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"Ricchi contro ricchi, con meno soldi il capitalismo va in tilt", di Ettore Livini

Miscrospie e registrazioni clandestine. Documenti riservatissimi che, come in un film di 007, finiscono dritti dritti su Indymedia, il sito dell’antagonismo tricolore. Più insulti a gogò — «arzilli vecchietti», «furbetti cosmopoliti» e «livorosa controfigura di Sgarbi» le ultime perle — e regolamenti di conti da Far West tra manager e imprenditori legati fino a poco tempo fa da sodalizi decennali. Le stanze ovattate del “salotto buono” dove per anni i Paperoni tricolori hanno scritto nel massimo riserbo (e a loro uso e consumo) la storia della finanza nazionale non esistono più. Tra i miliardari — o presunti tali — d’Italia volano gli stracci come in un’assemblea di condominio. Ricchi contro ricchi. Tutti contro tutti. In una partita destinata a ridisegnare nei prossimi mesi la mappa del potere economico (e in parte anche politico) del nostro paese.
Questi scontri, intendiamoci, non sono una novità. La storia del capitalismo tricolore è stata segnata da battaglie cruente in cui non si sono fatti prigionieri. Ma in silenzio e senza titoli sui giornali se non a partita chiusa. Cesare Romiti, sostenuto da Enrico Cuccia, il templare del riservatissimo e ormai defunto sistema di relazioni italiano, è stato protagonista di un lungo e cruento braccio di ferro (vinto) con Umberto Agnelli per il vertice della Fiat. E nemmeno l’Avvocato, con tutto il suo charme e il suo carisma, è riuscito allora a salvare il fratello.
Scontri tra giganti. Come l’interminabile partita a scacchi tra Cuccia e Romano Prodi negli anni ’90 per il controllo di Comit e Credito Italiano, le due ex-Bin. Consumata a corrente alternata tra silenziose coltellate alle spalle, arrocchi, presunti tradimenti (come quelli dei Bragiotti, con il giovane Gerardo licenziato in tronco da Mediobanca mentre stava per partire per i Caraibi) e, alla fine, la vittoria ai punti per l’ex presidente del consiglio.
Altri tempi e altro stile. Niente urla. I panni sporchi lavati tra le mura di casa in un mondo dove i soldi (spesso quelli delle banche, appunto) non mancavano. Con rare eccezioni come lo scontro tra Carlo De Benedetti (editore de La Repubblica) e Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. O l’agguato teso dalla Fiat alla Mediobanca di Vincenzo Maranghi poco dopo la morte di Cuccia sulla Edison.
Oggi è cambiato tutto. Senza telecamere, taccuino e riflettori non si muove nessuno. Lo stesso Romiti, perso l’aplomb d’antan, consuma in un libro di ricordi e davanti alle telecamere di “Che tempo che fa” le sue vendette personali («Montezemolo? Bugiardo come Berlusconi, l’unica differenza è che uno ha i capelli e l’altro no»). E il Maradona di questa partita, non a caso, è Diego Della Valle, il più mediatico e istintivo degli imprenditori di casa nostra. Il suo attacco a John Elkann e Sergio Marchionne – i “furbetti cosmpoliti” di cui sopra – è solo la punta dell’iceberg. Senza Cuccia a tener assieme il sistema e senza i soldi delle banche per cementare scatole cinesi e patti di sindacato, il capitalismo senza soldi (o con quelli degli altri) che ha spadroneggiato per anni a Piazza Affari è andato in tilt, scatenando una guerra dove i conti non si fanno più con il fioretto ma con la spada.
