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"Lo speriamo anche noi", di Francesco Cundari

Mario Monti ha ribadito ieri ancora una volta il suo impegno a non presentarsi alle elezioni e ha spiegato di ritenere naturale che dopo il voto il presidente del Consiglio sia un esponente del partito vincitore. Tuttavia considererebbe seriamente la possibilità di tornare a Palazzo Chigi, ha aggiunto, qualora «dovesse presentarsi una circostanza particolare, che io spero non si presenti». Sinceramente, lo speriamo anche noi. D’altra parte, la speciale necessità di un secondo governo Monti, a un anno e mezzo dall’inizio della cura somministrata al Paese dal primo, non deporrebbe a favore né della cura né del medico. E ancor meno, di conseguenza, della salute dell’Italia.

Comunque la si pensi nel merito delle scelte adottate sin qui dall’esecutivo, non bisogna dimenticare che ogni sua decisione è legata alla necessità di ottenere l’approvazione di una maggioranza che va dal Pd al Pdl. Pertanto, si può contestare la scelta di costituire il governo Monti nel momento della massima emergenza finanziaria, quando la crescita dello spread sembrava inarrestabile e il rischio di bancarotta dello Stato imminente, così come si può contestare la scelta di non porre termine a questa esperienza nei mesi immediatamente successivi, ma nel criticarne le decisioni non si può dimenticare la natura eccezionale della sua maggioranza, figlia delle circostanze non meno eccezionali che l’hanno resa possibile. Circostanze che giustamente Monti per primo, al contrario di tanti suoi meno responsabili sostenitori, si augura che non si ripetano. E ci mancherebbe: cosa direste di un medico che al termine di un difficile intervento si augurasse di rivedere presto il paziente?

C’è poi un secondo aspetto della questione che non andrebbe dimenticato. Ed è la differenza che corre, per un Paese che ogni giorno guarda con preoccupazione alla possibilità di rifinanziare il proprio debito sui mercati, tra l’avere un presidente del Consiglio che negli Stati Uniti come nei principali Paesi europei persino i capi di governo della sua stessa famiglia politica rifiutano anche solo di ricevere, e l’avere un presidente del Consiglio che ovunque vada si sente ripetere con insistenza la stessa domanda, esattamente come è accaduto ieri al Council on Foreign Relations, e cioè se sarebbe disponibile a tornare alla guida del governo dopo le elezioni. Al suo predecessore, quando proprio non potevano fare a meno di incontrarlo, politici e osservatori internazionali dei Paesi democratici usavano porre semmai la domanda contraria. Non è una differenza da poco. E tale differenza non è senza rapporto con quel problema di credibilità internazionale dell’Italia con cui ancora siamo costretti a fare i conti.
Questa è forse la più pesante eredità del berlusconismo, certamente una delle più durature e difficili da superare, anche perché si inserisce in un’antica e consolidata tradizione di pregiudizi anti-italiani che purtroppo noi stessi, in particolare noi giornalisti, siamo spesso i primi a diffondere.
L’autorevolezza, il prestigio, le relazioni internazionali di Mario Monti rappresentano da questo punto di vista un patrimonio dell’Italia. Un patrimonio che c’è da augurarsi sia investito generosamente nei prossimi mesi a difesa del Paese, del suo sistema economico e delle sue istituzioni democratiche. Del resto, non sarebbe possibile, anche volendolo, fare diversamente. Non è possibile difendere la credibilità dell’Italia davanti agli investitori internazionali o nei vertici europei senza difendere la solidità delle sue istituzioni, la tenuta democratica e civile del Paese, senza difendere la maturità e il senso di responsabilità degli italiani. Quale fiducia si potrebbe chiedere altrimenti, se si accettasse l’immagine di un Paese strutturalmente incapace di darsi un governo politico attraverso libere elezioni, sempre bisognoso di tutele e vincoli esterni, in commissariamento perpetuo da parte delle più mature democrazie europee?

