C’è una lettura politica immediata: lo scandalo alla Regione Lazio non sta devastando solo la destra romana, ma rischia di essere il detonatore di quella spaccatura nel Pdl nazionale che, ormai da qualche mese, è sempre più evidente. Tra il gruppo degli ex An e quello degli ex Forza Italia, il collante di Berlusconi non basta più, perché non assicura più l’unica condizione che lo sigillava, la probabilità della vittoria. Ma le convulsioni della giunta Polverini, in una agonia che trascina la sua fine oltre la decenza, dopo i casi Lusi, Penati, Lombardo, Formigoni suggeriscono una riflessione più profonda e qualche domanda inquietante.
Gli interrogativi sono almeno due. Che razza di classe politica e amministrativa è stata allevata in Italia negli ultimi anni? Con quali metodi di formazione è stata coltivata e con quali criteri si è selezionata la carriera dirigente? E, poi, lo spettacolo di sfascio democratico, civile e morale, con punte di squallida farsa, come quelle testimoniate dalle foto durante le feste nel costume di una pseudo Roma antica, non segnala anche la fine di un’illusione?
Quella delle virtù del potere diffuso sul territorio, meno esposto alle tentazioni perché più prossimo e, quindi, più controllabile da parte del cittadino. Una illusione e pure una speranza, alla base di quei consensi popolari che, negli ultimi tempi, hanno fatto crescere l’idea federalista in Italia. Ma anche l’alibi dietro il quale un famelico assalto alla diligenza è dilagato tra pletorici Consigli regionali, provinciali, comunali, di quartiere, tra migliaia di poltrone dove all’ideale democratico della partecipazione si è sostituito il costume criminogeno della spartizione.
La risposta alla prima domanda è facile, basta guardare alla realtà dei partiti italiani, così come si è modificata negli ultimi decenni. Finita la forte motivazione ideologica che divideva gli animi, ma che accendeva la passione di un impegno che pensava di poter cambiare se non il mondo, almeno l’Italia, l’ingresso in un partito non è più una scelta di vita, ma l’opportunità di acchiappare un tenore di vita. La conferma dell’obiettivo viene data, poi, dalla selezione delle carriere, perché chi avesse altre intenzioni viene subito emarginato e, infine, costretto all’abbandono o a ricoprire ruoli marginali. Criteri di promozione che sono necessitati, peraltro, dalla mutata natura della lotta politica: dallo scontro tra correnti ideologiche alle rivalità tipiche dei «partiti personali». Un modello di organizzazione che, dall’alto, si è ormai propagato nelle realtà periferiche, anche le più piccole. Con la ovvia conseguenza che la fedeltà è più utile della capacità, l’obbedienza fa premio sull’indipendenza.
Come in tutte le società, anche in quella politica, il peggioramento della classe dirigente diviene, a un certo punto, talmente insopportabile e manifesto che il sistema non regge più e l’attuale situazione sembra potersi configurare sul crinale di questa drammatica svolta. Come fu all’epoca di «Mani pulite», quando il meccanismo della diffusa pratica di «dazione ambientale» si spezzò clamorosamente e tutto in una volta, così, adesso, la corruzione e il malcostume della classe politica locale pare annunciare una vera e propria crisi della democrazia italiana.
La necessità di un profondo rinnovamento della classe politica, nazionale e locale, non può che partire là dove il male si è annidato e ha prosperato: la vita dei partiti. Se la democrazia non si riesce a concepire senza i partiti, questi partiti non sono concepibili in una democrazia. Sono necessari statuti rigorosi, controlli di autorità esterne, regole di finanziamento trasparenti, ma, e soprattutto, una modifica profonda e radicale dei criteri di formazione e di selezione delle carriere.
Lo spettacolo che, dalla Sicilia alla Lombardia, passando per la capitale, sta squadernandosi sotto gli occhi degli italiani, però, dovrebbe limitare anche gli entusiasmi, come si è detto, per certi dogmatismi federalistici troppo sbandierati, in buona o cattiva fede. La moltiplicazione dei poteri e la loro diffusione sul territorio, di per sé, non è una garanzia democratica. Può diventare anche la moltiplicazione e la diffusione di ruberie, sprechi, alimento di corruzioni spicciole e grandi. Perché in politica, non ci sono buone ricette, se non sono preparate da un bravo cuoco.