L’elenco dei sanguinosi “derby” del salotto buono in corso sulla pubblica piazza e senza esclusione di colpi è da brividi. «Articolo quinto, chi ha i soldi ha vinto», diceva Cuccia. La regola vale anche oggi nella guerra tra miliardari. Della Valle – lo “scarparo” come l’hanno poco affettuosamente soprannominato i suoi molti nemici – ha ammucchiato una fortuna grazie a giacche e scarpe a pallini. E cavalcando questo arsenale ha guidato a suon di dichiarazioni al vetriolo il blitz in Generali contro Cesare Geronzi, l’ex onnipotente numero uno della Banca di Roma da lui degradato al ruolo di «arzillo vecchietto».
Lo stesso vale per Leonardo Del Vecchio, seduto su un immenso patrimonio grazie alla sua Luxottica. E’ stato lui, non a caso, a liquidare con un’intervista alla vigilia dell’assemblea delle Generali l’ad Giovanni Perissinotto, costringendo il numero uno di Mediobanca Alberto Nagel, da sempre vicinissimo al manager del Leone, a dargli il benservito.
Il passato, quando il gioco si fa duro, non conta più. I Ligresti – sperperati i loro risparmi
(purtroppo anche quelli dei loro soci) in cavalli, villaggi in Sardegna, borsette e investimenti sbagliati – sono stati scaricati senza troppi complimenti dopo quarant’anni di affinità elettive proprio da Mediobanca. Un divorzio dalle tinte forti di un duello rusticano, condito dalle lacrime del capofamiglia Salvatore («minacciava il suicidio», assicura Nagel) e dalle manovre alla Tom Ponzi di Jonnella, figlia dell’ingegnere di Paternò, cablata come il cruscotto dello Shuttle per registrare di nascosto i suoi colloqui in Piazzetta Cuccia. Scene da melodramma, non fosse che in ballo c’era la Fonsai, seconda compagnia d’assicurazione italiana. Il miglio quadrato attorno a Piazza Affari, del resto, si è trasformato in una specie di giungla dove (forse per la prima volta) vale la legge del più forte e non quella delle relazioni. I Salini, outsider romani nel mondo delle grandi opere, hanno sfilato dopo una feroce battaglia a colpi di esposti e denunce l’Impregilo ai Gavio, ritenuti fino a ieri un’intoccabile “specie protetta” nello Zoosafari della Galassia del Nord. Un po’ come vedere il Sassuolo che batte la Juventus.
Questo clima da fine del mondo, o almeno di quel mondo, scatena del resto appetiti impensabili solo un anno fa. I liquidissimi Malacalza, parvenu (nell’ottica del salotto buono) di Bobbio, provincia di Piacenza, stanno provando a sfilare con due lire e metodi un po’ garibaldini la Pirelli a Marco Tronchetti Provera, ritenuto una volta per fascino e carisma l’erede naturale dell’avvocato Agnelli. E anche in questo caso il bon ton è andato a farsi benedire, con i verbali di cda e le lettere riservate tra le parti passate sottobanco a Indymedia e la tradizionale raffica di denunce incrociate in Procura.
Grande è la confusione sotto il cielo, direbbe Mao Tze Tung. In questa Italia un po’ fluida dell’era dei debiti sovrani, economia e politica stanno cambiando pelle allo stesso momento. Forse non a caso al centro del grande risiko della finanza tricolore, oggi come sempre, c’è il Corriere della Sera.
Della Valle vorrebbe usare i suoi soldi per crescere in via Solferino e, guarda caso, Fiat e Mediobanca si sono messe di traverso in una sfida dove recitano come primattori pure Fonsai, Pirelli e i Gavio. I suoi attacchi al Lingotto hanno fatto scricchiolare persino lo storico legame d’amicizia con Luca Cordero di Montezemolo che, di suo, è indeciso tra Ferrari e Palazzi romani e per questo ha finito per litigare con il potenziale alleato Pierferdinando Casini. La guerra dei Paperoni italiani per ridisegnare il potere tricolore, insomma, è solo al primo tempo e promette ancora scintille. Sperando che a vincere, alla fine, non sia qualche Paperone straniero.

La Repubblica 16.09.12