Le dimissioni di Renata Polverini dalla Presidenza della Regione Lazio non sono state nè tempestive nè più spontanee di quelle di Silvio Berlusconi dalla guida del governo. Entrambi hanno tentato di restare al proprio posto con ogni mezzo, dopo avere rifiutato caparbiamente di cambiare rotta, anche quando era ormai chiaro a tutti che la nave sarebbe finita sugli scogli (per restare all’immagine della Concordia già utilizzata dalla presidente Polverini, evidentemente inconsapevole del ruolo che nella metafora spetterebbe a lei, come capitano della Regione). Non hanno voluto cambiare rotta né lasciare che altri prendessero il timone quando si era forse ancora in tempo per evitare gli scogli. La data decisiva è la stessa per entrambi: 14 dicembre 2010.
La prima delibera dell’ufficio di presidenza della Regione Lazio che dà inizio alla crescita esponenziale dei finanziamenti ai gruppi, infatti, porta la stessa data del voto di fiducia al governo Berlusconi. 14 dicembre 2010, dies horribilis del rapporto tra denaro e politica: il giorno in cui si decideva la sorte dell’esecutivo che un anno dopo avrebbe portato l’Italia sull’orlo della bancarotta, e a deciderne la sorte erano proprio i numeri della scissione promossa da Gianfranco Fini nel Pdl. Una coincidenza che getta una luce sinistra sulla vicenda e rende ancor più gravi, a due anni di distanza, silenzi e ambiguità di tutti i partiti di opposizione.
Evidentemente il mese di dicembre, con l’approssimarsi del Natale e la necessità di chiudere il bilancio, è stato sempre un mese importante per la giunta Polverini: il 16 dicembre 2011, meno di un anno fa, il centrodestra laziale approvava l’estensione del vitalizio previsto per i consiglieri anche agli assessori esterni. Proprio così: mentre tutto il Paese era alle prese con le pesanti misure della manovra Monti, mentre nelle altre Regioni i vitalizi si tagliavano o erano stati già tagliati, alla Regione Lazio venivano estesi. Una decisione che la presidente Polverini difendeva con fermezza. «La mancata equiparazione degli assessori ai consiglieri spiegava era un’anomalia della nostra Regione».
Quello che è emerso in questi giorni, attraverso scandali e inchieste giudiziarie, ha reso le dimissioni della presidente del Lazio semplicemente inevitabili. Un esito che non avrebbero comunque scongiurato né i comizi da capo dell’opposizione improvvisati disinvoltamente dalla presidente della Regione, né alcuno stratagemma avessero potuto escogitare i suoi consiglieri dal multiforme ingegno. Il tardivo e maldestro tentativo di indossare ora i panni della moralizzatrice decisa a tagliare e risanare non ha fatto che prolungare di pochi giorni l’agonia di una giunta e di una maggioranza ormai non più in grado di stare in piedi.
Lo scandalo della Regione Lazio, però, non riguarda soltanto il Pdl, ma tutti i partiti che con quel sistema hanno convissuto. Avere decuplicato in meno di un anno i finanziamenti ai gruppi presenti in Consiglio, mentre in tutto il Paese e anche nel Lazio si tagliavano i fondi a scuola e sanità, non è una responsabilità che possa essere rovesciata soltanto sulla maggioranza.
Può sembrare ingeneroso, dinanzi allo spettacolo offerto dal Pdl, prendersela proprio oggi con i suoi oppositori, a cominciare dal Pd. Ma c’è poco da fare: la responsabilità di chi si batte contro il vento dell’antipolitica è più grande di quella che spetta a chi preferisce andare con la corrente. Il compito è più difficile, la posta in gioco è più alta: chi sceglie di difendere le istituzioni e i partiti, difendendo i principi fondamentali della democrazia rappresentativa e della convivenza civile, può perdere le elezioni, ma non la faccia. Chi conduce una battaglia democratica in difesa del finanziamento pubblico ai partiti, proprio per impedire che la politica finisca ostaggio di interessi privati, deve essere più rigoroso con se stesso di chi cavalca la facile demagogia dell’abolizione di ogni finanziamento. Chi conduce una battaglia di civiltà contro l’idea che la pubblicazione sui giornali delle private conversazioni telefoniche di chiunque sia un fattore di trasparenza, invece che di ricatto e di manipolazione dell’opinione pubblica, deve essere il più determinato nel chiedere e nell’ottenere ogni forma di tracciabilità e rendicontazione di ogni euro di denaro pubblico; dev’essere il primo a chiedere e ottenere trasparenza nei bilanci di tutte le istituzioni e di tutti i partiti, a tutti i livelli.
Populisti e demagoghi di ogni colore possono attraversare ogni scandalo senza troppe preoccupazioni. La storia italiana degli ultimi vent’anni ne offre ampie dimostrazioni: finché la barca regge o sembra reggere ci sarà sempre un nuovo capro espiatorio su cui indirizzare rabbia e scontento, distogliendo l’attenzione dalle proprie magagne. Sono i democratici che non possono permetterselo.
L’Unità 25.09.12
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"Cina chiuso per rivolta", di Giampaolo Visetti
“Chiuso”. Questo avviso, in Cina, è incomprensibile. All’alba di oggi però la direzione Foxconn l’ha fatto affiggere, un francobollo rosso, sull’immenso cancello grigio dello stabilimento di Taiyuan, città-industria modello tra le montagne dello Shanxi. Una fabbrica sbarrata e inaccessibile, improvvisamente alla deriva nel silenzio e circondata dalla polizia privata del signor Terry Gou, magnate di Taiwan. Un evento economicamente inconcepibile: perché il cartello “chiuso” campeggia, come un vecchio certificato di malattia, sullo stabilimento- simbolo del successo di Pechino, icona della modernità globale. All’esterno solo gli agenti in divisa nera, armati e muti. Dentro, 80 mila operai nelle loro tute blu, consegnati nei dormitori e isolati dal mondo. Questo blindato carcere-fortezza, anonimo tra centinaia di altri capannoni senza insegne, è la fabbrica che produce l’oggetto più desiderato del pianeta: l’iPhone 5, l’ultimo telefono-gioiello a marchio Apple, capace di fondere Oriente e Occidente nell’attesa notturna davanti a uno “store”. Nessuno si sognerebbe mai, in Cina meno che ovunque, di fermare nemmeno per un secondo la catena di montaggio che muove ciò che resta del consumo sul pianeta.