Quali che siano gli incarichi che Mario Monti si troverà a ricoprire nei prossimi anni, l’Italia avrà ancora grandissimo bisogno della sua voce. C’è da augurarsi che la faccia sentire, senza timore di mettersi controvento, come in passato si è già mostrato capace di fare, anche dinanzi a tanti luoghi comuni e certezze consolidate di un mondo finanziario che in questi anni non si è dimostrato certo lo specchio di tutte le virtù. Gran parte dei ritornelli che ancora oggi sentiamo ripetere come verità rivelate in tema di politica economica dovrebbero essere rimasti sepolti sotto le macerie della più grave crisi dagli anni Trenta, cominciata con il crollo di Lehman Brothers nel 2008, quando l’intero sistema finanziario americano ha sfiorato il collasso.

Oggi, però, per uscire dalla spirale rigore-recessione-rigore in cui l’Europa sta sprofondando, c’è bisogno di una svolta. Una svolta che non sarà possibile se rimarremo prigionieri delle vecchie ricette che hanno prodotto la crisi e peggiorato lo stato degli stessi conti pubblici ovunque siano state applicate in questi anni (a cominciare dalla Grecia), ma che richiederà anche il concorso di tutte le energie del Paese, in uno sforzo comune e solidale.

L’Unità 28.09.12

"Lo speriamo anche noi", di Francesco Cundari

Mario Monti ha ribadito ieri ancora una volta il suo impegno a non presentarsi alle elezioni e ha spiegato di ritenere naturale che dopo il voto il presidente del Consiglio sia un esponente del partito vincitore. Tuttavia considererebbe seriamente la possibilità di tornare a Palazzo Chigi, ha aggiunto, qualora «dovesse presentarsi una circostanza particolare, che io spero non si presenti». Sinceramente, lo speriamo anche noi. D’altra parte, la speciale necessità di un secondo governo Monti, a un anno e mezzo dall’inizio della cura somministrata al Paese dal primo, non deporrebbe a favore né della cura né del medico. E ancor meno, di conseguenza, della salute dell’Italia.
Comunque la si pensi nel merito delle scelte adottate sin qui dall’esecutivo, non bisogna dimenticare che ogni sua decisione è legata alla necessità di ottenere l’approvazione di una maggioranza che va dal Pd al Pdl. Pertanto, si può contestare la scelta di costituire il governo Monti nel momento della massima emergenza finanziaria, quando la crescita dello spread sembrava inarrestabile e il rischio di bancarotta dello Stato imminente, così come si può contestare la scelta di non porre termine a questa esperienza nei mesi immediatamente successivi, ma nel criticarne le decisioni non si può dimenticare la natura eccezionale della sua maggioranza, figlia delle circostanze non meno eccezionali che l’hanno resa possibile. Circostanze che giustamente Monti per primo, al contrario di tanti suoi meno responsabili sostenitori, si augura che non si ripetano. E ci mancherebbe: cosa direste di un medico che al termine di un difficile intervento si augurasse di rivedere presto il paziente?
C’è poi un secondo aspetto della questione che non andrebbe dimenticato. Ed è la differenza che corre, per un Paese che ogni giorno guarda con preoccupazione alla possibilità di rifinanziare il proprio debito sui mercati, tra l’avere un presidente del Consiglio che negli Stati Uniti come nei principali Paesi europei persino i capi di governo della sua stessa famiglia politica rifiutano anche solo di ricevere, e l’avere un presidente del Consiglio che ovunque vada si sente ripetere con insistenza la stessa domanda, esattamente come è accaduto ieri al Council on Foreign Relations, e cioè se sarebbe disponibile a tornare alla guida del governo dopo le elezioni. Al suo predecessore, quando proprio non potevano fare a meno di incontrarlo, politici e osservatori internazionali dei Paesi democratici usavano porre semmai la domanda contraria. Non è una differenza da poco. E tale differenza non è senza rapporto con quel problema di credibilità internazionale dell’Italia con cui ancora siamo costretti a fare i conti.
Questa è forse la più pesante eredità del berlusconismo, certamente una delle più durature e difficili da superare, anche perché si inserisce in un’antica e consolidata tradizione di pregiudizi anti-italiani che purtroppo noi stessi, in particolare noi giornalisti, siamo spesso i primi a diffondere.
L’autorevolezza, il prestigio, le relazioni internazionali di Mario Monti rappresentano da questo punto di vista un patrimonio dell’Italia. Un patrimonio che c’è da augurarsi sia investito generosamente nei prossimi mesi a difesa del Paese, del suo sistema economico e delle sue istituzioni democratiche. Del resto, non sarebbe possibile, anche volendolo, fare diversamente. Non è possibile difendere la credibilità dell’Italia davanti agli investitori internazionali o nei vertici europei senza difendere la solidità delle sue istituzioni, la tenuta democratica e civile del Paese, senza difendere la maturità e il senso di responsabilità degli italiani. Quale fiducia si potrebbe chiedere altrimenti, se si accettasse l’immagine di un Paese strutturalmente incapace di darsi un governo politico attraverso libere elezioni, sempre bisognoso di tutele e vincoli esterni, in commissariamento perpetuo da parte delle più mature democrazie europee?
Quali che siano gli incarichi che Mario Monti si troverà a ricoprire nei prossimi anni, l’Italia avrà ancora grandissimo bisogno della sua voce. C’è da augurarsi che la faccia sentire, senza timore di mettersi controvento, come in passato si è già mostrato capace di fare, anche dinanzi a tanti luoghi comuni e certezze consolidate di un mondo finanziario che in questi anni non si è dimostrato certo lo specchio di tutte le virtù. Gran parte dei ritornelli che ancora oggi sentiamo ripetere come verità rivelate in tema di politica economica dovrebbero essere rimasti sepolti sotto le macerie della più grave crisi dagli anni Trenta, cominciata con il crollo di Lehman Brothers nel 2008, quando l’intero sistema finanziario americano ha sfiorato il collasso.
Oggi, però, per uscire dalla spirale rigore-recessione-rigore in cui l’Europa sta sprofondando, c’è bisogno di una svolta. Una svolta che non sarà possibile se rimarremo prigionieri delle vecchie ricette che hanno prodotto la crisi e peggiorato lo stato degli stessi conti pubblici ovunque siano state applicate in questi anni (a cominciare dalla Grecia), ma che richiederà anche il concorso di tutte le energie del Paese, in uno sforzo comune e solidale.
L’Unità 28.09.12