La Stampa 20.09.12
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"Il paese di Google", di Nadia Urbinati
LA Casa Bianca è in rotta di collisione con YouTube. L’oggetto del contendere è la limitazione della libertà di parola e di espressione (free speech), il primo pilastro del diritto civile moderno sul quale si reggono le democrazie costituzionali. Google ha deciso di non tenere conto della richiesta della Casa Bianca di riconsiderare l’opportunità di tenere in circolazione il video anti-Islam che ha scatenato la violenza e le manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in tutto il mondo arabo. Google si appella all’auto-governo. Google ha precisato di aver già operato affinché il video non violi i termini della legge Americana sullo hate speech (discorso che infiamma odio) e di aver predisposto che il video venga oscurato in alcune regioni del mondo, per esempio l’Egitto, la Libia, l’India e l’Indonesia. Oscuramento temporaneo però, per ragioni di opportunità e prudenza, non censura permanente.
La decisione di Google si basa su una carta diciamo così costituzionale che la compagnia ha adottato nel 2007 per risolvere decisioni controverse. La carta dice che la compagnia nel prendere decisioni sulla pubblicazione di materiale sui suoi siti deve tener conto non soltanto delle leggi e delle politiche dei paesi, ma anche delle norme culturali non scritte, del contesto etico e tradizionale. Di fronte al pluralismo giuridico oggettivo, Google sceglie di mostrarsi sensibile alle “culture locali” e quindi ai sentimenti dei suoi utenti, ma si riserva di decidere, non riconoscendo al governo di nessun paese l’autorità di imporre la sua linea di comportamento.
Il governo mondiale della libertà di pensiero è in mano a chi ha il potere di esercitare questa libertà. Ci troviamo di fronte a un caso esemplare di che cosa significhi “società civile globale”, un dominio di relazioni private che sta al di fuori e in questo caso anche sopra ai singoli governi, i quali mentre esercitano l’autorità sovrana di fare leggi nei loro paesi, non hanno il potere, materiale e giuridico, per interferire sulle decisioni di una compagnia multinazionale, il cui mercato e la cui azione sono globali. Non è forse lo stesso per i diritti dei mercati? Non è forse vero che gli interessi dei mercati finanziari hanno il potere di respingere e addirittura cambiare le decisioni politiche dei governi? Perché la lex mercatoria non fa scandalo quando opera a difesa della società economica globale mentre la rivendicazione della libertà di pensiero e della sua autoregolazione da parte di Google produce tanto scalpore? Google rivendica la sua autorità di governo su questa materia, di curarsi direttamente di monitorare le circostanze, paese per paese, nelle quali operare. Di non subire le leggi dei paesi, nemmeno degli Stati Uniti, dove la compagnia ha sede. Come ogni compagnia multinazionale non è di nessun paese. Ed è questo che indispettisce l’amministrazione statunitense. Google è una cosa a sé, un “paese” a sé quando si tratta di prendere decisioni su che cosa produrre, pubblicare e censurare. E alle critiche che sono piovute dall’opinione pubblica globale Google ha così risposto: «A Google noi nutriamo un pregiudizio (bias) in favore dei diritti della gente alla libera espressione in tutto ciò che facciamo… ma riconosciamo anche che la libertà di espressione non deve o non dovrebbe essere senza limiti. La difficoltà consiste nel decidere dove porre questi limiti ». Una sfida che Google tuttavia non vuol demandare alle autorità dello Stato, di nessuno Stato. È la libertà civile, che vale per i singoli come per le compagnie come Google, a ispirare questa decisione. I governi degli Stati (democratici e no) possono non essere contenti, anzi criticano duramente questa dichiarazione di autonomia decisionale di Google, ma le organizzazioni per i diritti civili, le organizzazioni non profit per la libertà tecnologica e le libertà civili digitali (il Center for Democracy and Technology, per esempio) non possono che essere dalla parte di Google. E così, malgrado gli inviti della presidenza americana, e le promesse in un primo momento di far sparire il video, Google, che controlla il portale come un editore controlla il suo giornale, ha deciso di tenere comunque online il film blasfemo, censurandolo solo in 45 Paesi arabi. Questa decisione viene criticata da quasi tutti i mezzi di informazione. Ma se difendiamo la libertà di Google quando il governo cinese lo oscura per impedire che i suoi sudditi non si scambino idee che non piacciono al potere, se abbiamo difeso la libertà dei giornali italiani contro i tentativi del governo Berlusconi di imbavagliarli, se temiamo e denunciamo ogni intervento repressivo o censorio, come possiamo stupirci che Google si faccia arbitro della sua libertà di parola ed espressione?