Invece a Taiyuan è successo e in Asia si sono segnati il 24 settembre sull’agenda: un giorno di chiusura alla Foxconn, fornitore Apple, danni da malore e fine dell’epoca consegnata alla storia con l’etichetta “miracolo cinese”. A sudovest di Pechino si consuma però qualcosa di più di un inedito «sciopero punitivo » promosso dal padrone. Sembra compiersi oggi, alla vigilia del congresso che deciderà i prossimi dieci anni di comunismo nella nuova superpotenza del mondo, il destino dell’eroe che per trent’anni ha
sostenuto il mito della “globalizzata crescita infinita”. Anche il “Cipputi made in China”, spina dorsale della nostra Dolce Vita, si ribella e l’incubo del contagio, il virus dei diritti che pare consumare il capitalismo senza lavoro, per la prima volta spaventa il potere liberista degli eredi di Mao Zedong.
Dietro un cancello chiuso, questa notte, si è combattuta così l’ultima battaglia della guerra invisibile che da mesi sconvolge la Cina, ribollente terminal della delocalizzazione di Europa e Usa. Duemila operai hanno cercato di aggredire manager e poliziotti Foxconn, distruggendo impianti, dormitori e sale-mensa. La ribellione è scoppiata alle dieci di notte e solo all’alba le squadre dei dipendenti, sotto la minaccia delle armi, hanno accettato di distendersi sulle brande. Per l’azienda si è trattato di una «rissa degenerata in sommossa», nata a causa di «rancori etnici tra bande rivali formate nei reparti». A Taiyuan si conferma invece la versione circolata sul web. Gli operai del turno di notte sono insorti dopo che un loro compagno è stato picchiato perché «troppo debole per fare altri straordinari ». Bilancio non ufficiale: 40 feriti e centinaia di arresti.
L’Occidente affonda perché, prima che ai consumi, ha rinunciato alla garanzia del lavoro. Il sistema-Cina rischia di implodere perché, per consumare, non può esportare anche chi lavora in condizioni disumane. La rivolta e la chiusura nella fabbrica cinese dell’iPhone, coperta dalla censura e negata dalle autorità, non incarna così un paradosso ma rivela il cortocircuito del nuovo schiavismo dell’Asia, su cui Europa e Usa continuano a chiudere gli occhi. E gli stabilimenti cinesi della Foxconn, terzista di multinazionali come Apple, Motorola, Microsoft, Nokia, Hp, Dell, Ericsson e Sony, diventano la nuova frontiera di rivendicazioni storiche a cui lo stesso Vecchio Continente sembra aver abdicato.
La ragione è semplice. La terza generazione di operai cinesi, nata da operai partoriti da operaie, non accetta più di morire giovane alla catena di montaggio per pagare i debiti del capitalismo occidentale e lustrare la gloria del comunismo di Pechino. E la rivolta di questa notte condivide la scintilla con le oltre 100 mila sommosse taciute che nel 2012 scuotono la seconda economia del mondo: paghe da fame, turni di lavoro massacranti, straordinari obbligatori, reclusione in fabbrica, maltrattamenti fisici e umiliazioni morali da parte dei superiori. Al dramma meno ignoto, si somma però oggi anche in Cina una nuova realtà: aziende che chiudono, posti di lavoro che saltano, mutui impossibili da onorare, migranti senza diritti, figli disoccupati, lavoratori che pretendono gli stessi diritti dei loro colleghi stranieri, contattati grazie al potere della Rete. Europa e Usa non consumano, le esportazioni si fermano, altri Paesi-fabbrica emergono e il modello-Cina collassa.
Il virus, anche alla Foxconn, viene chiamato “China plus one”. I monopolisti della produzione tengono un piede nel più grande mercato del mondo, ma spostano almeno uno stabilimento all’estero, nel Sudest asiatico, in Africa, in America Latina, o nell’ex Europa dell’Est. Il business del partito-Stato, patrimonio delle masse, si trasforma nell’affare di un pugno di privati prossimi alla corruzione del potere e inaugura il «nomadismo del distretto industriale». La fabbrica va, di stagione in stagione, dove il profitto per azionisti e sponsor è massimo. Ci si sposta di mille chilometri, si cambia regione, oppure si salta in un’altra nazione. «Vaporizzare la produzione — dice l’econo-
mista Zheng Yusheng, della Business School di Shenzhen — rafforza la proprietà. Se sei mobile e ovunque, operai e sindacati sono morti. È la globalizzazione ai tempi della crisi: lavora chi si adegua, gli affari perdono ogni valore sociale e le condizioni, anche in assenza di profitti, vengono decise dal management».
Alla Foxconn, che ha appena approvato un investimento da 500 milioni di dollari per aprire il quinto stabilimento in Brasile, il bilancio degli ultimi due anni è tragico: 16 operai morti suicidi, studenti assunti in nero per fronteggiare i picchi delle ordinazioni Apple, vita lavorativa media 15 anni, operai costretti a pulire le latrine se rifiutano di fare 80 ore di straordinari al mese, infortunati sul lavoro obbligati a dimettersi, lettera di assunzione con “divieto di suicidio”. I consumatori Usa avevano minacciato il boicottaggio dei suoi tesori hitech. A indignare il popolo della Rete, l’annuncio di una maxi-meccanizzazione tagliacosti. Slogan: «I robot non si buttano dal tetto, se danno problemi basta spegnerli».
È nata tra gli oltre un milione di operai Foxconn rinchiusi nelle fabbriche di Shenzhen, Longhua, Foshan e Chengdu, la rivolta di questa notte a Taiyuan. Una guerriglia da giro del mondo, ma certamente non un caso isolato. La ribellione del “Cipputi cinese” dilaga anche nel Guangdong e nello Zhejiang, a Pechino e a Shanghai, nella nuova terra promessa di Chongqing e nel distrettoauto di Changsha. Per il potere rosso, fondato su soldati, contadini e operai, è uno shock: o aumenta i salari e impone nelle fabbriche le basi di diritti universali, perdendo competitività nel nome della crescita dei consumi interni, o sacrifica la stabilità in cambio dell’export. Nella potenza post-proletaria che comanda il secolo, verranno prima le vite degli operai, o gli indici dei mercati finanziari? È questa la domanda sospesa sulla fucina anonima dell’iPhone 5 nello Shanxi, per la prima volta ferma causa rivolta e avvolta da un’altra notte di censura. Quesito inaudito, nella Cina dei misteri dove nemmeno la data del congresso d’ottobre può essere rivelata. Ma interrogativo essenziale anche nel nostro mondo
antico afflitto dal segno meno, ormai esposto al vento freddo del lavoro tradito già nella sua culla-tomba di Taiyuan.
