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"Da noi la destra non può votare", di Tommaso Giuntella

Tutto ci saremmo aspettati nella storia del centrosinistra italiano fuorché un dibattito sull’opportunità che alle primarie del centrosinistra votino solo gli elettori del centrosinistra. Chiariamoci subito, non è una questione di regole. Potremmo dilungarci per anni nello studio di meccanismi e arrivare a giustificare le posizioni più originali e i loro opposti, ma non ne verremmo mai a capo. Le primarie, mai come in questa fase, mai come in questo Paese, sono uno strumento della dialettica di una comunità politica.
Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione, nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica. Una distanza immaginaria che è percepita e che anche solo nella percezione va colmata, prima di tutto da un partito che aspira a governare il Paese come perno di una coalizione di democratici e progressisti.
In questo contesto l’atto politico del partito democratico di Bersani, l’apertura delle primarie ad altri esponenti del Pd previa revisione dello statuto, è un segnale di apertura cruciale. La visione di base, l’idea stessa del centrosinistra, non può passare in secondo piano nella discussione su chi sarà il candidato premier. L’alternativa al berlusconismo si è formata negli anni lungo la strada percorsa da una comunità politica che si è rimboccata le maniche, ha rilanciato i propri strumenti di democrazia interna, ha condotto battaglie tematiche, ha contribuito alla caduta di Berlusconi, non per sostituirlo ma per lasciarsi alle spalle gli anni del populismo, la falsa promessa dell’uomo solo al comando, del grande taumaturgo. Non a caso il Pd ha proposto alle altre forze una carta d’intenti che sarà sottoscritta da chi vorrà partecipare alle primarie.
È curioso come si pretenda che chi vuole scegliere il presidente del Consiglio che presti il volto a tale storia non voglia rivendicarne il contributo. Desta ancor più curiosità che i dubbi sorgano da esponenti del partito che ha l’albo degli elettori nel proprio statuto. Partito che ha confermato con un milione e mezzo di voti tale scelta votando Bersani che nel 2009 scriveva nel suo programma «L’ Albo degli elettori deve essere pubblico e certificato».
Ci spiega un giovane economista della Boston University: «Nelle primarie Usa è necessario registrarsi, i registri sono accessibili, il motivo non è tecnico, è morale». Chi sostiene una coalizione, mai come nel momento in cui bisogna passare il valico della Seconda Repubblica, deve farlo a viso aperto. D’altra parte che se ne farebbero i delusi del berlusconismo, i delusi degli anni in cui si liquidava una questione con un «comunisti, stalinisti, Ceausescu», di una coalizione che non risponde alla domanda di partecipazione e di politica con un’offerta rinnovata nel profondo delle proprie idee, financo nel proprio vocabolario di riferimento? È certamente in questo senso che gli elettori delle primarie di coalizione del 2005, quelli delle primarie Pd del 2007 e 2009, quelli delle innumerevoli primarie di coalizione per sindaci di tutta Italia, hanno sempre firmato una liberatoria per l’uso dei loro dati personali.
Le prossime primarie saranno una grande occasione di mobilitazione popolare nella viva ispirazione ai principi della Costituzione, è così insensato che pur nella segretezza del voto si chieda l’adesione pubblica a chi vuole indicare quale direzione debba prendere il cammino dei democratici e dei progressisti d’Italia?