Certo, alcuni paesi più di altri regolano la libertà di stampa e di parola, ma nessuno può negare che i più liberi sono quei paesi dove lo Stato accampa meno ragioni di intervento e censura, e dove le corti meglio salvaguardano i diritti civili. L’Italia democratica ha assistito al rogo di Ultimo tango a Parigi, ha sottoposto per decenni pellicole e opere d’arte al giudizio di un ufficio di censura ispirato ai valori religiosi e della pubblica “decenza”. Non possiamo onestamente dire che quella libertà sotto tutela era soddisfacente. Non c’è quindi alternativa all’uso della ragione prudente per risolvere problemi molto controversi caso per caso, senza mettere in discussione i diritti civili fondamentali – ed è proprio per questo che i dirigenti di Google si sono dati regole e norme che riescano a tenere insieme libertà e contesto, principio e cultura locale. Se non che, quella stessa cultura locale nel nome della quale ora si chiede la censura del video di Google, comunica grazie a Google e alle tecnologie digitali, ha bisogno di Google… anche per attaccare ciò che Google rende pubblico.
La Repubblica 20.09.12
"Il paese di Google", di Nadia Urbinati
LA Casa Bianca è in rotta di collisione con YouTube. L’oggetto del contendere è la limitazione della libertà di parola e di espressione (free speech), il primo pilastro del diritto civile moderno sul quale si reggono le democrazie costituzionali. Google ha deciso di non tenere conto della richiesta della Casa Bianca di riconsiderare l’opportunità di tenere in circolazione il video anti-Islam che ha scatenato la violenza e le manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in tutto il mondo arabo. Google si appella all’auto-governo. Google ha precisato di aver già operato affinché il video non violi i termini della legge Americana sullo hate speech (discorso che infiamma odio) e di aver predisposto che il video venga oscurato in alcune regioni del mondo, per esempio l’Egitto, la Libia, l’India e l’Indonesia. Oscuramento temporaneo però, per ragioni di opportunità e prudenza, non censura permanente.
La decisione di Google si basa su una carta diciamo così costituzionale che la compagnia ha adottato nel 2007 per risolvere decisioni controverse. La carta dice che la compagnia nel prendere decisioni sulla pubblicazione di materiale sui suoi siti deve tener conto non soltanto delle leggi e delle politiche dei paesi, ma anche delle norme culturali non scritte, del contesto etico e tradizionale. Di fronte al pluralismo giuridico oggettivo, Google sceglie di mostrarsi sensibile alle “culture locali” e quindi ai sentimenti dei suoi utenti, ma si riserva di decidere, non riconoscendo al governo di nessun paese l’autorità di imporre la sua linea di comportamento.
Il governo mondiale della libertà di pensiero è in mano a chi ha il potere di esercitare questa libertà. Ci troviamo di fronte a un caso esemplare di che cosa significhi “società civile globale”, un dominio di relazioni private che sta al di fuori e in questo caso anche sopra ai singoli governi, i quali mentre esercitano l’autorità sovrana di fare leggi nei loro paesi, non hanno il potere, materiale e giuridico, per interferire sulle decisioni di una compagnia multinazionale, il cui mercato e la cui azione sono globali. Non è forse lo stesso per i diritti dei mercati? Non è forse vero che gli interessi dei mercati finanziari hanno il potere di respingere e addirittura cambiare le decisioni politiche dei governi? Perché la lex mercatoria non fa scandalo quando opera a difesa della società economica globale mentre la rivendicazione della libertà di pensiero e della sua autoregolazione da parte di Google produce tanto scalpore? Google rivendica la sua autorità di governo su questa materia, di curarsi direttamente di monitorare le circostanze, paese per paese, nelle quali operare. Di non subire le leggi dei paesi, nemmeno degli Stati Uniti, dove la compagnia ha sede. Come ogni compagnia multinazionale non è di nessun paese. Ed è questo che indispettisce l’amministrazione statunitense. Google è una cosa a sé, un “paese” a sé quando si tratta di prendere decisioni su che cosa produrre, pubblicare e censurare. E alle critiche che sono piovute dall’opinione pubblica globale Google ha così risposto: «A Google noi nutriamo un pregiudizio (bias) in favore dei diritti della gente alla libera espressione in tutto ciò che facciamo… ma riconosciamo anche