La Repubblica 25.09.12
"Cina chiuso per rivolta", di Giampaolo Visetti
“Chiuso”. Questo avviso, in Cina, è incomprensibile. All’alba di oggi però la direzione Foxconn l’ha fatto affiggere, un francobollo rosso, sull’immenso cancello grigio dello stabilimento di Taiyuan, città-industria modello tra le montagne dello Shanxi. Una fabbrica sbarrata e inaccessibile, improvvisamente alla deriva nel silenzio e circondata dalla polizia privata del signor Terry Gou, magnate di Taiwan. Un evento economicamente inconcepibile: perché il cartello “chiuso” campeggia, come un vecchio certificato di malattia, sullo stabilimento- simbolo del successo di Pechino, icona della modernità globale. All’esterno solo gli agenti in divisa nera, armati e muti. Dentro, 80 mila operai nelle loro tute blu, consegnati nei dormitori e isolati dal mondo. Questo blindato carcere-fortezza, anonimo tra centinaia di altri capannoni senza insegne, è la fabbrica che produce l’oggetto più desiderato del pianeta: l’iPhone 5, l’ultimo telefono-gioiello a marchio Apple, capace di fondere Oriente e Occidente nell’attesa notturna davanti a uno “store”. Nessuno si sognerebbe mai, in Cina meno che ovunque, di fermare nemmeno per un secondo la catena di montaggio che muove ciò che resta del consumo sul pianeta.
Invece a Taiyuan è successo e in Asia si sono segnati il 24 settembre sull’agenda: un giorno di chiusura alla Foxconn, fornitore Apple, danni da malore e fine dell’epoca consegnata alla storia con l’etichetta “miracolo cinese”. A sudovest di Pechino si consuma però qualcosa di più di un inedito «sciopero punitivo » promosso dal padrone. Sembra compiersi oggi, alla vigilia del congresso che deciderà i prossimi dieci anni di comunismo nella nuova superpotenza del mondo, il destino dell’eroe che per trent’anni ha
sostenuto il mito della “globalizzata crescita infinita”. Anche il “Cipputi made in China”, spina dorsale della nostra Dolce Vita, si ribella e l’incubo del contagio, il virus dei diritti che pare consumare il capitalismo senza lavoro, per la prima volta spaventa il potere liberista degli eredi di Mao Zedong.
Dietro un cancello chiuso, questa notte, si è combattuta così l’ultima battaglia della guerra invisibile che da mesi sconvolge la Cina, ribollente terminal della delocalizzazione di Europa e Usa. Duemila operai hanno cercato di aggredire manager e poliziotti Foxconn, distruggendo impianti, dormitori e sale-mensa. La ribellione è scoppiata alle dieci di notte e solo all’alba le squadre dei dipendenti, sotto la minaccia delle armi, hanno accettato di distendersi sulle brande. Per l’azienda si è trattato di una «rissa degenerata in sommossa», nata a causa di «rancori etnici tra bande rivali formate nei reparti». A Taiyuan si conferma invece la versione circolata sul web. Gli operai del turno di notte sono insorti dopo che un loro compagno è stato picchiato perché «troppo debole per fare altri straordinari ». Bilancio non ufficiale: 40 feriti e centinaia di arresti.
L’Occidente affonda perché, prima che ai consumi, ha rinunciato alla garanzia del lavoro. Il sistema-Cina rischia di implodere perché, per consumare, non può esportare anche chi lavora in condizioni disumane. La rivolta e la chiusura nella fabbrica cinese dell’iPhone, coperta dalla censura e negata dalle autorità, non incarna così un paradosso ma rivela il cortocircuito del nuovo schiavismo dell’Asia, su cui Europa e Usa continuano a chiudere gli occhi. E gli stabilimenti cinesi della Foxconn, terzista di multinazionali come Apple, Motorola, Microsoft, Nokia, Hp, Dell, Ericsson e Sony, diventano la nuova frontiera di rivendicazioni storiche a cui lo stesso Vecchio Continente sembra aver abdicato.
La ragione è semplice. La terza generazione di operai cinesi, nata da operai partoriti da operaie, non accetta più di morire giovane alla catena di montaggio per pagare i debiti del capitalismo occidentale e lustrare la gloria del comunismo di Pechino. E la rivolta di questa notte condivide la scintilla con le oltre 100 mila sommosse taciute che nel 2012 scuotono la seconda economia del mondo: paghe da fame, turni di lavoro massacranti, straordinari obbligatori, reclusione in fabbrica, maltrattamenti fisici e umiliazioni morali da parte dei superiori. Al dramma meno ignoto, si somma però oggi anche in Cina una nuova realtà: aziende che chiudono, posti di lavoro che saltano, mutui impossibili da onorare, migranti senza diritti, figli disoccupati, lavoratori che pretendono gli stessi diritti dei loro colleghi stranieri, contattati grazie al potere della Rete. Europa e Usa non consumano, le esportazioni si fermano, altri Paesi-fabbrica emergono e il modello-Cina collassa.
Il virus, anche alla Foxconn, viene chiamato “China plus one”. I monopolisti della produzione tengono un piede nel più grande mercato del mondo, ma spostano almeno uno stabilimento all’estero, nel Sudest asiatico, in Africa, in America Latina, o nell’ex Europa dell’Est. Il business del partito-Stato, patrimonio delle masse, si trasforma nell’affare di un pugno di privati prossimi alla corruzione del potere e inaugura il «nomadismo del distretto industriale». La fabbrica va, di stagione in stagione, dove il profitto per azionisti e sponsor è massimo. Ci si sposta di mille chilometri, si cambia regione, oppure si salta in un’altra nazione. «Vaporizzare la produzione — dice l’econo-
mista Zheng Yusheng, della Business School di Shenzhen — rafforza la proprietà. Se sei mobile e ovunque, operai e sindacati sono morti. È la globalizzazione ai tempi della crisi: lavora chi si adegua, gli affari perdono ogni valore sociale e le condizioni, anche in assenza di profitti, vengono decise dal management».