L’Unità 27.09.12

"Da noi la destra non può votare", di Tommaso Giuntella

Tutto ci saremmo aspettati nella storia del centrosinistra italiano fuorché un dibattito sull’opportunità che alle primarie del centrosinistra votino solo gli elettori del centrosinistra. Chiariamoci subito, non è una questione di regole. Potremmo dilungarci per anni nello studio di meccanismi e arrivare a giustificare le posizioni più originali e i loro opposti, ma non ne verremmo mai a capo. Le primarie, mai come in questa fase, mai come in questo Paese, sono uno strumento della dialettica di una comunità politica.
Non è una questione normativa, è una questione etica, ma ancora prima una questione di buon senso. Viviamo un tempo di estrema confusione, nel quale siamo arrivati a immaginare un controsenso logico quale la contrapposizione tra società civile e società politica. Una distanza immaginaria che è percepita e che anche solo nella percezione va colmata, prima di tutto da un partito che aspira a governare il Paese come perno di una coalizione di democratici e progressisti.
In questo contesto l’atto politico del partito democratico di Bersani, l’apertura delle primarie ad altri esponenti del Pd previa revisione dello statuto, è un segnale di apertura cruciale. La visione di base, l’idea stessa del centrosinistra, non può passare in secondo piano nella discussione su chi sarà il candidato premier. L’alternativa al berlusconismo si è formata negli anni lungo la strada percorsa da una comunità politica che si è rimboccata le maniche, ha rilanciato i propri strumenti di democrazia interna, ha condotto battaglie tematiche, ha contribuito alla caduta di Berlusconi, non per sostituirlo ma per lasciarsi alle spalle gli anni del populismo, la falsa promessa dell’uomo solo al comando, del grande taumaturgo. Non a caso il Pd ha proposto alle altre forze una carta d’intenti che sarà sottoscritta da chi vorrà partecipare alle primarie.
È curioso come si pretenda che chi vuole scegliere il presidente del Consiglio che presti il volto a tale storia non voglia rivendicarne il contributo. Desta ancor più curiosità che i dubbi sorgano da esponenti del partito che ha l’albo degli elettori nel proprio statuto. Partito che ha confermato con un milione e mezzo di voti tale scelta votando Bersani che nel 2009 scriveva nel suo programma «L’ Albo degli elettori deve essere pubblico e certificato».
Ci spiega un giovane economista della Boston University: «Nelle primarie Usa è necessario registrarsi, i registri sono accessibili, il motivo non è tecnico, è morale». Chi sostiene una coalizione, mai come nel momento in cui bisogna passare il valico della Seconda Repubblica, deve farlo a viso aperto. D’altra parte che se ne farebbero i delusi del berlusconismo, i delusi degli anni in cui si liquidava una questione con un «comunisti, stalinisti, Ceausescu», di una coalizione che non risponde alla domanda di partecipazione e di politica con un’offerta rinnovata nel profondo delle proprie idee, financo nel proprio vocabolario di riferimento? È certamente in questo senso che gli elettori delle primarie di coalizione del 2005, quelli delle primarie Pd del 2007 e 2009, quelli delle innumerevoli primarie di coalizione per sindaci di tutta Italia, hanno sempre firmato una liberatoria per l’uso dei loro dati personali.
Le prossime primarie saranno una grande occasione di mobilitazione popolare nella viva ispirazione ai principi della Costituzione, è così insensato che pur nella segretezza del voto si chieda l’adesione pubblica a chi vuole indicare quale direzione debba prendere il cammino dei democratici e dei progressisti d’Italia?
L’Unità 27.09.12

«Un giorno in più non cambia». Resa dei conti con Tajani. Polverini non si dimette e nomina dieci dirigenti", di Francesco Grignetti

