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"Stupido, non è l'economia", di Francesco Guerrera

«E’ l’economia, stupido». Lo slogan coniato da James Carville, il grande stratega del partito democratico, per un candidato presidenziale dal nome di William J. Clinton nel 1992 è una delle pietre miliari della politica americana. Clinton fece il resto. Con l’economia Usa in grave crisi e la disoccupazione alle stelle, il giovane governatore dell’Arkansas combinò i suoi talenti oratori con l’intuizione di Carville per distruggere George Bush padre e conquistare la Casa Bianca.

Vent’anni dopo è il partito repubblicano a sperare che la storia si ripeta.

La crescita economica è anemica, la disoccupazione a livelli altissimi e salari, redditi e patrimoni della classe media sono al ristagno ormai da anni. Mitt Romney, il businessman diventato politico, si presenta agli elettori come un manager competente ed industrioso, capace di risolvere una situazione difficilissima meglio di Obama.

Per i fan di Romney, la prova c’è già: Mittpresidente farebbe al paese quello che fece nel 2002 quando salvò le Olimpiadi invernali di Salt Lake City dalla bancarotta e dal ridicolo.

«In questo frangente, chi volete: uno che il business l’ha vissuto in prima persona, o un professore di legge di Chicago?» e’ stata la domanda, retorica, di uno dei tanti capi di Wall Street che è passato dall’amore spassionato per Obama al sostegno, finanziario e politico, per Romney.

In teoria, Romney è in una situazione ideale per attaccare il Presidente.

Uno su dodici americani in cerca di lavoro è disoccupato: più di dodici milioni di persone. Ed ormai lo sanno pure i bambini dell’asilo che nessun Presidente americano del dopoguerra è stato rieletto con un tasso di disoccupazione così alto.

L’economia sta crescendo più di zone disastrate come l’Unione Europea, ma è lontanissima dai livelli di ripresa che ci si aspetta quattro anni dopo una recessione e crisi finanziaria. Ed i consumatori, il tradizionale polmone dell’economia americana, sono ancora in fase di choc dopo il crollo rovinoso del mercato immobiliare nel 2007-2009.

Le ultime statistiche hanno rivelato che, nel 2011, i redditi medi delle famiglie americane sono diminuiti o rimasti uguali in quasi tutti gli Stati dell’Unione. Il reddito di una famiglia «tipica» è intorno ai 50.000 dollari l’anno – un livello bassissimo che non si vedeva dalla metà degli Anni 90, proprio quando Clinton sconfisse Bush.

Perquellocheriguardaleimprese,adifferenza di altre fasi di crisi, questa volta gli imprenditori non possono contare su mercati esterni. Con l’Europa in crisi, la Cina in fase di rallentamento e il «miracolo economico» dell’America Latina sempre meno miracoloso, la domanda per le esportazioni made in Usa è flaccida.

Le società ne soffrono perché dopo anni di tagli di costi e diete drastiche, «corporate America» non ha più molto peso da perdere. Tra giugno e settembre, gli utili delle società Usa sono calati – la prima volta in tre anni che il grande motore dell’industria americana non è riuscito a fare più soldi che nei tre mesi precedenti.

«Se tagli e tagli, alla fine arrivi all’osso», mi ha detto, con una smorfia amara, l’amministratore delegato di una società manifatturiera la settimana scorsa.

Se fosse «l’economia, stupido», Romney dovrebbe vincere a mani basse. Ed invece è lì che arranca dietro ad Obama nei sondaggi d’opinione, nonostante i tentativi dei suoi consiglieri di portare il dibattito sullo stato di bilancio dell’impresa-Usa. «Sappiamo tutti quello che ha fatto Obama negli ultimi quattro anni», ha intonato Romney questa settimana in Florida. «Ha creato un’economia che è alla frutta».

Parole che, una volta purificate dalla retorica elettorale, dovrebbero essere musica per le orecchie delle classi medie americane.

Invece sembra quasi che gli elettori stiano guardando ad un’economia diversa da quella criticata da Romney.

Quando il Wall Street Journal e la Nbc hanno chiesto a cittadini di tre Stati chiave nelle elezioni del 6 novembre – il Colorado, il Wisconsin e l’Iowa – chi fosse il candidato migliore per l’economia, Obama ha «vinto» in tutti e tre. A livello nazionale, Obama e Romney sono testa a testa su chi sarebbe meglio per l’economia (43 per cento l’uno). Due mesi fa, Romney era preferito da quasi metà dell’elettorato.

Cosa sta succedendo? Il grande pubblico americano sembra convinto che la traiettoria dell’economia americana sia in crescita e ripresa, che la situazione sia in via di miglioramento, un miglioramento per cui il merito, al momento, va ad Obama.

La realtà è diversa: è vero che il mercato immobiliare sta dando segnali di vita ma il progresso del sistema-Usa è lento e quasi impercettibile ed, in ogni caso, il merito andrebbe non all’amministrazione ma alla Federal Reserve di Ben Bernanke che ha pompato miliardi di dollari nell’economia.

Ma, a meno di due mesi dalle elezioni, la verità conta poco. Come mi ha spiegato un consigliere di Obama, «la realtà è nella mente degli elettori». E la mente degli elettori pensa che siamo sulla via del recupero. Nello stesso sondaggio del Wsj e della Nbc, più del 40% dei votanti ha predetto che l’economia migliorerà, mentre solo il 18% ha detto che peggiorerà.

Sono numeri difficili da digerire per un candidato repubblicano che ha fatto della competenza economica la sua arma più potente.

Nelle prossime sette settimane – tra dibattiti presidenziali, spot pubblicitari e una campagna elettorale forsennata intorno agli Usa – tutto è possibile.

Ma se il manager Romney venisse sconfitto dal professor Obama, la lezione per candidati presenti e futuri sarà che non è tanto «l’economia, stupido», ma «la direzione dell’economia, stupido».

Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

La Stampa 24.09.12