"Sondaggio sulle primarie: no ai voti del centrodestra", di Virginia Lori

I primi risultati del sondaggio su www.unita.it: il 78 per cento chiede che la consultazione sia aperta agli elettori di centrosinistra e a chi si impegna moralmente a votare il vincitore alle politiche. Ma alle primarie del centrosinistra può votare la destra? E si può far appello al voto trasversale? L’Unità ha fatto un sondaggio tra i suoi lettori e i visitatori del sito web (www.unita.it) chiedendo direttamente a loro cosa ne pensano. In due giorni sono già migliaia le risposte cliccate. Alla domanda «a chi aprire le primarie del centrosinistra» il 78% (4.478 utenti) risponde senza dubbio: soltanto a coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore delle primarie anche alle elezioni politiche. Soltanto per il 12% dovrebbero essere aperte a chiunque voglia partecipare, dunque anche ad elettori che non si sentono impegnati con il centrosinistra, mentre il restante 11% ritiene che possano votare alle primarie sia gli elettori di centrosinistra sia i «non schierati».
«Se lo scopo delle primarie è allargare quanto più possibile la nostra base di consenso ha scritto Ivan Scalfarotto (che appoggia Matteo Renzi) in questo particolare momento storico e vincere, allora bisogna favorire la più ampia partecipazione». Di parere opposto Tommaso Giuntella, del comitato pro-Bersani: «Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica».
Sempre su queste pagine Michele Prospero descrive quanto sta accadendo nel centrodestra: «A destra ora c’è chi reclama il diritto (sic!) di votare alle primarie con l’avvertenza che però, se Renzi non dovesse spuntarla nei gazebo, alle urne del 2013 tornerà all’ovile e quindi non sosterrà mai Bersani. Parrebbe uno stralunato episodio della commedia all’italiana e invece è una tragedia che rivela la corruzione ideale di oggi».
Stefano Ceccanti la vede da un altro punto di vista: «La scelta delle primarie chiuse concentra il massimo delle controindicazioni: priva il partito o la coalizione dell’apertura di massa delle primarie dirette, allontanando le caratteristiche dell’elettorato delle primarie da quello delle secondarie, e lo priva anche dell’apertura mentale delle leadership interessate a vincere. Mette invece la scelta per intero nelle mani di minoranze ideologizzate, più interessate a confermare la propria identità che a conquistare consensi nuovi».
Ma intanto, in vista dell’Assemblea del sei ottobre, che dovrà stabilire le norme di “ingresso” e cambiare quella dello Statuto che individua nel segretario il candidato alle primarie di coalizione, gli sherpa di Pd, Sel e Psi (Migliavacca, Ferrara e Di Lello), che stanno lavorando all’organizzazione dei gazebo, provano a fissare dei punti fermi: se nessun candidato raggiungerà il 50 più uno dei consensi al primo turno si andrà al ballottaggio tra i primi due.
Le possibili date: il primo turno si terrebbe domenica 25 novembre, l’eventuale secondo turno domenica 2 dicembre. Chi parteciperà alle primarie, inoltre, dovrà iscriversi in un apposito elenco. Si presume pubblico, come è accaduto per quelle per il sindaco di Firenze.
E proprio il sindaco fiorentino ieri mattina è tornato sulla questione delle regole. Vuole «le stesse usate per Prodi, Veltroni e Bersani». E a tal fine, assicura di fidarsi di quelle «che sceglie il segretario del mio partito. Penso sia bene mantenere le consultazioni aperte». Quanto all’ipotesi di candidarsi come segretario del Pd, in caso di sconfitta per la premiership, la risposta in dialetto napoletano, con accento fiorentino, sgombra il campo da dubbi: «Manco pa’ capa!». Quello che gli passa per la testa, invece, è un timore: che sulle primarie scatti l’«effetto Napoli», riferendosi a quanto accaduto con Cozzolino. «So bene cosa è accaduto qui: un’esperienza utile… Nel senso che non deve più succedere, occorre fare il contrario». Spiega: «Mio figlio ha 11 anni e si dichiara bersaniano perché non vorrebbe il padre in giro per tre mesi. Temo che cambino le regole in corsa ma non credo che faranno votare pure i bambini». Pier Luigi Bersani, a cui viene chiesto di replicare a Renzi, risponde: «Devo dire, sinceramente, che sto utilizzando più tempo sulla vicenda esodati che sulle primarie».