La Governatrice del Lazio Polverini non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e ritira le deleghe di assessori fedeli a Tajani. Dimenticate la conferenza stampa di Renata Polverini. La Governatrice del Lazio, a dispetto delle parole urlate, non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali, prorogando alcuni in scadenza e chiamando alcuni esterni, pescando, al solito, tra i sindacalisti dell’Ugl. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e sbatte fuori dalla Giunta gli assessori fedeli ad Antonio Tajani.
In gergo si chiama «ritiro delle deleghe». Lei ne parla così da Bruno Vespa: «Prima taglio gli assessori, poi mi dimetto. I consiglieri non li posso tagliare, ma la mia giunta la posso diminuire e non è necessario lo stesso numero di assessori per l’amministrazione ordinaria. Oggi ho lavorato sull’accorpamento delle deleghe, domani le riassegnerò e allora potrò dimettermi».
Due giorni dopo lo sfogo, la Polverini non ha più tanta intenzione di mollare. Delle dimissioni ancora non formalizzate, ai giornalisti dice: «Ne stiamo ragionando con il ministro Cancellieri. Tanto, un giorno in più o in meno cambia poco». Il sogno segreto, però, è che vorrebbe mollare solo dopo che il Consiglio regionale avrà approvato quelle norme taglia-spese che aveva annunciato la settimana scorsa (nel tentativo di arginare lo scandalo sulla vicenda Fiorito). Allora, e solo allora, arriveranno le dimissioni. Ma siccome la sua mossa è sotto gli occhi dei consiglieri regionali, ecco che le opposizioni si sollevano gridando al bluff. Uno su tutti, Angelo Bonelli, dei Verdi: «Altro che dimissioni. La Polverini ha convocato la Giunta e nominato nuovi direttori generali, tra cui 2 già sospesi dal Tar del Lazio. Questa è ordinaria amministrazione? Ma che film stiamo vedendo? ». Oppure Esterino Montino, Pd: «Sceneggiata cialtronesca. Presenti le dimissioni e non la tiri per le lunghe».
La Polverini invece sorprende tutti. Ai giornalisti che l’aspettavano al varco: «L’importante è essersene andati da questa Regione, aver dato un taglio a questa situazione e aver mandato a casa tutti quei cialtroni». Lo slogan dei suoi manifesti. Ma nei fatti lei non se ne è andata. Come spiega uno dei suoi fedeli: «La Presidente vuole provare in extremis di portare a compimento la riforma dei costi della politica nel Lazio. Allo stato delle cose, sono esecutivi solo due provvedimenti di quanto annunciato, ovvero quanto era di competenza della Giunta. Tutto il resto sono provvedimenti di competenza del Consiglio e la presidente vuole tentare di portare fino in fondo questo percorso».
Cerca l’onore delle armi, insomma, per poi potersi giocare una nuova partita politica.
Nel frattempo si dimostra nervosetta. Così dà una rispostaccia al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che aveva ipotizzato un Consiglio regionale straordinario proprio per deliberare di corsa i famosi tagli: «È un’altra fantasia di Alemanno». Allo stesso tempo pianifica la vendetta contro Antonio Tajani, commissario europeo per l’Industria e vicepresidente della Commissione europea, ma soprattutto leader degli ex di Forza Italia nel Lazio e suo antagonista. Tajani dalla Polverini si era beccato già una bella botta due giorni fa («Personaggi ameni che si aggirano per l’Europa a rappresentare il nostro paese… »). Ieri la rasoiata per interposta persona.
Filtra la notizia che la presidente sta ritirando le deleghe ai quattro assessori che fanno riferimento a Tajani, ovvero Fabio Armeni, assessore alle Risorse umane, demanio e patrimonio; Angela Birindelli, assessore alle Politiche agricole; Marco Mattei, assessore all’Ambiente; Stefano Zappalà, assessore al Turismo. Rimangono invece al loro posto altri ex azzurri come Giuseppe Cangemi, assessore ai Rapporti con gli enti locali e Sicurezza, e Fabiana Santini, assessore alla Cultura (fedele a Claudio Scajola, di cui è stata segretaria particolare; meglio nota perché beneficiata dal famoso costruttore Diego Anemone) perchè l’avrebbero appoggiata incondizionatamente anche nei passaggi più duri.