che la libertà di espressione non deve o non dovrebbe essere senza limiti. La difficoltà consiste nel decidere dove porre questi limiti ». Una sfida che Google tuttavia non vuol demandare alle autorità dello Stato, di nessuno Stato. È la libertà civile, che vale per i singoli come per le compagnie come Google, a ispirare questa decisione. I governi degli Stati (democratici e no) possono non essere contenti, anzi criticano duramente questa dichiarazione di autonomia decisionale di Google, ma le organizzazioni per i diritti civili, le organizzazioni non profit per la libertà tecnologica e le libertà civili digitali (il Center for Democracy and Technology, per esempio) non possono che essere dalla parte di Google. E così, malgrado gli inviti della presidenza americana, e le promesse in un primo momento di far sparire il video, Google, che controlla il portale come un editore controlla il suo giornale, ha deciso di tenere comunque online il film blasfemo, censurandolo solo in 45 Paesi arabi. Questa decisione viene criticata da quasi tutti i mezzi di informazione. Ma se difendiamo la libertà di Google quando il governo cinese lo oscura per impedire che i suoi sudditi non si scambino idee che non piacciono al potere, se abbiamo difeso la libertà dei giornali italiani contro i tentativi del governo Berlusconi di imbavagliarli, se temiamo e denunciamo ogni intervento repressivo o censorio, come possiamo stupirci che Google si faccia arbitro della sua libertà di parola ed espressione?
Certo, alcuni paesi più di altri regolano la libertà di stampa e di parola, ma nessuno può negare che i più liberi sono quei paesi dove lo Stato accampa meno ragioni di intervento e censura, e dove le corti meglio salvaguardano i diritti civili. L’Italia democratica ha assistito al rogo di Ultimo tango a Parigi, ha sottoposto per decenni pellicole e opere d’arte al giudizio di un ufficio di censura ispirato ai valori religiosi e della pubblica “decenza”. Non possiamo onestamente dire che quella libertà sotto tutela era soddisfacente. Non c’è quindi alternativa all’uso della ragione prudente per risolvere problemi molto controversi caso per caso, senza mettere in discussione i diritti civili fondamentali – ed è proprio per questo che i dirigenti di Google si sono dati regole e norme che riescano a tenere insieme libertà e contesto, principio e cultura locale. Se non che, quella stessa cultura locale nel nome della quale ora si chiede la censura del video di Google, comunica grazie a Google e alle tecnologie digitali, ha bisogno di Google… anche per attaccare ciò che Google rende pubblico.
La Repubblica 20.09.12
"La democrazia degli oligarchi", di Michele Prospero
È da tempo che influenti ambienti finanziari ed economici nutrono timori sull’impatto della ripresa del conflitto politico dopo la stagione della tecnica. Oltre qualche accenno di tifo per il Monti bis finora non si sono spinti. Sergio Fabbrini (su Il Sole 24 Ore di ieri) scopre invece le carte («Le elezioni potrebbero costituire un grande rischio politico») e prova a dare una base teorica alla richiesta di allestire una democrazia protetta dal rischio di un soprassalto di barbarie populista. È certo legittima (come negarlo?) la preoccupazione. Basta aver sbirciato le foto delle pacchiane feste in abiti antico greci degli statisti raccolti attorno alla Polverini. Il problema storico-politico è però di capire come mai la scomparsa dei partiti abbia prodotto la proliferazione in molti ambiti locali, e non solo, di degenerazioni che nulla hanno di politico e che molto somigliano ad un affarismo volgare penetrato nelle pieghe di una società civile dedita alla conquista dello Stato per sole ragioni di lucro.
Le oligarchie economiche non possono far finta di nulla dinanzi alle perversioni di un antico populismo che, quando accede al governo, assume le sembianze di una cricca del malaffare. E quindi non devono ignorare che in questa seconda Repubblica si è prodotto un gigantesco ricambio di personale politico con l’ingresso nelle amministrazioni di un nuovo ceto, reclutato nelle imprese, nel commercio, negli studi professionali. È evidente che in Italia non potrà ripresentarsi una politica autorevole senza aver prima spezzato il vizio per affari di un vasto ceto politico senza partito, sul quale molti dei potentati economici oggi in angoscia avevano scommesso per il recupero di efficienza, trasparenza, buongoverno.
