attualità, politica italiana

"Contro le leggi del malgoverno", di Alberto Bisin

Le vicende dell’amministrazione regionale del Lazio non devono essere viste solo come una questione di costume, come una estrema manifestazione di decadenza morale ed estetica. I casi di malgoverno nelle amministrazioni locali sono all’ordine del giorno, i principi etici che a parole muovono le forze di governo sono regolarmente immolati a un detestabile affarismo, a leggere le cronache giudiziarie. Le differenze paiono spesso esteriori, di natura estetica appunto: eleganti yacht e isole esotiche invece di maiali e gladiatori.
Al di là delle vicende penali e dei casi più palesi e succulenti dal punto di vista della cronaca, mi pare si configuri una situazione allarmante abbastanza generale nell’esercizio dell’amministrazione locale in Italia. Molti sono i fattori che potenzialmente spiegano tutto questo. Non ultimo un meccanismo di selezione della classe dirigente (non solo politica) per nulla aperto al merito e schiacciato invece sui rapporti di appartenenza al gruppo rilevante di riferimento, la famiglia, la chiesa, il partito, o quant’altro. Ma se alcuni tratti culturali deteriori del nostro Paese non ci portano in modo naturale all’amministrazione oculata ed efficiente della cosa pubblica, la struttura legislativa che governa l’amministrazione locale certamente non aiuta. La legge sul federalismo (più propriamente la modifica del capitolo V della Costituzione del 2001; ma la normativa sul decentramento amministrativo inizia negli anni 70), al di là della competenza e delle qualità morali degli amministratori, fornisce loro incentivi perversi. Essa prevede infatti una forte autonomia locale di spesa senza stabilire a fronte una corrispettiva responsabilità locale nella raccolta fiscale. Di conseguenza, un ammini-stratore che costruisca ospedali e tribunali in ogni villaggio del suo collegio provvede ad un servizio. Questo servizio ha però un costo che il collegio elettorale non paga. Non vi è modo quindi di garantire che l’amministratore abbia incentivo a produrre il servizio efficientemente (ad esempio, evitando di favorire i suoi particolari gruppi di riferimento negli appalti), né di stabilire che i benefici sociali del servizio siano superiori ai costi (quando ad esempio, il costo di rivolgersi all’ospedale o al tribunale del paese a fianco sia ridotto). In alcuni casi, in regioni purtroppo abituate al malgoverno, anche ospedali di bassa qualità e tribunali eccessivamente lenti sono meglio di niente. In questo contesto, poi, assunzioni clientelari sono una manna dal cielo.
Questo meccanismo, di per sé in atto a livello locale in tutto il Paese, opera a un livello spesso scandaloso nel caso delle regioni a statuto speciale. Il caso della Regione Sicilia è stato scalzato dalle prime pagine dei giornali dal caso Lazio, ma non per questo gli immensi sprechi dell’amministrazione di questa regione sono cessati. E anche quelle regioni che hanno saputo sfruttare lo statuto speciale a favore dei propri abitanti, come il Trentino Alto Adige, lo hanno fatto a costi in larga parte afferenti al resto del Paese.
In secondo luogo la legge prevede una notevole autonomia decisionale delle amministrazioni locali riguardo al finanziamento della propria attività. Ancora una volta, naturalmente, senza che il collegio elettorale ne paghi un costo diretto. A leggere sui giornali in questi giorni che (l’ufficio di presidenza del la Regione Lazio abbia potuto far lievitare le erogazioni ai gruppi politici da 1 a 14 milioni, autonomamente, con un semplice voto di ratifica del consiglio regionale, viene davvero da trasecolare. Come è possibile una struttura normativa così abnormemente avulsa dalla più basilare logica di analisi degli incentivi. Eppure è così, e non solo a livello locale: osserviamo in questi giorni che i membri del Senato possono autonomamente rifiutare di assoggettare i propri gruppi politici a pur minime norme di trasparenza.
Quando le leggi sembrano disegnate per produrre massimi incentivi al malgoverno e alla corruzione, in un Paese la cui classe dirigente è cooptata senza riguardo al merito, in cui il malgoverno è spesso accettato nella migliore delle ipotesi con rassegnazione, il controllo della politica finisce per essere demandato ex-post alla magistratura. Questa sarebbe una soluzione estremamente inefficiente, anche se la magistratura non avesse i problemi strutturali che ha in Italia.
È necessario invece agire con urgenza sulla legislazione per garantire che essa produca il più possibile incentivi appropriati. Una volta definiti con chiarezza i capitoli di spesa da demandare alle regioni e di qui ai comuni (da per scontato che le province aggiungano sostanzialmente un inutile strato burocratico ed ammi-nistrativo), si dovrebbe affiancare all’autonomia di spesa un sistema di imposte (addizionali Irpef, ad esempio) che garantisca anno per anno bilanci regionali e comunali in pareggio, così da trasferire immediatamente sul collegio elettorale il costo di servizi pubblici inefficienti. Non solo, ma è assolutamente necessario che i bilanci delle amministrazioni locali siano soggetti annualmente a certificazione pubblica da parte di società contabili responsabili e che i costi amministrativi per capitolo di spesa (sanità, istruzione, gestione politica, ecc.) pro-capite siano pubblicizzati in modo chiaro e trasparente ai cittadini. E infine, naturalmente, norme severissime contro corruzione e reati contabili, per quegli amministratori locali per cui gli incentivi
non siano sufficienti.
La Repubblica 28.09.12