La Stampa 27.09.12

«Un giorno in più non cambia». Resa dei conti con Tajani. Polverini non si dimette e nomina dieci dirigenti", di Francesco Grignetti

La Governatrice del Lazio Polverini non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e ritira le deleghe di assessori fedeli a Tajani. Dimenticate la conferenza stampa di Renata Polverini. La Governatrice del Lazio, a dispetto delle parole urlate, non ha assolutamente dato le annunciate dimissioni. Anzi, ha convocato la sua Giunta e proceduto a decisioni importanti come la nomina di dieci direttori generali, prorogando alcuni in scadenza e chiamando alcuni esterni, pescando, al solito, tra i sindacalisti dell’Ugl. Di più: riprende le fila della politica regionale, regola alcuni conti politici e sbatte fuori dalla Giunta gli assessori fedeli ad Antonio Tajani.
In gergo si chiama «ritiro delle deleghe». Lei ne parla così da Bruno Vespa: «Prima taglio gli assessori, poi mi dimetto. I consiglieri non li posso tagliare, ma la mia giunta la posso diminuire e non è necessario lo stesso numero di assessori per l’amministrazione ordinaria. Oggi ho lavorato sull’accorpamento delle deleghe, domani le riassegnerò e allora potrò dimettermi».
Due giorni dopo lo sfogo, la Polverini non ha più tanta intenzione di mollare. Delle dimissioni ancora non formalizzate, ai giornalisti dice: «Ne stiamo ragionando con il ministro Cancellieri. Tanto, un giorno in più o in meno cambia poco». Il sogno segreto, però, è che vorrebbe mollare solo dopo che il Consiglio regionale avrà approvato quelle norme taglia-spese che aveva annunciato la settimana scorsa (nel tentativo di arginare lo scandalo sulla vicenda Fiorito). Allora, e solo allora, arriveranno le dimissioni. Ma siccome la sua mossa è sotto gli occhi dei consiglieri regionali, ecco che le opposizioni si sollevano gridando al bluff. Uno su tutti, Angelo Bonelli, dei Verdi: «Altro che dimissioni. La Polverini ha convocato la Giunta e nominato nuovi direttori generali, tra cui 2 già sospesi dal Tar del Lazio. Questa è ordinaria amministrazione? Ma che film stiamo vedendo? ». Oppure Esterino Montino, Pd: «Sceneggiata cialtronesca. Presenti le dimissioni e non la tiri per le lunghe».
La Polverini invece sorprende tutti. Ai giornalisti che l’aspettavano al varco: «L’importante è essersene andati da questa Regione, aver dato un taglio a questa situazione e aver mandato a casa tutti quei cialtroni». Lo slogan dei suoi manifesti. Ma nei fatti lei non se ne è andata. Come spiega uno dei suoi fedeli: «La Presidente vuole provare in extremis di portare a compimento la riforma dei costi della politica nel Lazio. Allo stato delle cose, sono esecutivi solo due provvedimenti di quanto annunciato, ovvero quanto era di competenza della Giunta. Tutto il resto sono provvedimenti di competenza del Consiglio e la presidente vuole tentare di portare fino in fondo questo percorso».
Cerca l’onore delle armi, insomma, per poi potersi giocare una nuova partita politica.
Nel frattempo si dimostra nervosetta. Così dà una rispostaccia al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che aveva ipotizzato un Consiglio regionale straordinario proprio per deliberare di corsa i famosi tagli: «È un’altra fantasia di Alemanno». Allo stesso tempo pianifica la vendetta contro Antonio Tajani, commissario europeo per l’Industria e vicepresidente della Commissione europea, ma soprattutto leader degli ex di Forza Italia nel Lazio e suo antagonista. Tajani dalla Polverini si era beccato già una bella botta due giorni fa («Personaggi ameni che si aggirano per l’Europa a rappresentare il nostro paese… »). Ieri la rasoiata per interposta persona.
Filtra la notizia che la presidente sta ritirando le deleghe ai quattro assessori che fanno riferimento a Tajani, ovvero Fabio Armeni, assessore alle Risorse umane, demanio e patrimonio; Angela Birindelli, assessore alle Politiche agricole; Marco Mattei, assessore all’Ambiente; Stefano Zappalà, assessore al Turismo. Rimangono invece al loro posto altri ex azzurri come Giuseppe Cangemi, assessore ai Rapporti con gli enti locali e Sicurezza, e Fabiana Santini, assessore alla Cultura (fedele a Claudio Scajola, di cui è stata segretaria particolare; meglio nota perché beneficiata dal famoso costruttore Diego Anemone) perchè l’avrebbero appoggiata incondizionatamente anche nei passaggi più duri.
La Stampa 27.09.12