Alla Foxconn, che ha appena approvato un investimento da 500 milioni di dollari per aprire il quinto stabilimento in Brasile, il bilancio degli ultimi due anni è tragico: 16 operai morti suicidi, studenti assunti in nero per fronteggiare i picchi delle ordinazioni Apple, vita lavorativa media 15 anni, operai costretti a pulire le latrine se rifiutano di fare 80 ore di straordinari al mese, infortunati sul lavoro obbligati a dimettersi, lettera di assunzione con “divieto di suicidio”. I consumatori Usa avevano minacciato il boicottaggio dei suoi tesori hitech. A indignare il popolo della Rete, l’annuncio di una maxi-meccanizzazione tagliacosti. Slogan: «I robot non si buttano dal tetto, se danno problemi basta spegnerli».
È nata tra gli oltre un milione di operai Foxconn rinchiusi nelle fabbriche di Shenzhen, Longhua, Foshan e Chengdu, la rivolta di questa notte a Taiyuan. Una guerriglia da giro del mondo, ma certamente non un caso isolato. La ribellione del “Cipputi cinese” dilaga anche nel Guangdong e nello Zhejiang, a Pechino e a Shanghai, nella nuova terra promessa di Chongqing e nel distrettoauto di Changsha. Per il potere rosso, fondato su soldati, contadini e operai, è uno shock: o aumenta i salari e impone nelle fabbriche le basi di diritti universali, perdendo competitività nel nome della crescita dei consumi interni, o sacrifica la stabilità in cambio dell’export. Nella potenza post-proletaria che comanda il secolo, verranno prima le vite degli operai, o gli indici dei mercati finanziari? È questa la domanda sospesa sulla fucina anonima dell’iPhone 5 nello Shanxi, per la prima volta ferma causa rivolta e avvolta da un’altra notte di censura. Quesito inaudito, nella Cina dei misteri dove nemmeno la data del congresso d’ottobre può essere rivelata. Ma interrogativo essenziale anche nel nostro mondo
antico afflitto dal segno meno, ormai esposto al vento freddo del lavoro tradito già nella sua culla-tomba di Taiyuan.
La Repubblica 25.09.12
"L'accusa di Monti: sull'anticorruzione inerzie non scusabili", di Dino Martirano
Di lotta alla corruzione il presidente del Consiglio ne aveva già parlato il 16 aprile davanti all’emiro del Qatar: «Ho chiesto a sua altezza quale fattore, in passato, avesse ostacolato di più gli investimenti stranieri nel nostro Paese… La corruzione, appunto». Poi ci era tornato su a Cernobbio e ieri, alla Conferenza internazionale sulle riforme strutturali, Mario Monti ha dato una stilettata al Pdl che sta facendo melina intorno al ddl anticorruzione: «Si va in salita, non in discesa, data una certa inerzia comprensibile ma non scusabile da parte di certe forze politiche», ma il governo «intende portare avanti» il ddl contro la corruzione inserito «dentro un pacchetto equilibrato» sulla giustizia.
Così ha parlato Monti quando mancano tre giorni alla scadenza del termine per la presentazione degli emendamenti al ddl Alfano che — riveduto alla Camera dove passò con la fiducia, inasprisce le pene e rende più stringenti le regole per la prevenzione della corruzione — è fermo da mesi in commissione al Senato. Il Pdl vuole cambiare, ammorbidendolo, il maxiemendamento imposto alla Camera dal ministro Paola Severino ma a questo punto non è detto che l’operazione riesca. Nonostante l’apertura del governo, ieri il Guardasigilli ha puntualizzato: «L’obiettivo è quello di approvare il ddl in questa legislatura. Una strada è quella di confermare il testo della Camera senza modifiche oppure si può percorrere la strada di alcune modifiche purché ci sia una solida, chiara e seria intesa sui tempi di approvazione» alla Camera.
Il ministro non esclude uno scenario in cui, in caso di mancato accordo sui tempi o di pretese eccessive sul testo, si ricorrerà a un nuovo voto di fiducia. D’altronde, Monti ha ricordato che «nel nostro Paese la corruzione è percepita a livelli superiori» e che «il governo compirà ogni sforzo» per fare approvare la legge.
Si marcia in salita, dunque. Il Pdl vuole modificare il testo Severino che prevede la procedibilità d’ufficio per la corruzione tra privati mentre il ministro sarebbe disposto a prevedere la procedibilità d’ufficio solo quando si verifica una lesione della libera concorrenza tra le imprese. Un altro nodo è quello del reato di traffico di influenze illecite: qui il Pdl chiede la cancellazione di un «reato vago» o un suo ridimensionamento. Sul lobbismo legale — dice il ministro che ha incontrato le matricole della Luiss — «stiamo approfondendo un testo che trae spunto dalla normativa applicata in altri Paesi dove si bada molto alla forma. Io tuttavia sono più interessata alla sostanza».
E così alla vigilia dei primi voti al Senato, tira una brutta aria nella «strana maggioranza». Anna Finocchiaro (Pd): «Monti ha ragione, basta stop dal Pdl. Noi siamo pronti a votare il testo della Camera, sebbene sia perfettibile, e il governo farebbe bene a insistere». Ma dal Pdl ora arrivano anche segnali diversi: «Il tempo della melina è finito… Non si lasci cadere l’appello di Monti. Come fa la nomenklatura del partito a non accorgersi quello che sta succedendo nel Pese?», azzarda Isabella Bertolini. E l’ex ministro Franco Frattini rilancia proponendo una nuova norma: «Convogliare i soldi pubblici confiscati ai politici in un fondo statale per l’abbassamento della pressione fiscale». Francesco Paolo Sisto, invece, insiste sul «pacchetto» lasciando intendere che il Pdl non ha rinunciato, «in cambio» del ddl intercettazioni. Ma il ministro tra le «altre priorità» ieri ha citato solo le carceri e il processo civile.
