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"Il Lingotto è soltanto la punta di un iceberg", di Eugenio Scalfari

L’incontro di ieri pomeriggio tra Sergio Marchionne e il premier Mario Monti affiancato dai ministri Passera e Fornero non riguarda soltanto la Fiat. Rappresenta infatti la punta di un iceberg poiché porta con sé la situazione di tutta l’industria italiana e quindi del lavoro, degli ammortizzatori sociali, della produttività, della fiscalità, della recessione e infine dell’Europa di cui l’Italia è soltanto una regione che non può affrontare e risolvere problemi di questa dimensione se non inquadrandoli nel contesto del continente senza il quale da sola può fare ben poco.
Nessuna delle due parti sedute al tavolo di Palazzo Chigi – a quanto si sa – era sulla difensiva. Ciascuna aveva richieste da porre all’altra, soprattutto il governo perché l’inadempiente in questo caso è la Fiat e non il governo. Fu la Fiat infatti che due anni fa e ancora l’anno scorso aveva lanciato il progetto definito Fabbrica Italia, aveva stanziato 20 miliardi di investimenti, aveva stipulato gli accordi con due dei tre sindacati confederali. Ed è la Fiat che ora ritiene non più agibile quel progetto e gli investimenti che esso comportava. Perché? La risposta di Marchionne riguarda il mutamento in peggio del mercato dell’auto in Europa, ma è una risposta che non risponde a verità, come Passera ha fatto presente nel corso dell’incontro. Già nel 2010 il mercato dell’auto aveva subìto un crollo drammatico delle immatricolazioni di circa 3 milioni di unità e ulteriori diminuzioni
prevedibili e previste.
Ma era stato proprio allora che la Fiat aveva lanciato il suo progetto sottolineando che esso non avrebbe richiesto alcun aiuto da parte dello Stato, salvo quello di prendersi carico della chiusura dello stabilimento di Termini Imerese e delle conseguenze sociali che quella chiusura avrebbe comportato.
All’atto pratico si è visto che la cifra di 20 miliardi (dei quali solo uno e mezzo è stato effettivamente investito) era decisamente sopravvalutata; probabilmente fumo negli occhi per convincere la Cisl e la Uil a rompere con la Cgil-Fiom e a firmare il contratto-tipo; ma questa è una ricerca di intenzioni che non vogliamo fare. Sta di fatto che ora di quella cifra è inutile parlare, almeno fino a quando il mercato dovesse riprendersi con una rapidità e un’intensità sulle quali nessuno scommetterebbe neppure un centesimo.
La Fiat non se ne andrà dall’Italia, se non altro perché l’Italia è la sua unica base in Europa, responsabilità storiche a parte. E l’Europa è tuttora un grande mercato dell’auto anche se fin troppo maturo. Non se ne andrà, ma stavolta chiede aiuti allo Stato (anche se i protagonisti smentiscono di averne parlato). Due soprattutto: la cassa integrazione “in deroga” per alcune migliaia di lavoratori e per la durata di almeno due anni; un accordo tra tutte le case automobilistiche europee, sponsorizzato dai rispettivi governi, per una riduzione della produzione equamente ripartita e per un accordo sui prezzi di vendita che impedisca manovre di “dumping” che modificherebbero le quote di mercato che ciascuna casa detiene.
A queste richieste si aggiungono facilitazioni creditizie connesse a eventuali innovazioni produttive e a ricerche tecnologiche capaci di aumentare la produttività e la competitività.
La richiesta di una sorta di cartello europeo non è stata neppure formulata ufficialmente: è caduta nei colloqui informali perché improponibile. Sulle altre la decisione, probabilmente positiva, verrà dopo il consiglio di amministrazione del Lingotto di ottobre che dovrebbe riconfermare la presenza di tutti gli stabilimenti dell’azienda in Italia e un piano per superare i due anni di pena in attesa dell’uscita dalla recessione.
Se queste prime notizie saranno confermate la punta dell’iceberg sarebbe stata positivamente pilotata ma quello che c’è sotto no.