"Regioni da ricostruire", di Vittorio Emiliani

«Vuol dire che con le Regioni si decentreranno anche le bustarelle». Mai previsione di uno dei pionieri del regionalismo (non sto a far nomi, sono passati decenni) fu più azzeccata. «Ma vedrai che gli esempi virtuosi di certe Regioni finiranno per contagiare le altre…». Mai previsione fu meno azzeccata, purtroppo. C’è una furente indignazione attorno ai protagonisti dello scandalo alla Regione Lazio, dove il presidente sostiene di non aver neppure percepito l’odore di quella fiumana di soldi finita ai gruppi consiliari e da qualcuno – come Francesco Fiorito – utilizzata nel modo più insultante per i cittadini. E c’è subito chi propone: torniamo allo Stato centralista e ai suoi controlli.

Lo Stato delle Regioni (lasciamo perdere quello federale che non è mai nato, concepito dalla Lega per rompere l’unità del Paese) non ha fatto molto perché ora, nel pieno dell’indignazione, non si butti via, assieme all’acqua sporca (parecchia), la creatura partorita nel 1970. Sarebbe una assurdità. Ma perché tutto ciò è successo? Come ha scritto lucidamente lo studioso dell’amministrazione (ora deputato del Pd) Guido Melis, perché «il sonno dei controlli genera mostri». Si sono devitalizzati, nelle autonomie, il rapporto governo-opposizioni e i controlli esterni su Regioni ed Enti locali. L’elezione diretta di sindaci, presidenti, governatori, ha certo rafforzato la governabilità, ma ha pressoché sterilizzato il ruolo delle assemblee elettive, il cui palese e impotente scontento è stato placato a suon di euro. Si sono scissi Giunte e Consigli spegnendo ogni vera opposizione, anche individuale. Siamo dunque passati da un assemblearismo a volte eccessivo (consentito peraltro da leggi che rimontavano a Giolitti) all’afasia dei Consigli. Le decisioni significative sono diventate atti di Giunta. Sovente anche quelle sulla «torta» fondiaria, immobiliare.

Mentre fondi e poteri venivano decentrati (e si avvicinavano agli appetiti locali), sono stati depotenziati i controlli effettivi, gli apparati ispettivi, i quadri tecnici, per esempio sugli appalti, con un lassismo urbanistico senza fine. Tanto più col Titolo V della Costituzione, pieno di buchi in materia. Oggi ci stupiamo che i materiali sanitari di base possano costare 10 in una Regione e 80-100 in un’altra, ma chi poteva fissare dei parametri nazionali nel clima che spingeva verso i magnifici «risparmi» del federalismo? Non rimpiango i Coreco, e però i Coreco.co come si è sottolineato l’altra sera a Ballarò – impersonati non da tecnici qualificati (in economia prima che in diritto), ma da politici dell’opposizione, portano al coinvolgimento di tutti in un’unica giostra. Ed è sbagliato. È la stessa malattia che ha fatto diventare le nostre Authority la caricatura di quelle vere.