Il Corriere della Sera 25.09.12
"L'accusa di Monti: sull'anticorruzione inerzie non scusabili", di Dino Martirano
Di lotta alla corruzione il presidente del Consiglio ne aveva già parlato il 16 aprile davanti all’emiro del Qatar: «Ho chiesto a sua altezza quale fattore, in passato, avesse ostacolato di più gli investimenti stranieri nel nostro Paese… La corruzione, appunto». Poi ci era tornato su a Cernobbio e ieri, alla Conferenza internazionale sulle riforme strutturali, Mario Monti ha dato una stilettata al Pdl che sta facendo melina intorno al ddl anticorruzione: «Si va in salita, non in discesa, data una certa inerzia comprensibile ma non scusabile da parte di certe forze politiche», ma il governo «intende portare avanti» il ddl contro la corruzione inserito «dentro un pacchetto equilibrato» sulla giustizia.
Così ha parlato Monti quando mancano tre giorni alla scadenza del termine per la presentazione degli emendamenti al ddl Alfano che — riveduto alla Camera dove passò con la fiducia, inasprisce le pene e rende più stringenti le regole per la prevenzione della corruzione — è fermo da mesi in commissione al Senato. Il Pdl vuole cambiare, ammorbidendolo, il maxiemendamento imposto alla Camera dal ministro Paola Severino ma a questo punto non è detto che l’operazione riesca. Nonostante l’apertura del governo, ieri il Guardasigilli ha puntualizzato: «L’obiettivo è quello di approvare il ddl in questa legislatura. Una strada è quella di confermare il testo della Camera senza modifiche oppure si può percorrere la strada di alcune modifiche purché ci sia una solida, chiara e seria intesa sui tempi di approvazione» alla Camera.
Il ministro non esclude uno scenario in cui, in caso di mancato accordo sui tempi o di pretese eccessive sul testo, si ricorrerà a un nuovo voto di fiducia. D’altronde, Monti ha ricordato che «nel nostro Paese la corruzione è percepita a livelli superiori» e che «il governo compirà ogni sforzo» per fare approvare la legge.
Si marcia in salita, dunque. Il Pdl vuole modificare il testo Severino che prevede la procedibilità d’ufficio per la corruzione tra privati mentre il ministro sarebbe disposto a prevedere la procedibilità d’ufficio solo quando si verifica una lesione della libera concorrenza tra le imprese. Un altro nodo è quello del reato di traffico di influenze illecite: qui il Pdl chiede la cancellazione di un «reato vago» o un suo ridimensionamento. Sul lobbismo legale — dice il ministro che ha incontrato le matricole della Luiss — «stiamo approfondendo un testo che trae spunto dalla normativa applicata in altri Paesi dove si bada molto alla forma. Io tuttavia sono più interessata alla sostanza».
E così alla vigilia dei primi voti al Senato, tira una brutta aria nella «strana maggioranza». Anna Finocchiaro (Pd): «Monti ha ragione, basta stop dal Pdl. Noi siamo pronti a votare il testo della Camera, sebbene sia perfettibile, e il governo farebbe bene a insistere». Ma dal Pdl ora arrivano anche segnali diversi: «Il tempo della melina è finito… Non si lasci cadere l’appello di Monti. Come fa la nomenklatura del partito a non accorgersi quello che sta succedendo nel Pese?», azzarda Isabella Bertolini. E l’ex ministro Franco Frattini rilancia proponendo una nuova norma: «Convogliare i soldi pubblici confiscati ai politici in un fondo statale per l’abbassamento della pressione fiscale». Francesco Paolo Sisto, invece, insiste sul «pacchetto» lasciando intendere che il Pdl non ha rinunciato, «in cambio» del ddl intercettazioni. Ma il ministro tra le «altre priorità» ieri ha citato solo le carceri e il processo civile.
Il Corriere della Sera 25.09.12
"La grande baruffa del capitale", di Roberto Mania
«Diego, ma chi sei? Charles Bronson, il giustiziere delle notte?». Raccontano che Luca di Montezemolo, presidente Ferrari controllata dalla Fiat, abbia cercato di convincere l’amico per frenare la sua ira contro «i furbetti cosmopoliti», i due italiani con accento straniero, Sergio Marchionne e John Elkann, che guidano la Fiat diventata americana. Lui, il provinciale, residente in quel di Casette d’Ete, terra di ciabattini, diventati imprenditori globali, contro quel che resta del capitalismo aristocratico sabaudo. Che, persa la erre moscia, è rimasto con la voce roca, di chi dorme poco e fuma tanto, e che, al patron di Tod’s, dice: «Non mi rompere le scatole! ». Questo non era mai successo.
Diego Della Valle gliel’ha giurata al «ragazzino» (John Elkann detto Jaki, erede degli Agnelli) che poi tanto ragazzino non è più essendo ormai passati 36 anni da quando nacque in quel di New York. Se n’è andato sbattendo la porta dal patto di sindacato di Rcs, che controlla il Corriere della sera, proprio contro il «ragazzino» il «funzionario » (Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca), e da allora ha cominciato a comprare azioni fino all’8,7 per cento di quel che continua ad essere l’incrocio strategico di chi in Italia vuole il potere. Magari con i soldi degli altri o prendendo ordine da altri. Della Valle, invece, ci mette i suoi soldi e vuole comandare. Capitalismo autentico, vecchio stile: idee, progetti, investimenti, rischio. Pochi debiti. E anche molto paternalismo: con i sindacati non tratta ma per i suoi dipendenti fissa i premi e mette polizze sanitarie e buoni libri nella busta paga.
Anche lui, come Marchionne, continua a pagare un dipendente, reintegrato dal giudice dopo un licenziamento, senza farlo lavorare. Questo è quel poco che li accomuna.
Capitalismo glocal da quasi un miliardo di ricavi, quello di Della Valle. «Io sono un privilegiato e posso dire quel che penso e parlo come sono abituato a fare. Non è elegante? Chiedete agli operai di Termini Imerese se è elegante
la lettera che hanno ricevuto prima della chiusura della fabbrica. Non si può scaricare sul paese le proprie responsabilità ». Lo dice pubblicamente alla Bocconi, lo ripete nelle sue conversazioni private. Della Valle «arruffapopolo », commenta Lupo Rattazzi, consigliere di Exor (finanziaria della famiglia Agnelli), figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’Avvocato. «Perché — aggiunge Rattazzi — non c’è nulla di più disdicevole di un industriale miliardario che l’arruffapopolo e che alza il livello dei decibel per segnare punti ed avere titoli sui giornali».
