attualità, politica italiana

"La democrazia degli oligarchi", di Michele Prospero

È da tempo che influenti ambienti finanziari ed economici nutrono timori sull’impatto della ripresa del conflitto politico dopo la stagione della tecnica. Oltre qualche accenno di tifo per il Monti bis finora non si sono spinti. Sergio Fabbrini (su Il Sole 24 Ore di ieri) scopre invece le carte («Le elezioni potrebbero costituire un grande rischio politico») e prova a dare una base teorica alla richiesta di allestire una democrazia protetta dal rischio di un soprassalto di barbarie populista. È certo legittima (come negarlo?) la preoccupazione. Basta aver sbirciato le foto delle pacchiane feste in abiti antico greci degli statisti raccolti attorno alla Polverini. Il problema storico-politico è però di capire come mai la scomparsa dei partiti abbia prodotto la proliferazione in molti ambiti locali, e non solo, di degenerazioni che nulla hanno di politico e che molto somigliano ad un affarismo volgare penetrato nelle pieghe di una società civile dedita alla conquista dello Stato per sole ragioni di lucro.
Le oligarchie economiche non possono far finta di nulla dinanzi alle perversioni di un antico populismo che, quando accede al governo, assume le sembianze di una cricca del malaffare. E quindi non devono ignorare che in questa seconda Repubblica si è prodotto un gigantesco ricambio di personale politico con l’ingresso nelle amministrazioni di un nuovo ceto, reclutato nelle imprese, nel commercio, negli studi professionali. È evidente che in Italia non potrà ripresentarsi una politica autorevole senza aver prima spezzato il vizio per affari di un vasto ceto politico senza partito, sul quale molti dei potentati economici oggi in angoscia avevano scommesso per il recupero di efficienza, trasparenza, buongoverno.
Che i settori forti dell’economia tremino dinanzi al saccheggio della sfera pubblica condotto proprio dal degenere micro aziendalismo populista aggrappato voracemente al potere, è anche l’indizio di un cenno di autocritica. C’è davvero il rischio di un ritorno del comico che sbraita contro il rigore e contro l’euro pur di risalire nei sondaggi. Dinanzi a questi scenari, i poteri forti si mostrano turbati ma non hanno il coraggio di assumere delle iniziative risolute in vista di una opera di ricostruzione nazionale. E quindi accarezzano il fanciullino di una nuova antipolitica blasfema oppure mitizzano la tecnica vista come unica garanzia di sobrietà e di rigore. Così però le ricche élite dominanti continuano ad essere parte del problema, non certo la soluzione.
L’establishment se davvero vuole pesare in un modo costruttivo nella transizione in corso non può coltivare la visione regressiva di una politica affidata a un nuovo imprenditore o appaltata ai tecnici amici. Se davvero il populismo spaventa così tanto, allora i ceti economici più potenti dovrebbero abituarsi a convivere con dei partiti normali, ricostruiti attorno all’asse destra-sinistra. Il populismo nasce proprio da una carenza di rappresentanza e da una opacità della mediazione sociale. Il guaio dei tecnici è che non ridefiniscono i canali di una rappresentanza e nel loro operato trascurano le ragioni della mediazione. E quindi proprio i tecnici finiscono per essere degli organici rigeneratori del populismo. Lo sono in modo strutturale nella misura in cui lasciano un vuoto di mediazione.
Invece di reagire in maniera isterica contro il sovversivismo neo-socialdemocratico in arrivo, i poteri forti dovrebbero riconciliarsi con il laboratorio politico europeo e quindi apprendere che una sinistra popolare esiste ovunque. Quindi, se si intende stare nel solco di un interesse generale, è il caso di smetterla di civettare con i comici dell’antipolitica o di coltivare dei suicidi miti tecnocratici. Invece dei sogni tardo platonici per il governo dei guardiani che lascerebbe nelle piazze solo risentimento e rifiuto, i poteri forti dell’impresa, dell’amministrazione dovrebbero acquisire la consapevolezza che una sinistra che recupera capacità di rappresentazione, radicamento, base sociale è una garanzia per la tenuta della democrazia nel suo complesso. La sinistra è in tal senso un bene comune. Il populismo antipolitico vince solo se la sinistra perde le radici nel disagio della società postmoderna.
Questo aggancio con il lavoro non comporta affatto un oscuro regno dell’incompetenza. La politica ha delle forti componenti tecniche, non può certo prescindere da analisi approfondite. Ma proprio questo ramo culturale della politica evoca il ritorno di grandi partiti e non autorizza certo la fuga nella tecnica o le seduzioni per i campioncini della facile comunicazione. Per questo pare bizzarra la proposta di Fabbrini di obbligare i partiti a far valutare i loro programmi politici da una commissione di esperti stranieri perché «il cittadino non può disporre di competenze». Su queste fragili basi non si recupera una politica robusta, innervata nei saperi e insediata nelle trame reali della società. E quindi si agevola il populismo tanto temuto.
L’Unità 20.09.12