Sotto la punta emersa, cui si affacciano i casi non meno imponenti dell’Ilva di Taranto e del Sulcis, ci sono 150 tavoli di aziende in chiusura già operativi al ministero dello Sviluppo e molte migliaia di aziende medio-piccole in gravi difficoltà. Gli accordi con la Fiat faranno testo e creeranno un precedente che sarà impossibile ignorare senza determinare una vera e propria ribellione. Ed è questo il problema che si è spalancato dopo l’incontro di ieri.
*** Le dimensioni della crisi industriale sono tali da richiedere soluzioni generali perché è impossibile un approccio caso per caso.
Viene in tal modo al pettine il tema del lavoro, della produttività, dell’occupazione, dei contratti, del precariato, degli ammortizzatori sociali, della fiscalità, delle liberalizzazioni. Insomma delle risorse, perché è puramente illusorio pensar di padroneggiare l’enormità e la complessità di questa crisi con riforme a tasso zero.
Le riforme a tasso zero sono ganascini e placebo, non terapie che agiscono sulle cause e non soltanto sui sintomi.
Alcuni, anzi purtroppo molti, pensano di risolvere la questione con un’imposta patrimoniale sui ricchi. Far piangere i ricchi per consolare i poveri e riportarli sul mercato dei consumi. Una patrimoniale capace di produrre questi effetti eticamente è sacrosanta ma economicamente è impossibile. In un mercato dei capitali aperto come abbiamo in Europa e nel mondo si determinerebbe una fuga di capitali di proporzioni enormi con effetti devastanti sul mercato finanziario e sulla tenuta dell’euro. L’imposta patrimoniale ha un senso se si tratta di un gravame ordinario di piccole dimensioni che, in una futura riforma fiscale, serva di coronamento a imposte proporzionali sulla ricchezza per mantenere un andamento progressivo del sistema nel suo complesso. Ad altro non può servire, salvo che se ne limiti l’applicazione ai patrimoni immobiliari con il risultato di un effetto negativo sul valore e quindi sulla vendita dei predetti immobili. Sarebbe opportuno che di queste cose riflettessero quelle forze politiche che della patrimoniale hanno fatto un mantra che non sta in piedi.
In realtà c’è solo un modo per affrontare il problema del come finanziare le riforme degli ammortizzatori e i nuovi investimenti: il taglio della spesa corrente.
La spesa corrente negli ultimi dieci anni è aumentata al ritmo del 2 per cento l’anno senza procurare alcuna contropartita vantaggiosa allo Stato e all’occupazione. La crescita della spesa è avvenuta perfino in questo ultimo anno con il governo cosiddetto tecnico. Ora è in corso la riqualificazione della spesa (spending review) ma i frutti sono ancora del tutto insufficienti.
Affinché fossero significativi ci vorrebbe un taglio di 40 miliardi, dal quale siamo ancora ben lontani anche perché con quella cifra si impedirebbe un ulteriore aumento senza tuttavia alcuna diminuzione capace di generare nuove risorse.
Il taglio dovrebbe dunque ammontare complessivamente a 50 miliardi e non può certo essere effettuato a carico della spesa sociale, della quale vanno cambiati i meccanismi ma non la dimensione. È possibile? Sì, è possibile, il grasso da tagliare c’è. Non certamente tagli lineari ma mirati. Il ministro Giarda e il commissario Bondi ne hanno individuato alcuni, ma le cifre sono ancora molto limitate e il processo va avanti con eccessiva timidezza e con molti ostacoli frapposti da lobby potenti e da alcuni partiti ad esse legati. Il vero banco di prova di questo governo nei pochi mesi di vita che gli restano è questo. “Qui si parrà la tua nobilitate”. Non solo gli sprechi ma una visione politica deve presiedere a questa operazione che ha come contropartita una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte. Un taglio massiccio della spesa corrente potrebbe infatti produrre deflazione se non fosse destinato ad una riduzione, anch’essa mirata, delle imposte.