Il patron delle Tod’s non assolderebbe mai un manager come Marchionne. E questo non andrebbe mai a produrre borse e mocassini per quanto con i pallini e per quanto ne sia un utilizzatore. Quasi ne ha disprezzo. Dice l’italo-americano con maglione Tommy Hilfiger ma senza etichetta: «Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango». Baruffe capitaliste con linguaggio da talk show. Se avesse potuto, Diego Della Valle avrebbe replicato in diretta: «Si vede… », garantiscono i suoi più stretti collaboratori.
Il talk show, dunque. Il botta e risposta, come si fa lungo il Transatlantico di Montecitorio tra politicanti perditempo. Il format, come avrebbe detto Edmondo Berselli, ha conquistato anche la nostra presunta borghesia industriale. «Questa è una vera novità», osserva Giuseppe Berta, storico dell’industria e soprattutto della Fiat. Scontro, ma senza un campo di gioco possibile: l’uno ha deciso di andare all’estero per salvare l’azienda (almeno così sostiene); l’altro sta ancorato a un territorio per conquistare quote di mercato all’estero. Per Marchionne il “made in Italy” è un handicap; per Della Valle è la rampa di lancio, il valore aggiunto.
Ma mentre Della Valle annuncia di aver preso la coppia Elkann-Marchionne «con le mani nella marmellata » dove sono gli altri capitalisti italiani? Con chi stanno? Per chi tifano nel talk show tra industriali? La Confindustria, un tempo lobby potente con l’ambizione di dettare l’agenda alla politica e il vezzo di dare lezioni a tutta la classe dirigente tranne che a sé, tace. Giorgio Squinzi preferisce l’afasia alle gaffe con cui si era insediato al settimo piano di Viale dell’Astronomia. Silenzio. Anche perché Marchionne, che curiosamente ieri parlava all’Unione industriale di Torino, si è liberato dai “lacci e lacciuoli” (certo Guido Carli coniò questa formula pensando a ben altro) della burocrazia confindustriale, dei contratti nazionali e dei sindacati conflittuali. Silenzio che è parte della decadenza confindustriale. Che ora presta i suoi past president (Montezemolo e Emma Marcegaglia) per coprire i vuoti della politica che verrà. Anche questo non era mai successo.
Non resta che l’ultima battuta. Quella che qualcuno ha sentito pronunciare a Della Valle: «È ora che Marchionne si rimetta la giacca. La “prova maglione” non l’ha superata. Il maglione lo lasci a Steve Jobs che si inventò Apple». Alla prossima puntata. Il format continua.
La Repubblica 25.09.12
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“Dal Brasile alla Cina e alla Serbia tutti gli aiuti pubblici al Lingotto”, di PAOLO GRISERI
Ci sono Stati che offrono pacchetti di sgravi fiscali impossibili da rifiutare, altri che pagano fino a diecimila euro per ogni posto di lavoro creato. Altri ancora che concedono finanziamenti a tasso agevolato per coprire fino all’85 per cento dei costi di costruzione delle fabbriche.
Anche nei paesi dove l’economia tira, la scelta dei luoghi in cui realizzare gli stabilimenti è frutto di una sorta di asta in cui vince chi offre le agevolazioni migliori. Alla Fiat (come ai suoi concorrenti) gli aiuti di stato vengono offerti da tutti i governi, dagli Usa alla Cina, dalla Serbia al Brasile. Ecco una panoramica delle agevolazioni ottenute recentemente dal gruppo di Torino nei diversi Paesi del mondo.
Tassi agevolati e bonus fiscali per diventare leader in Sud America
LA COSTRUZIONE del nuovo stabilimento nello stato di Pernambuco è stata la prima occasione di polemica tra Sergio Marchionne e il ministro Corrado Passera. Il governo brasiliano finanzierà con un tasso agevolato fino all’85 la realizzazione della nuova fabbrica che costerà 2,3 miliardi di euro. Inoltre la casa torinese otterrà vantaggi fiscali per cinque anni a partire dalla data di avvio della produzione. Finanziamenti e agevolazioni erano già stati ottenuti nei decenni scorsi dalla Fiat Brasiliana quando era stato realizzato il primo stabilimento, quello di Belo Horizonte nello stato del Minas Gerais. In Brasile il Lingotto ha realizzato uno degli investimenti più redditizi diventando il primo produttore di automobili nell’America del Sud, il mercato che spesso ha sopperito con le sue performance positive ai cali delle vendite registrati in Europa
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Fondi da Belgrado e dalla Bei ma operai pagati 400 euro al mese
LO STABILIMENTO serbo di Kragujevac è stato il primo dove sono stati dirottati modelli inizialmente previsti in Italia. In Serbia finisce infatti, nel luglio del 2010, la produzione del modello L0, quello che oggi si chiama 500 L. Il governo di Belgrado mette sul piatto 250 milioni mentre la Bei, la Banca europea degli investimenti, contribuisce con un prestito di 400 milioni alla ricostruzione post-bellica dello stabilimento dell’ex Zastava. La Fiat mette subito 350 milioni e ottiene fino a 10 mila euro per ogni operaio assunto, oltre ai vantaggi di una zona franca fiscale per 10 anni. Inoltre i dipendenti vengono pagati tra i 300 e i 400 euro al mese. Un vantaggio competitivo notevole anche se, ha ricordato Marchionne nell’intervista a Repubblica, nonostante tutte queste agevolazioni la 500 L costerà di più dei modelli prodotti dai concorrenti.
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Dalla Casa Bianca 7,6 miliardi per il salvataggio di Chrysler
L’OPERAZIONE Chrysler è uno dei più clamorosi casi di finanziamento pubblico nella patria del liberismo. Nel 2009 l’amministrazione Obama (insieme al governo canadese) finanzia con un grande prestito il salvataggio di Gm e Chrysler. Quest’ultima passa attraverso il fallimento pilotato e ottiene dai due governi 7,6 miliardi di dollari che vengono restituiti nel maggio del 2011. Il prestito viene concesso tra le polemiche dei repubblicani (anche se la pratica era stata avviata dal Presidente Bush negli ultimi giorni della sua presidenza). Marchionne festeggia a Auburn Hills la restituzione del prestito con una cerimonia alla presenza dei dipendenti. Anche i sindacati aiutano la Fiat rinunciando allo sciopero fino al 2015 e accettando il dimezzamento delle paghe per i neoassunti.