I partiti, purtroppo, si sono o liquefatti davanti ad un «padrone», oppure arroccati su posizioni burocratico-oligarchiche facendo muro, in tutt’e due i casi, alle critiche interne, ai gruppi di opinione, «nominando» personaggi «mediocri purché fedeli» (lo scrivemmo Nando Tasciotti ed io in un libro lontano uscito da Laterza prima di Tangentopoli, «La crisi dei Comuni»). Tutto ciò ha spinto i movimenti, numerosi e generosi, ad essere tanto radicali quanto estemporanei, tanto «indignatos» quanto poveri di proposte. Ma cos’è rimasto ai cittadini, dopo leggi elettorali come il Porcellum, col totale permissivismo in materia di spese elettorali personali, con l’uso distorto (anche malavitoso) del nobile istituto delle preferenze? Poco o nulla. Aggiungiamoci i guasti provocati nella dirigenza pubblica di carriera dallo spoil system, dal non aver attrezzato sezioni regionali della Corte dei conti, dall’aver promosso burocrati locali «più permeabili», ecc., e avremo un primo quadro delle tante cose da fare, da ricostruire per rendere meritocratica e trasparente la politica, per ridare alcuni strumenti di controllo ai cittadini (tramite gli eletti dal popolo) e altri ad organismi «terzi» di grande qualificazione. Nella cui nomina i partiti non devono neppur provare ad entrare. Insomma, una spending review delle Regioni non basta proprio. È soltanto un inizio. Ci vuole ben altro. Una ricostruzione.

L’Unità 27.09.12

******

“Province, a chi i tagli a chi le ostriche”

L’opinione di Andrea Barducci, Presidente della Provincia di Firenze – L’Unità
di Andrea Barducci. Mentre le Province venivano depredate di ogni risorsa necessaria al funzionamento dei servizi, nelle Regioni c’era chi poteva permettersi anche le ostriche. È questa la fotografia che meglio di ogni altra immagine rende l’idea di quello che è successo in Italia nell’ultimo triennio. In pratica chi doveva realizzare scuole, mantenere le strade, organizzare i trasporti pubblici o progettare i ponti, veniva progressivamente e inesorabilmente privato di risorse finanziarie, mentre i soldi ancora abbondavano nei luoghi in cui ci si limitava a pianificare. Anzi, mentre per i gruppi consiliari di qualche Regione gli stanziamenti milionari aumentavano in modo esponenziale, la scure dei tagli si abbatteva pesantemente sui bilanci degli enti provinciali. E pazienza se mancano i soldi per mettere in sicurezza le scuole. I terremoti possono aspettare, le ostriche no.

Per una sorta di schizofrenia collettiva si è diffuso nell’opinione pubblica il pensiero distorto secondo il quale l’istituzione delle Regioni in Italia avrebbe dovuto comportare automaticamente la scomparsa delle Province. Anche se la Costituzione diceva cose ben diverse, qualcuno disinformato o in malafede ha deciso che l’Ente provinciale era diventato un ente inutile da sopprimere. Non solo, mentre alcuni consiglieri regionali si esercitavano in un uso disinvolto dei fondi pubblici, le Province si affannavano a proporre riforme in grado di ottenere un risparmio di 5 miliardi di euro, chiedendo l’accorpamento, l’istituzione delle Città metropolitane e la riduzione degli organi periferici dello Stato, l’eliminazione di tutte le agenzie e degli innumerevoli consorzi.

Complice una campagna grossolana, condotta con rigorosa tecnica di populismo mediatico, si è fatto credere che le «inutili province» producevano solo spreco di denaro pubblico. E quindi per razionalizzare la spesa sarebbe bastato delegare tutto alle Regioni, presentate come unica espressione di un federalismo virtuoso. Inutile far notare che in Italia vi erano Regioni che avevano meno abitanti della Provincia di Firenze. In realtà al momento di mettere le cifre sulla carta tutti si sono accorti che l’abolizione della Province non avrebbe prodotto nessun risparmio apprezzabile. E a questo punto è parso evidente a tutti che, per coniugare razionalità della spesa e funzionamento della macchina pubblica, non si dovevano cancellare le Province, ma semmai ridurne il numero. Peccato che nel frattempo lo Stato avesse già iniziato a chiudere il rubinetto dei finanziamenti destinate alle Province, nella convinzione che ormai fossero destinate alla soppressione, come annunciato orgogliosamente ma prematuramente da Mario Monti nella sua prima conferenza stampa da premier.