L’Unità 28.09.12

"Sondaggio sulle primarie: no ai voti del centrodestra", di Virginia Lori

I primi risultati del sondaggio su www.unita.it: il 78 per cento chiede che la consultazione sia aperta agli elettori di centrosinistra e a chi si impegna moralmente a votare il vincitore alle politiche. Ma alle primarie del centrosinistra può votare la destra? E si può far appello al voto trasversale? L’Unità ha fatto un sondaggio tra i suoi lettori e i visitatori del sito web (www.unita.it) chiedendo direttamente a loro cosa ne pensano. In due giorni sono già migliaia le risposte cliccate. Alla domanda «a chi aprire le primarie del centrosinistra» il 78% (4.478 utenti) risponde senza dubbio: soltanto a coloro che si impegnano moralmente a votare il vincitore delle primarie anche alle elezioni politiche. Soltanto per il 12% dovrebbero essere aperte a chiunque voglia partecipare, dunque anche ad elettori che non si sentono impegnati con il centrosinistra, mentre il restante 11% ritiene che possano votare alle primarie sia gli elettori di centrosinistra sia i «non schierati».
«Se lo scopo delle primarie è allargare quanto più possibile la nostra base di consenso ha scritto Ivan Scalfarotto (che appoggia Matteo Renzi) in questo particolare momento storico e vincere, allora bisogna favorire la più ampia partecipazione». Di parere opposto Tommaso Giuntella, del comitato pro-Bersani: «Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica».
Sempre su queste pagine Michele Prospero descrive quanto sta accadendo nel centrodestra: «A destra ora c’è chi reclama il diritto (sic!) di votare alle primarie con l’avvertenza che però, se Renzi non dovesse spuntarla nei gazebo, alle urne del 2013 tornerà all’ovile e quindi non sosterrà mai Bersani. Parrebbe uno stralunato episodio della commedia all’italiana e invece è una tragedia che rivela la corruzione ideale di oggi».
Stefano Ceccanti la vede da un altro punto di vista: «La scelta delle primarie chiuse concentra il massimo delle controindicazioni: priva il partito o la coalizione dell’apertura di massa delle primarie dirette, allontanando le caratteristiche dell’elettorato delle primarie da quello delle secondarie, e lo priva anche dell’apertura mentale delle leadership interessate a vincere. Mette invece la scelta per intero nelle mani di minoranze ideologizzate, più interessate a confermare la propria identità che a conquistare consensi nuovi».
Ma intanto, in vista dell’Assemblea del sei ottobre, che dovrà stabilire le norme di “ingresso” e cambiare quella dello Statuto che individua nel segretario il candidato alle primarie di coalizione, gli sherpa di Pd, Sel e Psi (Migliavacca, Ferrara e Di Lello), che stanno lavorando all’organizzazione dei gazebo, provano a fissare dei punti fermi: se nessun candidato raggiungerà il 50 più uno dei consensi al primo turno si andrà al ballottaggio tra i primi due.
Le possibili date: il primo turno si terrebbe domenica 25 novembre, l’eventuale secondo turno domenica 2 dicembre. Chi parteciperà alle primarie, inoltre, dovrà iscriversi in un apposito elenco. Si presume pubblico, come è accaduto per quelle per il sindaco di Firenze.