Che i settori forti dell’economia tremino dinanzi al saccheggio della sfera pubblica condotto proprio dal degenere micro aziendalismo populista aggrappato voracemente al potere, è anche l’indizio di un cenno di autocritica. C’è davvero il rischio di un ritorno del comico che sbraita contro il rigore e contro l’euro pur di risalire nei sondaggi. Dinanzi a questi scenari, i poteri forti si mostrano turbati ma non hanno il coraggio di assumere delle iniziative risolute in vista di una opera di ricostruzione nazionale. E quindi accarezzano il fanciullino di una nuova antipolitica blasfema oppure mitizzano la tecnica vista come unica garanzia di sobrietà e di rigore. Così però le ricche élite dominanti continuano ad essere parte del problema, non certo la soluzione.
L’establishment se davvero vuole pesare in un modo costruttivo nella transizione in corso non può coltivare la visione regressiva di una politica affidata a un nuovo imprenditore o appaltata ai tecnici amici. Se davvero il populismo spaventa così tanto, allora i ceti economici più potenti dovrebbero abituarsi a convivere con dei partiti normali, ricostruiti attorno all’asse destra-sinistra. Il populismo nasce proprio da una carenza di rappresentanza e da una opacità della mediazione sociale. Il guaio dei tecnici è che non ridefiniscono i canali di una rappresentanza e nel loro operato trascurano le ragioni della mediazione. E quindi proprio i tecnici finiscono per essere degli organici rigeneratori del populismo. Lo sono in modo strutturale nella misura in cui lasciano un vuoto di mediazione.
Invece di reagire in maniera isterica contro il sovversivismo neo-socialdemocratico in arrivo, i poteri forti dovrebbero riconciliarsi con il laboratorio politico europeo e quindi apprendere che una sinistra popolare esiste ovunque. Quindi, se si intende stare nel solco di un interesse generale, è il caso di smetterla di civettare con i comici dell’antipolitica o di coltivare dei suicidi miti tecnocratici. Invece dei sogni tardo platonici per il governo dei guardiani che lascerebbe nelle piazze solo risentimento e rifiuto, i poteri forti dell’impresa, dell’amministrazione dovrebbero acquisire la consapevolezza che una sinistra che recupera capacità di rappresentazione, radicamento, base sociale è una garanzia per la tenuta della democrazia nel suo complesso. La sinistra è in tal senso un bene comune. Il populismo antipolitico vince solo se la sinistra perde le radici nel disagio della società postmoderna.
Questo aggancio con il lavoro non comporta affatto un oscuro regno dell’incompetenza. La politica ha delle forti componenti tecniche, non può certo prescindere da analisi approfondite. Ma proprio questo ramo culturale della politica evoca il ritorno di grandi partiti e non autorizza certo la fuga nella tecnica o le seduzioni per i campioncini della facile comunicazione. Per questo pare bizzarra la proposta di Fabbrini di obbligare i partiti a far valutare i loro programmi politici da una commissione di esperti stranieri perché «il cittadino non può disporre di competenze». Su queste fragili basi non si recupera una politica robusta, innervata nei saperi e insediata nelle trame reali della società. E quindi si agevola il populismo tanto temuto.
L’Unità 20.09.12
"La democrazia degli oligarchi", di Michele Prospero
È da tempo che influenti ambienti finanziari ed economici nutrono timori sull’impatto della ripresa del conflitto politico dopo la stagione della tecnica. Oltre qualche accenno di tifo per il Monti bis finora non si sono spinti. Sergio Fabbrini (su Il Sole 24 Ore di ieri) scopre invece le carte («Le elezioni potrebbero costituire un grande rischio politico») e prova a dare una base teorica alla richiesta di allestire una democrazia protetta dal rischio di un soprassalto di barbarie populista. È certo legittima (come negarlo?) la preoccupazione. Basta aver sbirciato le foto delle pacchiane feste in abiti antico greci degli statisti raccolti attorno alla Polverini. Il problema storico-politico è però di capire come mai la scomparsa dei partiti abbia prodotto la proliferazione in molti ambiti locali, e non solo, di degenerazioni che nulla hanno di politico e che molto somigliano ad un affarismo volgare penetrato nelle pieghe di una società civile dedita alla conquista dello Stato per sole ragioni di lucro.