L’Unità 27.09.12

"Regioni da ricostruire", di Vittorio Emiliani

«Vuol dire che con le Regioni si decentreranno anche le bustarelle». Mai previsione di uno dei pionieri del regionalismo (non sto a far nomi, sono passati decenni) fu più azzeccata. «Ma vedrai che gli esempi virtuosi di certe Regioni finiranno per contagiare le altre…». Mai previsione fu meno azzeccata, purtroppo. C’è una furente indignazione attorno ai protagonisti dello scandalo alla Regione Lazio, dove il presidente sostiene di non aver neppure percepito l’odore di quella fiumana di soldi finita ai gruppi consiliari e da qualcuno – come Francesco Fiorito – utilizzata nel modo più insultante per i cittadini. E c’è subito chi propone: torniamo allo Stato centralista e ai suoi controlli.
Lo Stato delle Regioni (lasciamo perdere quello federale che non è mai nato, concepito dalla Lega per rompere l’unità del Paese) non ha fatto molto perché ora, nel pieno dell’indignazione, non si butti via, assieme all’acqua sporca (parecchia), la creatura partorita nel 1970. Sarebbe una assurdità. Ma perché tutto ciò è successo? Come ha scritto lucidamente lo studioso dell’amministrazione (ora deputato del Pd) Guido Melis, perché «il sonno dei controlli genera mostri». Si sono devitalizzati, nelle autonomie, il rapporto governo-opposizioni e i controlli esterni su Regioni ed Enti locali. L’elezione diretta di sindaci, presidenti, governatori, ha certo rafforzato la governabilità, ma ha pressoché sterilizzato il ruolo delle assemblee elettive, il cui palese e impotente scontento è stato placato a suon di euro. Si sono scissi Giunte e Consigli spegnendo ogni vera opposizione, anche individuale. Siamo dunque passati da un assemblearismo a volte eccessivo (consentito peraltro da leggi che rimontavano a Giolitti) all’afasia dei Consigli. Le decisioni significative sono diventate atti di Giunta. Sovente anche quelle sulla «torta» fondiaria, immobiliare.
Mentre fondi e poteri venivano decentrati (e si avvicinavano agli appetiti locali), sono stati depotenziati i controlli effettivi, gli apparati ispettivi, i quadri tecnici, per esempio sugli appalti, con un lassismo urbanistico senza fine. Tanto più col Titolo V della Costituzione, pieno di buchi in materia. Oggi ci stupiamo che i materiali sanitari di base possano costare 10 in una Regione e 80-100 in un’altra, ma chi poteva fissare dei parametri nazionali nel clima che spingeva verso i magnifici «risparmi» del federalismo? Non rimpiango i Coreco, e però i Coreco.co come si è sottolineato l’altra sera a Ballarò – impersonati non da tecnici qualificati (in economia prima che in diritto), ma da politici dell’opposizione, portano al coinvolgimento di tutti in un’unica giostra. Ed è sbagliato. È la stessa malattia che ha fatto diventare le nostre Authority la caricatura di quelle vere.
I partiti, purtroppo, si sono o liquefatti davanti ad un «padrone», oppure arroccati su posizioni burocratico-oligarchiche facendo muro, in tutt’e due i casi, alle critiche interne, ai gruppi di opinione, «nominando» personaggi «mediocri purché fedeli» (lo scrivemmo Nando Tasciotti ed io in un libro lontano uscito da Laterza prima di Tangentopoli, «La crisi dei Comuni»). Tutto ciò ha spinto i movimenti, numerosi e generosi, ad essere tanto radicali quanto estemporanei, tanto «indignatos» quanto poveri di proposte. Ma cos’è rimasto ai cittadini, dopo leggi elettorali come il Porcellum, col totale permissivismo in materia di spese elettorali personali, con l’uso distorto (anche malavitoso) del nobile istituto delle preferenze? Poco o