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Meno tasse per il costruttore e sconti per chi acquista auto
L’AREA di Pune è il cuore della presenza Fiat in India. Uno stabilimento da 650 milioni di dollari realizzato per produrre le utilitarie del gruppo di Torino. Come agli altri marchi presenti in zona, l’insediamento nel paese ha fruttato alla Fiat soprattutto vantaggi fiscali e sconti sui finanziamenti per l’acquisto di automobili che favoriscono chi produce nel paese rispetto ai costruttori importatori. In India la Fiat è alleata con Tata anche se negli ultimi mesi le difficoltà commerciali della casa di Torino hanno suggerito una parziale divisione delle reti di vendita tra i due gruppi. A Pune le potenzialità produttive sono molto alte: 200 mila auto all’anno e 100 mila motori. Attualmente è sfruttata solo una parte di questa capacità produttiva ma ci sono progetti per una ulteriore espansione.
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“Un’offerta da non rifiutare” e la fabbrica cambia regione
LA VICENDA dello stabilimento di Guangzhou nella provincia cinese dell’Hunan è una di quelle storia che dimostrano in modo proverbiale come la concorrenza a colpi di incentivi sia scatenata anche all’interno del Paese della grande Muraglia. La fabbrica che da poche settimane produce la Viaggio, l’auto del gruppo Fiat destinata alla Cina, doveva essere aperta a Canton, la città dove ha storicamente sede la Gac, il socio cinese del Lingotto. Ma il governatore di Hunan ha organizzato un vero e proprio blitz, come se operasse nel calcio mercato e ha convito Marchionne e i dirigenti Gac a colpi di incentivi e sgravi fiscali. «Un’offerta che non si poteva rifiutare», hanno commentato a Torino per spiegare la nuova localizzazione dello stabilimento, 630 milioni di euro di investimento e in prospettiva 3.000 dipendenti.
La Repubblica 25.09.12
"La grande baruffa del capitale", di Roberto Mania
«Diego, ma chi sei? Charles Bronson, il giustiziere delle notte?». Raccontano che Luca di Montezemolo, presidente Ferrari controllata dalla Fiat, abbia cercato di convincere l’amico per frenare la sua ira contro «i furbetti cosmopoliti», i due italiani con accento straniero, Sergio Marchionne e John Elkann, che guidano la Fiat diventata americana. Lui, il provinciale, residente in quel di Casette d’Ete, terra di ciabattini, diventati imprenditori globali, contro quel che resta del capitalismo aristocratico sabaudo. Che, persa la erre moscia, è rimasto con la voce roca, di chi dorme poco e fuma tanto, e che, al patron di Tod’s, dice: «Non mi rompere le scatole! ». Questo non era mai successo.
Diego Della Valle gliel’ha giurata al «ragazzino» (John Elkann detto Jaki, erede degli Agnelli) che poi tanto ragazzino non è più essendo ormai passati 36 anni da quando nacque in quel di New York. Se n’è andato sbattendo la porta dal patto di sindacato di Rcs, che controlla il Corriere della sera, proprio contro il «ragazzino» il «funzionario » (Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca), e da allora ha cominciato a comprare azioni fino all’8,7 per cento di quel che continua ad essere l’incrocio strategico di chi in Italia vuole il potere. Magari con i soldi degli altri o prendendo ordine da altri. Della Valle, invece, ci mette i suoi soldi e vuole comandare. Capitalismo autentico, vecchio stile: idee, progetti, investimenti, rischio. Pochi debiti. E anche molto paternalismo: con i sindacati non tratta ma per i suoi dipendenti fissa i premi e mette polizze sanitarie e buoni libri nella busta paga.
Anche lui, come Marchionne, continua a pagare un dipendente, reintegrato dal giudice dopo un licenziamento, senza farlo lavorare. Questo è quel poco che li accomuna.
Capitalismo glocal da quasi un miliardo di ricavi, quello di Della Valle. «Io sono un privilegiato e posso dire quel che penso e parlo come sono abituato a fare. Non è elegante? Chiedete agli operai di Termini Imerese se è elegante
la lettera che hanno ricevuto prima della chiusura della fabbrica. Non si può scaricare sul paese le proprie responsabilità ». Lo dice pubblicamente alla Bocconi, lo ripete nelle sue conversazioni private. Della Valle «arruffapopolo », commenta Lupo Rattazzi, consigliere di Exor (finanziaria della famiglia Agnelli), figlio di Susanna Agnelli, sorella dell’Avvocato. «Perché — aggiunge Rattazzi — non c’è nulla di più disdicevole di un industriale miliardario che l’arruffapopolo e che alza il livello dei decibel per segnare punti ed avere titoli sui giornali».
Il patron delle Tod’s non assolderebbe mai un manager come Marchionne. E questo non andrebbe mai a produrre borse e mocassini per quanto con i pallini e per quanto ne sia un utilizzatore. Quasi ne ha disprezzo. Dice l’italo-americano con maglione Tommy Hilfiger ma senza etichetta: «Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango». Baruffe capitaliste con linguaggio da talk show. Se avesse potuto, Diego Della Valle avrebbe replicato in diretta: «Si vede… », garantiscono i suoi più stretti collaboratori.
Il talk show, dunque. Il botta e risposta, come si fa lungo il Transatlantico di Montecitorio tra politicanti perditempo. Il format, come avrebbe detto Edmondo Berselli, ha conquistato anche la nostra presunta borghesia industriale. «Questa è una vera novità», osserva Giuseppe Berta, storico dell’industria e soprattutto della Fiat. Scontro, ma senza un campo di gioco possibile: l’uno ha deciso di andare all’estero per salvare l’azienda (almeno così sostiene); l’altro sta ancorato a un territorio per conquistare quote di mercato all’estero. Per Marchionne il “made in Italy” è un handicap; per Della Valle è la rampa di lancio, il valore aggiunto.
Ma mentre Della Valle annuncia di aver preso la coppia Elkann-Marchionne «con le mani nella marmellata » dove sono gli altri capitalisti italiani? Con chi stanno? Per chi tifano nel talk show tra industriali? La Confindustria, un tempo lobby potente con l’ambizione di dettare l’agenda alla politica e il vezzo di dare lezioni a tutta la classe dirigente tranne che a sé, tace. Giorgio Squinzi preferisce l’afasia alle gaffe con cui si era insediato al settimo piano di Viale dell’Astronomia. Silenzio. Anche perché Marchionne, che curiosamente ieri parlava all’Unione industriale di Torino, si è liberato dai “lacci e lacciuoli” (certo Guido Carli coniò questa formula pensando a ben altro) della burocrazia confindustriale, dei contratti nazionali e dei sindacati conflittuali. Silenzio che è parte della decadenza confindustriale. Che ora presta i suoi past president (Montezemolo e Emma Marcegaglia) per coprire i vuoti della politica che verrà. Anche questo non era mai successo.
