradosso, che non è solo infantile ma coltiva l’idea di sfruttare la generica retorica della pulizia che in questa vicenda romana ha mostrato purtroppo la sua povertà e i suoi guasti. Tutti infatti nel consiglio regionale del Lazio invocano la pulizia e tutti sfregiano e oltraggiano «i veri colpevoli ». Anche Fiorito grida che i ladri sono gli altri e che lui aiuterà i giudici e la politica «a fare pulizia». E pure le opposizioni negano di avere a loro volta taciuto e lucrato e anzi il Pd replica sui muri con i propri manifesti, anche questi con i soldi pubblici e anche questi negli spazi non consentiti: «Polverini a casa…». E dunque anche la Polverini, perché no?, fa la vittima e al tempo stesso la ribelle. In questa storia i più colpevoli sono quelli che più gridano ‘al ladro al ladro’, un po’ come in certi funerali dei romanzi gialli dove la più appariscente corona di fiori è quella dell’assassino, e dove il bacio più rumoroso è quello del mandante, con il risultato finale che fiori e baci sono tutti e sempre sospetti. Che fare se «facciamo pulizia» diventa lo slogan di chi ha sporcato, e se anche l’onestà diventa la retorica dei disonesti?
Ecco perché questi manifesti non sono soltanto comici e la Polverini non riesce a suscitare la pietas che sempre meritano gli sconfitti. Non ha scelto infatti di andarsene in campagna. Dopo un così grave fallimento, lei rilancia. Dopo avere gettato via la dignità del suo mondo d’origine, proclama di essere la sola per bene in quel consiglio indegno, di essere addirittura la ramazza della politica laziale e di venire perseguitata in quanto buon politico, «perché siamo noi che abbiamo tagliato i fondi ai santuari della sanità privata».
Ed è stato imbarazzante vederla a Ballarò mentre, al di la della vergogna, fingeva di fare buon viso al terribile gioco di rieducazione di Crozza: «sei venuta qui a Ballarò che eri nessuno, e ora che torni sei di nuovo nessuno », «scusa se non ho indossato il mio vestito da maiale», sino al «Polverini ma che minchia sai?» che fa entrare il dialetto siciliano nella lingua italiana attraverso la porta della comicità, con una parola che in quel contesto suona lieve e non solo perché l’altra, con quelle due zeta, è sempre un’esplosione di durezza e di trivialità. Il punto è che la volgarità stava tutta concentrata nell’enormità e nell’oscenità dello scandalo e dell’abuso di danaro pubblico e in quel viso falsamente e spudoratamente ingenuo, lo stesso che ora occhieggia sui muri di Roma con i suoi slogan surrealisti: ora faccio pulizia, ora li caccio via io… Ecco: è come le signorine “per male” di una volta che si rifacevano… il trucco.
da La Repubblica
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“Polverini firma le dimissioni e licenzia 5 assessori “nemici””, di m.fv.
Data del voto, l’ex governatrice prende tempo
— È andata in tv, ha incontrato più volte i vertici del Pdl, ha partecipato alla Conferenza Stato-Regioni, ha confermato 9 dirigenti e ha fatto un rimpasto di giunta che assomiglia tanto a una vendetta proprio nei confronti del Popolo delle libertà.
Alla fine, al terzo giorno dall’annuncio, Renata Polverini ha firmato le sue «dimissioni irrevocabili ». Oggi stesso, il presidente del consiglio regionale del Lazio, Mario Abbruzzese, dovrebbe per decreto sciogliere la Pisana. A quel punto si aprirà la partita per il voto, con l’ormai ex governatrice che, per legge, ha il compito di firmare la convocazione delle elezioni. Novanta giorni per indicare una data, sostiene l’ex sindacalista, nonostante quanto sottolineato dal Quirinale che, invece, parla di tre mesi di tempo entro cui celebrare il voto. Di fronte a questo dilemma, la Polverini attende un cenno da parte del ministro del-l’Interno, Anna Maria Cancellieri, che dovrebbe portare il caso Lazio direttamente in consiglio dei ministri per valutare tempi e costi di un eventuale election day.
Intanto, però, a pesare in queste ore sono gli atti politici della governatrice. Quello più forte (dopo la conferma, due giorni fa, di 9 dirigenti, tra cui due bocciati dal Tar) l’ha varato ieri, con un taglio di 5 assessori per ridurre la sua giunta. Da 15 membri si scende a 10, proprio come vorrebbe la nuova legge che l’ormai quasi sciolto consiglio del Lazio, probabilmente, non riuscirà a votare. Un taglio che, da una parte, porta a risparmiare 43 mila euro al mese alla giunta ma che, dall’altra, nasconde invece l’ultimo atto di una guerra interna tra Polverini e Pdl. A fare le spese del rimpasto, infatti, sono stati 5 assessori, tutti targati Pdl, molti della corrente dell’europarlamentare Antonio Tajani, sponsor politico del rivale di Franco Fiorito, Francesco Battistoni: saltano, dunque, Stefano Zappalà (Turismo), Marco Mattei (Ambiente), Gabriella Sentinelli (Istruzione), Francesco Lollobrigida (Trasporti). Discorso a parte, invece, merita Angela Birindelli, ex assessore all’Agricoltura, coinvolta in un’inchiesta della Procura di Viterbo, che la vede indagata per corruzione,
abuso d’ufficio e tentata estorsione. Ieri è stata lei a dimettersi, prima ancora che venisse tagliata dalla Polverini.
La governatrice, a legislatura ormai conclusa, scarica dunque gli assessori di cui si fida meno (compreso Lollobrigida, vicino al potente deputato Pdl Fabio Rampelli) e rafforza i suoi fedelissimi che acquisiscono deleghe di peso, come quella ai rifiuti
(nel pieno delle polemiche per la chiusura di Malagrotta) tolta a Pietro Di Paolo (uomo del sindaco di Roma, Gianni Alemanno) e assegnata a Giuseppe Cangemi. E mentre era impegnata a ridisegnare l’architettura della sua squadra, ieri un’altra polemica ha investito la Polverini: come scrive l’Espresso, lo scorso 24 giugno la governatrice ha raggiunto l’isola di Ponza per una manife-
stazione, utilizzando due motovedette della Guardia di Finanza. E con l’opposizione che attacca «i comportamenti tenuti dalla maestrina e dal suo cerchietto magico», arrivano anche le critiche del neo presidente di Unindustria Maurizio Stirpe: «In questi due anni i rapporti con la Regione sono stati inesistenti».
da La Repubblica