E proprio il sindaco fiorentino ieri mattina è tornato sulla questione delle regole. Vuole «le stesse usate per Prodi, Veltroni e Bersani». E a tal fine, assicura di fidarsi di quelle «che sceglie il segretario del mio partito. Penso sia bene mantenere le consultazioni aperte». Quanto all’ipotesi di candidarsi come segretario del Pd, in caso di sconfitta per la premiership, la risposta in dialetto napoletano, con accento fiorentino, sgombra il campo da dubbi: «Manco pa’ capa!». Quello che gli passa per la testa, invece, è un timore: che sulle primarie scatti l’«effetto Napoli», riferendosi a quanto accaduto con Cozzolino. «So bene cosa è accaduto qui: un’esperienza utile… Nel senso che non deve più succedere, occorre fare il contrario». Spiega: «Mio figlio ha 11 anni e si dichiara bersaniano perché non vorrebbe il padre in giro per tre mesi. Temo che cambino le regole in corsa ma non credo che faranno votare pure i bambini». Pier Luigi Bersani, a cui viene chiesto di replicare a Renzi, risponde: «Devo dire, sinceramente, che sto utilizzando più tempo sulla vicenda esodati che sulle primarie».
L’Unità 28.09.12

"Due strade per combattere l'abbandono scolastico", di Marco Rossi Doria*

Caro direttore, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico Il presidente Giorgio Napolitano ha ricordato che in generale l’istruzione nel nostro Paese è migliorata, ma che nuovi compiti – di consolidamento e innovazione – sono all’ordine del giorno. Ieri a Torino si è aperto un confronto sulla lotta al fallimento formativo. Ma quali sono le tendenze nel mondo riguardo alla scuola per tutti?
Ovunque le politiche per l’istruzione seguono traiettorie ricorrenti, legate alle tappe dello sviluppo. Con la prima industrializzazione e l’ammodernamento dell’agricoltura si edifica il sistema scolastico nazionale, con il compito della lotta all’analfabetismo. Successivamente si rafforza il settore tecnico, per formare un’ampia fascia di lavoratori dell’industria qualificati. Infine, nel momento di massima espansione e crescita, si utilizza parte delle risorse per aumentare la qualità generale dell’istruzione e della formazione. E’ il momento in cui le politiche pubbliche investono fortemente e per periodi prolungati in quattro direzioni: ricerca e ricerca applicata, generalizzazione degli studi universitari o tecnici superiori, azioni dedicate alle fasce più povere rimaste escluse, apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Mentre queste fasi nel mondo occidentale hanno impiegato oltre un secolo, nei Paesi emergenti a partire dagli Anni 70 l’intero processo corre a velocità doppia. Il Brasile negli ultimi dieci anni ha dedicato idee e risorse per innalzare il tasso di istruzione universitaria specialmente tra i soggetti più deboli. L’India, che dalla metà degli Anni Ottanta dispone di un sistema di istruzione selettivo e di buona qualità, in particolare per i settori tecnici e scientifici, oggi è chiamata ad affrontare il tema della disuguaglianza. Una situazione analoga riguarda la Cina, dove fino ad oggi l’obiettivo principale è stato quello della produttività. Da quando nel 1998 è stato lanciato un programma per l’istruzione superiore, le iscrizioni all’università sono aumentate subito del 165% e poi del 50% per ulteriori quattro anni. E tutti ripetono: non uno deve restare indietro, ognuno deve riuscire secondo le sue possibilità.