Le oligarchie economiche non possono far finta di nulla dinanzi alle perversioni di un antico populismo che, quando accede al governo, assume le sembianze di una cricca del malaffare. E quindi non devono ignorare che in questa seconda Repubblica si è prodotto un gigantesco ricambio di personale politico con l’ingresso nelle amministrazioni di un nuovo ceto, reclutato nelle imprese, nel commercio, negli studi professionali. È evidente che in Italia non potrà ripresentarsi una politica autorevole senza aver prima spezzato il vizio per affari di un vasto ceto politico senza partito, sul quale molti dei potentati economici oggi in angoscia avevano scommesso per il recupero di efficienza, trasparenza, buongoverno.
Che i settori forti dell’economia tremino dinanzi al saccheggio della sfera pubblica condotto proprio dal degenere micro aziendalismo populista aggrappato voracemente al potere, è anche l’indizio di un cenno di autocritica. C’è davvero il rischio di un ritorno del comico che sbraita contro il rigore e contro l’euro pur di risalire nei sondaggi. Dinanzi a questi scenari, i poteri forti si mostrano turbati ma non hanno il coraggio di assumere delle iniziative risolute in vista di una opera di ricostruzione nazionale. E quindi accarezzano il fanciullino di una nuova antipolitica blasfema oppure mitizzano la tecnica vista come unica garanzia di sobrietà e di rigore. Così però le ricche élite dominanti continuano ad essere parte del problema, non certo la soluzione.
L’establishment se davvero vuole pesare in un modo costruttivo nella transizione in corso non può coltivare la visione regressiva di una politica affidata a un nuovo imprenditore o appaltata ai tecnici amici. Se davvero il populismo spaventa così tanto, allora i ceti economici più potenti dovrebbero abituarsi a convivere con dei partiti normali, ricostruiti attorno all’asse destra-sinistra. Il populismo nasce proprio da una carenza di rappresentanza e da una opacità della mediazione sociale. Il guaio dei tecnici è che non ridefiniscono i canali di una rappresentanza e nel loro operato trascurano le ragioni della mediazione. E quindi proprio i tecnici finiscono per essere degli organici rigeneratori del populismo. Lo sono in modo strutturale nella misura in cui lasciano un vuoto di mediazione.
Invece di reagire in maniera isterica contro il sovversivismo neo-socialdemocratico in arrivo, i poteri forti dovrebbero riconciliarsi con il laboratorio politico europeo e quindi apprendere che una sinistra popolare esiste ovunque. Quindi, se si intende stare nel solco di un interesse generale, è il caso di smetterla di civettare con i comici dell’antipolitica o di coltivare dei suicidi miti tecnocratici. Invece dei sogni tardo platonici per il governo dei guardiani che lascerebbe nelle piazze solo risentimento e rifiuto, i poteri forti dell’impresa, dell’amministrazione dovrebbero acquisire la consapevolezza che una sinistra che recupera capacità di rappresentazione, radicamento, base sociale è una garanzia per la tenuta della democrazia nel suo complesso. La sinistra è in tal senso un bene comune. Il populismo antipolitico vince solo se la sinistra perde le radici nel disagio della società postmoderna.
Questo aggancio con il lavoro non comporta affatto un oscuro regno dell’incompetenza. La politica ha delle forti componenti tecniche, non può certo prescindere da analisi approfondite. Ma proprio questo ramo culturale della politica evoca il ritorno di grandi partiti e non autorizza certo la fuga nella tecnica o le seduzioni per i campioncini della facile comunicazione. Per questo pare bizzarra la proposta di Fabbrini di obbligare i partiti a far valutare i loro programmi politici da una commissione di esperti stranieri perché «il cittadino non può disporre di competenze». Su queste fragili basi non si recupera una politica robusta, innervata nei saperi e insediata nelle trame reali della società. E quindi si agevola il populismo tanto temuto.
L’Unità 20.09.12
"La Rai in profondo rosso perdite per 200 milioni. Gubitosi: situazione grave", di Goffredo De Marchis
Una dolorosa operazione verità scopre il gigantesco buco della Rai. Peggiore di qualsiasi previsione, anche delle prime cifre fornite informalmente dal direttore generale Luigi Gubitosi. La perdita prevista per il 2012 raggiunge la cifra di 200 milioni. La semestrale presentata ieri dai vertici dell’azienda al consiglio di amministrazione è un bagno di sangue, che colpisce al cuore del gruppo se confrontata con i successi di ascolto di Viale Mazzini: in testa nel prime time con il 41,7 per cento di share, prima nell’intera giornata con il 40,3 per cento di share. Mediaset stracciata nella sfida del pubblico. Punte clamorose con la semifinale Italia-Germania degli Europei (23 milioni di spettatori, 80% di share) e con il festival di Sanremo (11 milioni di spettatori medi e 48% di share). Ma nell’esposizione nuda e cruda dei numeri fatta da Gubitosi naufragano le previsioni scoppiettanti illustrate dal predecessore Lorenza Lei alla commissione di Vigilanza il 29 febbraio: «Chiuderemo in sostanziale pareggio». Invece la Rai perde nel primo semestre 129 milioni con la prospettiva di sfondare quota 200 alla fine dell’anno.