Quali imposte? Le accise e le imposte sul lavoro e sulle imprese; tante riduzioni di spesa e altrettante riduzioni di imposte, fermo restando il fiscal compact e il pareggio del bilancio previsto.
Questa deve essere la scommessa. Se riuscisse porrà le condizioni del rilancio per la crescita del reddito, sempre che nel frattempo anche lo spread diminuisca e con esso gli interessi e gli oneri del Tesoro sul debito pubblico.

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Qui si apre il capitolo Europa. Ne abbiamo parlato più volte in queste pagine, ma qualche cosa va aggiunta per aggiornare ad oggi la situazione.
Si dice attendibilmente che Monti abbia suggerito al premier spagnolo di chiedere l’intervento del fondo Esm – e quindi dello scudo anti-spread di Draghi – negoziandone le condizioni. Si vedrà nei prossimi giorni se il suggerimento verrà accolto. A quel punto è probabile che anche lo spread italiano benefici indirettamente dell’intervento della Bce in Spagna oppure, se questo effetto positivo non si verificasse, che Monti chieda anche lui lo scudo anti-spread a condizioni certamente diverse e più leggere di quelle spagnole.
Poiché l’Ue e la Bce chiedono al tempo stesso mantenimento del rigore e riforme per la crescita, un eventuale programma di riduzione della spesa corrente e delle imposte potrebbe essere la contropartita dell’intervento di Draghi sul mercato italiano, insieme alle riforme necessarie per aumentare la produttività.
A questo punto si sarebbero poste le condizioni per il rafforzamento definitivo dell’euro e l’Europa dovrebbe procedere verso l’obiettivo di fondo delle cessioni di sovranità necessarie alla nascita dello Stato federale europeo, non solo nel settore dell’economia, ma anche della politica estera e della difesa.
Processo lungo che proprio per questo deve iniziare quanto prima. L’Italia potrebbe contribuire efficacemente a quel percorso anche in forza dell’ulteriore credibilità acquisita.
È inutile dire che qui si pone ancora un volta il tema spinosissimo del dopo Monti e quello, altrettanto spinoso, del dopo Napolitano. Su questa questione ho già più volte espresso la mia personale opinione.
Sono convinto che quando un Paese affronta la campagna elettorale, i risultati di essa non possono essere ignorati per la semplice ragione che si insedia un nuovo Parlamento, si formano una nuova maggioranza e un nuovo governo. Sono tuttavia convinto che le forze politiche che daranno vita a queste novità non potranno, quand’anche lo volessero, rimettere indietro le lancette dell’orologio. Viviamo un’epoca del tutto diversa da quella che l’ha preceduta. Se l’Europa vuole aver voce nel mondo della globalità non può continuare a parlare attraverso le 27 voci degli Stati membri e se l’euro vuole diventare una delle grandi monete mondiali non può esser guidata da 17 Paesi, ciascuno con un proprio fisco e una propria politica economica.
In aprile si voterà per questo o quel partito ma si voterà soprattutto per l’Europa o contro di essa. La legge elettorale è molto importante ma ancor più importante è l’obiettivo che ciascun partito si proporrà di fronte al tema europeo. Non è questione di terza repubblica, è questione della nascita di un nuovo Stato di dimensione continentale e con una visione politica unitaria. La speranza è che gli italiani votino per questa prospettiva vincendo sul populismo e sull’indifferenza.

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Dovrei ora dire qualche parola sullo scandalo del Lazio e di gran parte delle Regioni italiane a cominciare dalla Lombardia del Celeste e dalla Sicilia di Lombardo.
Mi limito solo a dire vergogna aggiungendo che con questa classe politica locale pensare ad un buon federalismo significa sognare ad occhi aperti. Soltanto i Comuni danno ancora fiducia. Le Regioni ne avevano già poca, adesso è rimasta soltanto la cenere ed i fumi infetti che essa espande.

La Repubblica 23.09.12