L’Italia – che aveva combattuto l’analfabetismo fin dall’Unità – insieme al decollo industriale degli Anni 50-70, è riuscita ad ampliare la base di accesso all’istruzione superiore e poi anche a creare una buona rete di istituti tecnici. E’ riuscita invece peggio degli altri Paesi europei, purtroppo, a diminuire il tasso di abbandono precoce degli studi, soprattutto nelle sacche di maggiore esclusione economica e sociale. E non ha aumentato a sufficienza il numero di laureati, che inoltre fatica a inserire nel lavoro.

Continuiamo a perdere prima del diploma o della qualifica professionale quasi uno studente su cinque, il 18,8%, con enormi e intollerabili disparità geografiche e sociali. Questa disuguaglianza delle opportunità, oltre ad essere un fallimento per un Paese collocato nel solco del modello sociale europeo, è anche una grave perdita di risorse.

Il libro bianco sulla scuola del 2007 stimava che la dispersione scolastica, all’epoca del 20,6%, costasse all’Italia 2 miliardi e mezzo di euro.

Il nostro Paese si trova dunque di fronte a una duplice sfida: dover correre ai ripari e doverlo fare in un contesto economico profondamente mutato, senza poter utilizzare programmi estensivi, centralizzati e basati sull’aumento della spesa pubblica.

Dobbiamo affrontare questa sfida sapendo che l’abbandono precoce degli studi non è la malattia della nostra scuola, ma un suo sintomo. La malattia è la standardizzazione dell’apprendimento e delle strade a disposizione dei giovani per costruire la propria vita autonoma.

Una possibile cura può partire da due elementi: la rottura dello standard, attraverso una personalizzazione della didattica fin dalla prima infanzia; la partecipazione dello straordinario esercito civile che abbiamo a disposizione gli insegnanti e gli operatori sociali – per costruire nei territori più difficili delle vere e proprie comunità educanti. E’ il lavoro che il Governo ha avviato nel Mezzogiorno e che speriamo possa tracciare un inizio di strada verso l’obiettivo più importante: sostenere equità e sviluppo a partire dai diritti dell’infanzia e dal futuro dei giovani.