Eppure una “rosso” secco si poteva già allora mettere nel conto: sono gli onerosi diritti sportivi che la Rai ha pagato quest’anno per Europei e Olimpiadi. In totale, 101,5 milioni che erano ampiamente previsti. Quello che invece ha spiazzato presidente e direttore generale appena arrivati nella tv di Stato è stato il crollo pubblicitario, seppure a fronte di ottimi risultati di audience. La crisi ha influito, certo. Ma il siluramento dell’amministratore delegato della Sipra Aldo Reali non è arrivato per caso. Semmai ha stupito molti che al suo posto Gubitosi abbia scelto la Lei, ossia la persona che ha gestito il “fallimento” del bilancio 2012.
Nel primo semestre la Rai ha incassato con gli spot venduti dalla Sipra 435 milioni, meno 71,6 rispetto al 2011, con una percentuale di ricavi inferiori del 14,1 per cento. La concorrente Mediaset, nello stesso periodo, con ascolti molto inferiori, ha dragato sul mercato pubblicità per circa 1,2 miliardi, con un calo dell’11 per cento. I dati forniti dal professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e responsabile dello studio Frasi, mostrano un confronto molto negativo e per molti versi ingiustificato. A Viale Mazzini ha perso più di tutti Raidue con un crollo di spot del 24 per cento. E sui canali generalisti (i primi tre) il paragone con Cologno Monzese è ancora più impietoso: meno 16,3 per cento. Sono numeri che il consigliere del Pd Nino Rizzo Nervo aveva denunciato all’inizio dell’anno, finendo per dimettersi prima della scadenza del vecchio cda.
Gubitosi ha spedito i grafici dei conti a tutti gli 11569 dipendenti a tempo indeterminato e ai 1660 collaboratori con contratto a tempo determinato. Un implicito appello al senso di responsabilità. Nel cda di ieri il direttore generale non ha parlato delle misure per risanare il bilancio. Le idee “macroeconomiche” le tiene per sé. Cerca soluzioni strutturali, che non si limitino ai tagli. Riforme definitive, sul modello del governo tecnico. Ma ha confidato alcune “certezze” sul futuro della Rai. Non saranno cancellate o ridimensionate in maniera corposa come prevedeva la Lei le sedi estere. Gubitosi pensa a una televisione globale e non vuole impoverirla. Non c’è un piano di esuberi. Ma c’è da adesso in poi la flessibilità sul salario soprattutto quello dei dirigenti. Con una parte fissa e una variabile, formula già accettata dal neodirettore di RaiFiction Eleonora Andreatta. Ieri Gubitosi ha chiamato alla Rai due nuovi collaboratori. Camillo Rossotto diventa direttore finanziario. Viene dalla Fiat dove ha lavorato a lungo con il dg. Costanza Esclapon, già alla Wind con Gubitosi, diventa direttore delle relazioni esterne, al posto di Guido Paglia, dirigente apprezzato in maniera bipartisan che va in pensione. Adesso i nuovi vertici sono attesi alla prova del risanamento e non solo. Uno dei prossimi passaggi, delicatissimo e sotto i riflettori della politica e dell’opinione pubblica, è la scelta del direttore del Tg1.
Vale a dire del giornalista che in piena campagna elettorale gestirà la macchina informativa più seguita del Paese. L’attuale guida della testata, Alberto Maccari, ha un contratto in scadenza a dicembre e non sarà riconfermato.