Non resta che l’ultima battuta. Quella che qualcuno ha sentito pronunciare a Della Valle: «È ora che Marchionne si rimetta la giacca. La “prova maglione” non l’ha superata. Il maglione lo lasci a Steve Jobs che si inventò Apple». Alla prossima puntata. Il format continua.
La Repubblica 25.09.12
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“Dal Brasile alla Cina e alla Serbia tutti gli aiuti pubblici al Lingotto”, di PAOLO GRISERI
Ci sono Stati che offrono pacchetti di sgravi fiscali impossibili da rifiutare, altri che pagano fino a diecimila euro per ogni posto di lavoro creato. Altri ancora che concedono finanziamenti a tasso agevolato per coprire fino all’85 per cento dei costi di costruzione delle fabbriche.
Anche nei paesi dove l’economia tira, la scelta dei luoghi in cui realizzare gli stabilimenti è frutto di una sorta di asta in cui vince chi offre le agevolazioni migliori. Alla Fiat (come ai suoi concorrenti) gli aiuti di stato vengono offerti da tutti i governi, dagli Usa alla Cina, dalla Serbia al Brasile. Ecco una panoramica delle agevolazioni ottenute recentemente dal gruppo di Torino nei diversi Paesi del mondo.
Tassi agevolati e bonus fiscali per diventare leader in Sud America
LA COSTRUZIONE del nuovo stabilimento nello stato di Pernambuco è stata la prima occasione di polemica tra Sergio Marchionne e il ministro Corrado Passera. Il governo brasiliano finanzierà con un tasso agevolato fino all’85 la realizzazione della nuova fabbrica che costerà 2,3 miliardi di euro. Inoltre la casa torinese otterrà vantaggi fiscali per cinque anni a partire dalla data di avvio della produzione. Finanziamenti e agevolazioni erano già stati ottenuti nei decenni scorsi dalla Fiat Brasiliana quando era stato realizzato il primo stabilimento, quello di Belo Horizonte nello stato del Minas Gerais. In Brasile il Lingotto ha realizzato uno degli investimenti più redditizi diventando il primo produttore di automobili nell’America del Sud, il mercato che spesso ha sopperito con le sue performance positive ai cali delle vendite registrati in Europa
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Fondi da Belgrado e dalla Bei ma operai pagati 400 euro al mese
LO STABILIMENTO serbo di Kragujevac è stato il primo dove sono stati dirottati modelli inizialmente previsti in Italia. In Serbia finisce infatti, nel luglio del 2010, la produzione del modello L0, quello che oggi si chiama 500 L. Il governo di Belgrado mette sul piatto 250 milioni mentre la Bei, la Banca europea degli investimenti, contribuisce con un prestito di 400 milioni alla ricostruzione post-bellica dello stabilimento dell’ex Zastava. La Fiat mette subito 350 milioni e ottiene fino a 10 mila euro per ogni operaio assunto, oltre ai vantaggi di una zona franca fiscale per 10 anni. Inoltre i dipendenti vengono pagati tra i 300 e i 400 euro al mese. Un vantaggio competitivo notevole anche se, ha ricordato Marchionne nell’intervista a Repubblica, nonostante tutte queste agevolazioni la 500 L costerà di più dei modelli prodotti dai concorrenti.
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Dalla Casa Bianca 7,6 miliardi per il salvataggio di Chrysler
L’OPERAZIONE Chrysler è uno dei più clamorosi casi di finanziamento pubblico nella patria del liberismo. Nel 2009 l’amministrazione Obama (insieme al governo canadese) finanzia con un grande prestito il salvataggio di Gm e Chrysler. Quest’ultima passa attraverso il fallimento pilotato e ottiene dai due governi 7,6 miliardi di dollari che vengono restituiti nel maggio del 2011. Il prestito viene concesso tra le polemiche dei repubblicani (anche se la pratica era stata avviata dal Presidente Bush negli ultimi giorni della sua presidenza). Marchionne festeggia a Auburn Hills la restituzione del prestito con una cerimonia alla presenza dei dipendenti. Anche i sindacati aiutano la Fiat rinunciando allo sciopero fino al 2015 e accettando il dimezzamento delle paghe per i neoassunti.
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Meno tasse per il costruttore e sconti per chi acquista auto
L’AREA di Pune è il cuore della presenza Fiat in India. Uno stabilimento da 650 milioni di dollari realizzato per produrre le utilitarie del gruppo di Torino. Come agli altri marchi presenti in zona, l’insediamento nel paese ha fruttato alla Fiat soprattutto vantaggi fiscali e sconti sui finanziamenti per l’acquisto di automobili che favoriscono chi produce nel paese rispetto ai costruttori importatori. In India la Fiat è alleata con Tata anche se negli ultimi mesi le difficoltà commerciali della casa di Torino hanno suggerito una parziale divisione delle reti di vendita tra i due gruppi. A Pune le potenzialità produttive sono molto alte: 200 mila auto all’anno e 100 mila motori. Attualmente è sfruttata solo una parte di questa capacità produttiva ma ci sono progetti per una ulteriore espansione.
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“Un’offerta da non rifiutare” e la fabbrica cambia regione
LA VICENDA dello stabilimento di Guangzhou nella provincia cinese dell’Hunan è una di quelle storia che dimostrano in modo proverbiale come la concorrenza a colpi di incentivi sia scatenata anche all’interno del Paese della grande Muraglia. La fabbrica che da poche settimane produce la Viaggio, l’auto del gruppo Fiat destinata alla Cina, doveva essere aperta a Canton, la città dove ha storicamente sede la Gac, il socio cinese del Lingotto. Ma il governatore di Hunan ha organizzato un vero e proprio blitz, come se operasse nel calcio mercato e ha convito Marchionne e i dirigenti Gac a colpi di incentivi e sgravi fiscali. «Un’offerta che non si poteva rifiutare», hanno commentato a Torino per spiegare la nuova localizzazione dello stabilimento, 630 milioni di euro di investimento e in prospettiva 3.000 dipendenti.
La Repubblica 25.09.12