*Sottosegretario all’Istruzione

La Stampa 28.09.12

"Due strade per combattere l'abbandono scolastico", di Marco Rossi Doria*

Caro direttore, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico Il presidente Giorgio Napolitano ha ricordato che in generale l’istruzione nel nostro Paese è migliorata, ma che nuovi compiti – di consolidamento e innovazione – sono all’ordine del giorno. Ieri a Torino si è aperto un confronto sulla lotta al fallimento formativo. Ma quali sono le tendenze nel mondo riguardo alla scuola per tutti?
Ovunque le politiche per l’istruzione seguono traiettorie ricorrenti, legate alle tappe dello sviluppo. Con la prima industrializzazione e l’ammodernamento dell’agricoltura si edifica il sistema scolastico nazionale, con il compito della lotta all’analfabetismo. Successivamente si rafforza il settore tecnico, per formare un’ampia fascia di lavoratori dell’industria qualificati. Infine, nel momento di massima espansione e crescita, si utilizza parte delle risorse per aumentare la qualità generale dell’istruzione e della formazione. E’ il momento in cui le politiche pubbliche investono fortemente e per periodi prolungati in quattro direzioni: ricerca e ricerca applicata, generalizzazione degli studi universitari o tecnici superiori, azioni dedicate alle fasce più povere rimaste escluse, apprendimento lungo tutto l’arco della vita.
Mentre queste fasi nel mondo occidentale hanno impiegato oltre un secolo, nei Paesi emergenti a partire dagli Anni 70 l’intero processo corre a velocità doppia. Il Brasile negli ultimi dieci anni ha dedicato idee e risorse per innalzare il tasso di istruzione universitaria specialmente tra i soggetti più deboli. L’India, che dalla metà degli Anni Ottanta dispone di un sistema di istruzione selettivo e di buona qualità, in particolare per i settori tecnici e scientifici, oggi è chiamata ad affrontare il tema della disuguaglianza. Una situazione analoga riguarda la Cina, dove fino ad oggi l’obiettivo principale è stato quello della produttività. Da quando nel 1998 è stato lanciato un programma per l’istruzione superiore, le iscrizioni all’università sono aumentate subito del 165% e poi del 50% per ulteriori quattro anni. E tutti ripetono: non uno deve restare indietro, ognuno deve riuscire secondo le sue possibilità.
L’Italia – che aveva combattuto l’analfabetismo fin dall’Unità – insieme al decollo industriale degli Anni 50-70, è riuscita ad ampliare la base di accesso all’istruzione superiore e poi anche a creare una buona rete di istituti tecnici. E’ riuscita invece peggio degli altri Paesi europei, purtroppo, a diminuire il tasso di abbandono precoce degli studi, soprattutto nelle sacche di maggiore esclusione economica e sociale. E non ha aumentato a sufficienza il numero di laureati, che inoltre fatica a inserire nel lavoro.
Continuiamo a perdere prima del diploma o della qualifica professionale quasi uno studente su cinque, il 18,8%, con enormi e intollerabili disparità geografiche e sociali. Questa disuguaglianza delle opportunità, oltre ad essere un fallimento per un Paese collocato nel solco del modello sociale europeo, è anche una grave perdita di risorse.
Il libro bianco sulla scuola del 2007 stimava che la dispersione scolastica, all’epoca del 20,6%, costasse all’Italia 2 miliardi e mezzo di euro.
Il nostro Paese si trova dunque di fronte a una duplice sfida: dover correre ai ripari e doverlo fare in un contesto economico profondamente mutato, senza poter utilizzare programmi estensivi, centralizzati e basati sull’aumento della spesa pubblica.
Dobbiamo affrontare questa sfida sapendo che l’abbandono precoce degli studi non è la malattia della nostra scuola, ma un suo sintomo. La malattia è la standardizzazione dell’apprendimento e delle strade a disposizione dei giovani per costruire la propria vita autonoma.
Una possibile cura può partire da due elementi: la rottura dello standard, attraverso una personalizzazione della didattica fin dalla prima infanzia; la partecipazione dello straordinario esercito civile che abbiamo a disposizione gli insegnanti e gli operatori sociali – per costruire nei territori più difficili delle vere e proprie comunità educanti. E’ il lavoro che il Governo ha avviato nel Mezzogiorno e che speriamo possa tracciare un inizio di strada verso l’obiettivo più importante: sostenere equità e sviluppo a partire dai diritti dell’infanzia e dal futuro dei giovani.
*Sottosegretario all’Istruzione
La Stampa 28.09.12