La Repubblica 20.09.12
"La Rai in profondo rosso perdite per 200 milioni. Gubitosi: situazione grave", di Goffredo De Marchis
Una dolorosa operazione verità scopre il gigantesco buco della Rai. Peggiore di qualsiasi previsione, anche delle prime cifre fornite informalmente dal direttore generale Luigi Gubitosi. La perdita prevista per il 2012 raggiunge la cifra di 200 milioni. La semestrale presentata ieri dai vertici dell’azienda al consiglio di amministrazione è un bagno di sangue, che colpisce al cuore del gruppo se confrontata con i successi di ascolto di Viale Mazzini: in testa nel prime time con il 41,7 per cento di share, prima nell’intera giornata con il 40,3 per cento di share. Mediaset stracciata nella sfida del pubblico. Punte clamorose con la semifinale Italia-Germania degli Europei (23 milioni di spettatori, 80% di share) e con il festival di Sanremo (11 milioni di spettatori medi e 48% di share). Ma nell’esposizione nuda e cruda dei numeri fatta da Gubitosi naufragano le previsioni scoppiettanti illustrate dal predecessore Lorenza Lei alla commissione di Vigilanza il 29 febbraio: «Chiuderemo in sostanziale pareggio». Invece la Rai perde nel primo semestre 129 milioni con la prospettiva di sfondare quota 200 alla fine dell’anno.
Eppure una “rosso” secco si poteva già allora mettere nel conto: sono gli onerosi diritti sportivi che la Rai ha pagato quest’anno per Europei e Olimpiadi. In totale, 101,5 milioni che erano ampiamente previsti. Quello che invece ha spiazzato presidente e direttore generale appena arrivati nella tv di Stato è stato il crollo pubblicitario, seppure a fronte di ottimi risultati di audience. La crisi ha influito, certo. Ma il siluramento dell’amministratore delegato della Sipra Aldo Reali non è arrivato per caso. Semmai ha stupito molti che al suo posto Gubitosi abbia scelto la Lei, ossia la persona che ha gestito il “fallimento” del bilancio 2012.
Nel primo semestre la Rai ha incassato con gli spot venduti dalla Sipra 435 milioni, meno 71,6 rispetto al 2011, con una percentuale di ricavi inferiori del 14,1 per cento. La concorrente Mediaset, nello stesso periodo, con ascolti molto inferiori, ha dragato sul mercato pubblicità per circa 1,2 miliardi, con un calo dell’11 per cento. I dati forniti dal professor Francesco Siliato, docente al Politecnico di Milano e responsabile dello studio Frasi, mostrano un confronto molto negativo e per molti versi ingiustificato. A Viale Mazzini ha perso più di tutti Raidue con un crollo di spot del 24 per cento. E sui canali generalisti (i primi tre) il paragone con Cologno Monzese è ancora più impietoso: meno 16,3 per cento. Sono numeri che il consigliere del Pd Nino Rizzo Nervo aveva denunciato all’inizio dell’anno, finendo per dimettersi prima della scadenza del vecchio cda.
Gubitosi ha spedito i grafici dei conti a tutti gli 11569 dipendenti a tempo indeterminato e ai 1660 collaboratori con contratto a tempo determinato. Un implicito appello al senso di responsabilità. Nel cda di ieri il direttore generale non ha parlato delle misure per risanare il bilancio. Le idee “macroeconomiche” le tiene per sé. Cerca soluzioni strutturali, che non si limitino ai tagli. Riforme definitive, sul modello del governo tecnico. Ma ha confidato alcune “certezze” sul futuro della Rai. Non saranno cancellate o ridimensionate in maniera corposa come prevedeva la Lei le sedi estere. Gubitosi pensa a una televisione globale e non vuole impoverirla. Non c’è un piano di esuberi. Ma c’è da adesso in poi la flessibilità sul salario soprattutto quello dei dirigenti. Con una parte fissa e una variabile, formula già accettata dal neodirettore di RaiFiction Eleonora Andreatta. Ieri Gubitosi ha chiamato alla Rai due nuovi collaboratori. Camillo Rossotto diventa direttore finanziario. Viene dalla Fiat dove ha lavorato a lungo con il dg. Costanza Esclapon, già alla Wind con Gubitosi, diventa direttore delle relazioni esterne, al posto di Guido Paglia, dirigente apprezzato in maniera bipartisan che va in pensione. Adesso i nuovi vertici sono attesi alla prova del risanamento e non solo. Uno dei prossimi passaggi, delicatissimo e sotto i riflettori della politica e dell’opinione pubblica, è la scelta del direttore del Tg1.
Vale a dire del giornalista che in piena campagna elettorale gestirà la macchina informativa più seguita del Paese. L’attuale guida della testata, Alberto Maccari, ha un contratto in scadenza a dicembre e non sarà riconfermato.
La Repubblica 20.09.12