nulla. Aggiungiamoci i guasti provocati nella dirigenza pubblica di carriera dallo spoil system, dal non aver attrezzato sezioni regionali della Corte dei conti, dall’aver promosso burocrati locali «più permeabili», ecc., e avremo un primo quadro delle tante cose da fare, da ricostruire per rendere meritocratica e trasparente la politica, per ridare alcuni strumenti di controllo ai cittadini (tramite gli eletti dal popolo) e altri ad organismi «terzi» di grande qualificazione. Nella cui nomina i partiti non devono neppur provare ad entrare. Insomma, una spending review delle Regioni non basta proprio. È soltanto un inizio. Ci vuole ben altro. Una ricostruzione.
L’Unità 27.09.12
******
“Province, a chi i tagli a chi le ostriche”
L’opinione di Andrea Barducci, Presidente della Provincia di Firenze – L’Unità
di Andrea Barducci. Mentre le Province venivano depredate di ogni risorsa necessaria al funzionamento dei servizi, nelle Regioni c’era chi poteva permettersi anche le ostriche. È questa la fotografia che meglio di ogni altra immagine rende l’idea di quello che è successo in Italia nell’ultimo triennio. In pratica chi doveva realizzare scuole, mantenere le strade, organizzare i trasporti pubblici o progettare i ponti, veniva progressivamente e inesorabilmente privato di risorse finanziarie, mentre i soldi ancora abbondavano nei luoghi in cui ci si limitava a pianificare. Anzi, mentre per i gruppi consiliari di qualche Regione gli stanziamenti milionari aumentavano in modo esponenziale, la scure dei tagli si abbatteva pesantemente sui bilanci degli enti provinciali. E pazienza se mancano i soldi per mettere in sicurezza le scuole. I terremoti possono aspettare, le ostriche no.
Per una sorta di schizofrenia collettiva si è diffuso nell’opinione pubblica il pensiero distorto secondo il quale l’istituzione delle Regioni in Italia avrebbe dovuto comportare automaticamente la scomparsa delle Province. Anche se la Costituzione diceva cose ben diverse, qualcuno disinformato o in malafede ha deciso che l’Ente provinciale era diventato un ente inutile da sopprimere. Non solo, mentre alcuni consiglieri regionali si esercitavano in un uso disinvolto dei fondi pubblici, le Province si affannavano a proporre riforme in grado di ottenere un risparmio di 5 miliardi di euro, chiedendo l’accorpamento, l’istituzione delle Città metropolitane e la riduzione degli organi periferici dello Stato, l’eliminazione di tutte le agenzie e degli innumerevoli consorzi.
Complice una campagna grossolana, condotta con rigorosa tecnica di populismo mediatico, si è fatto credere che le «inutili province» producevano solo spreco di denaro pubblico. E quindi per razionalizzare la spesa sarebbe bastato delegare tutto alle Regioni, presentate come unica espressione di un federalismo virtuoso. Inutile far notare che in Italia vi erano Regioni che avevano meno abitanti della Provincia di Firenze. In realtà al momento di mettere le cifre sulla carta tutti si sono accorti che l’abolizione della Province non avrebbe prodotto nessun risparmio apprezzabile. E a questo punto è parso evidente a tutti che, per coniugare razionalità della spesa e funzionamento della macchina pubblica, non si dovevano cancellare le Province, ma semmai ridurne il numero. Peccato che nel frattempo lo Stato avesse già iniziato a chiudere il rubinetto dei finanziamenti destinate alle Province, nella convinzione che ormai fossero destinate alla soppressione, come annunciato orgogliosamente ma prematuramente da Mario Monti nella sua prima conferenza stampa da premier.
L’Unità 27.09.12