"Contro le leggi del malgoverno", di Alberto Bisin

Le vicende dell’amministrazione regionale del Lazio non devono essere viste solo come una questione di costume, come una estrema manifestazione di decadenza morale ed estetica. I casi di malgoverno nelle amministrazioni locali sono all’ordine del giorno, i principi etici che a parole muovono le forze di governo sono regolarmente immolati a un detestabile affarismo, a leggere le cronache giudiziarie. Le differenze paiono spesso esteriori, di natura estetica appunto: eleganti yacht e isole esotiche invece di maiali e gladiatori.
Al di là delle vicende penali e dei casi più palesi e succulenti dal punto di vista della cronaca, mi pare si configuri una situazione allarmante abbastanza generale nell’esercizio dell’amministrazione locale in Italia. Molti sono i fattori che potenzialmente spiegano tutto questo. Non ultimo un meccanismo di selezione della classe dirigente (non solo politica) per nulla aperto al merito e schiacciato invece sui rapporti di appartenenza al gruppo rilevante di riferimento, la famiglia, la chiesa, il partito, o quant’altro. Ma se alcuni tratti culturali deteriori del nostro Paese non ci portano in modo naturale all’amministrazione oculata ed efficiente della cosa pubblica, la struttura legislativa che governa l’amministrazione locale certamente non aiuta. La legge sul federalismo (più propriamente la modifica del capitolo V della Costituzione del 2001; ma la normativa sul decentramento amministrativo inizia negli anni 70), al di là della competenza e delle qualità morali degli amministratori, fornisce loro incentivi perversi. Essa prevede infatti una forte autonomia locale di spesa senza stabilire a fronte una corrispettiva responsabilità locale nella raccolta fiscale. Di conseguenza, un ammini-stratore che costruisca ospedali e tribunali in ogni villaggio del suo collegio provvede ad un servizio. Questo servizio ha però un costo che il collegio elettorale non paga. Non vi è modo quindi di garantire che l’amministratore abbia incentivo a produrre il servizio efficientemente (ad esempio, evitando di favorire i suoi particolari gruppi di riferimento negli appalti), né di stabilire che i benefici sociali del servizio siano superiori ai costi (quando ad esempio, il costo di rivolgersi all’ospedale o al tribunale del paese a fianco sia ridotto). In alcuni casi, in regioni purtroppo abituate al malgoverno, anche ospedali di bassa qualità e tribunali eccessivamente lenti sono meglio di niente. In questo contesto, poi, assunzioni clientelari sono una manna dal cielo.
Questo meccanismo, di per sé in atto a livello locale in tutto il Paese, opera a un livello spesso scandaloso nel caso delle regioni a statuto speciale. Il caso della Regione Sicilia è stato scalzato dalle prime pagine dei giornali dal caso Lazio, ma non per questo gli immensi sprechi dell’amministrazione di questa regione sono cessati. E anche quelle regioni che hanno saputo sfruttare lo statuto speciale a favore dei propri abitanti, come il Trentino Alto Adige, lo hanno fatto a costi in larga parte afferenti al resto del Paese.
In secondo luogo la legge prevede una notevole autonomia decisionale delle amministrazioni locali riguardo al finanziamento della propria attività. Ancora una volta, naturalmente, senza che il collegio elettorale ne paghi un costo diretto. A leggere sui giornali in questi giorni che (l’ufficio di presidenza del la Regione Lazio abbia potuto far lievitare le erogazioni ai gruppi politici da 1 a 14 milioni, autonomamente, con un semplice voto di ratifica del consiglio regionale, viene davvero da trasecolare. Come è possibile una struttura normativa così abnormemente avulsa dalla più basilare logica di analisi degli incentivi. Eppure è così, e non solo a livello locale: osserviamo in questi giorni che i membri del Senato possono autonomamente rifiutare di assoggettare i propri gruppi politici a pur minime norme di trasparenza.
Quando le leggi sembrano disegnate per produrre massimi incentivi al malgoverno e alla corruzione, in un Paese la cui classe dirigente è cooptata senza riguardo al merito, in cui il malgoverno è spesso accettato nella migliore delle ipotesi con rassegnazione, il controllo della politica finisce per essere demandato ex-post alla magistratura. Questa sarebbe una soluzione estremamente inefficiente, anche se la magistratura non avesse i problemi strutturali che ha in Italia.
È necessario invece agire con urgenza sulla legislazione per garantire che essa produca il più possibile incentivi appropriati. Una volta definiti con chiarezza i capitoli di spesa da demandare alle regioni e di qui ai comuni (da per scontato che le province aggiungano sostanzialmente un inutile strato burocratico ed ammi-nistrativo), si dovrebbe affiancare all’autonomia di spesa un sistema di imposte (addizionali Irpef, ad esempio) che garantisca anno per anno bilanci regionali e comunali in pareggio, così da trasferire immediatamente sul collegio elettorale il costo di servizi pubblici inefficienti. Non solo, ma è assolutamente necessario che i bilanci delle amministrazioni locali siano soggetti annualmente a certificazione pubblica da parte di società contabili responsabili e che i costi amministrativi per capitolo di spesa (sanità, istruzione, gestione politica, ecc.) pro-capite siano pubblicizzati in modo chiaro e trasparente ai cittadini. E infine, naturalmente, norme severissime contro corruzione e reati contabili, per quegli amministratori locali per cui gli incentivi
non siano sufficienti.

La Repubblica 28.09.12