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"Giocarsi tutto alle primarie", di Claudio Sardo

Non distruggere ma costruire. Non distruggere il lavoro, la scuola, le reti di solidarietà, le istituzioni democratiche, la speranza di un domani migliore, la fiducia nella politica come riscatto collettivo. Ma costruire insieme una svolta dopo il trentennio del liberismo, dell’ideologia mercatista, della diseguaglianza sociale. Siamo davanti a un bivio e dalla scelta di questi mesi dipenderà un intero ciclo storico. È una partita europea, non solo italiana. Ma senza il nostro Paese, la nostra forza produttiva e sociale, la nostra cultura, le nostre donne e i nostri uomini, le nostre battaglie, l’Europa sarà tremendamente più debole.
Purtroppo sono in tanti a scommettere sulla demolizione, sulla sfiducia, sulla delegittimazione. Il populismo di destra vuole annegare il proprio fallimento in una sconfitta generale del Paese. Il populismo che ha messo radici a sinistra vuole invece screditare ogni progetto riformatore per lucrare consensi sulle sofferenze sociali e la paura del futuro. Ma così la rabbia diventa sempre più disperata solitudine. Chissà se domani verrà un comico, un capo-popolo, un cavaliere bianco che catalizzerà il dissenso attorno a nuovi slogan smaglianti.
Di certo, abbiamo visto come finiscono queste avventure: a pagare i prezzi più alti sono sempre i più deboli. Nei Paesi dove la borghesia ha più senso dello Stato circolano maggiori anticorpi: da noi invece non di rado capita di incontrare strani minotauri, che per un verso applaudono il Grillo fustigatore della democrazia dei partiti e per l’altro verso inneggiano alla soluzione tecnocratica, al Monti-bis permanente.
Dare all’Italia un’alternativa politica è possibile. Anzi, è necessario. Di fronte ai berluscones che vogliono comprarsi anche La7, riducendo ulteriormente gli spazi di pluralismo. Di fronte ai Marchionne e alle drammatiche crisi aziendali che rischiano di distruggere, con la manifattura italiana, il lavoro di oggi e la speranza di domani. Di fronte ai tentativi ideologici di ridurre i diritti sociali anziché investire sull’innovazione, la qualità, la ricerca, i giovani. Di fronte alla corruzione che aumenta. Costruire un’alternativa politica richiede forza, umiltà, altruismo, lotta, capacità di ascoltare, intelligenza, prudenza, soprattutto coraggio. Richiede cultura della ricostruzione: perché il rinnovamento è diverso dal nuovismo e dal nichilismo, e la distanza etica è tanto più grande quanto il cambiamento delle politiche e degli uomini è diventato ineluttabile.
In questo percorso sono collocate le primarie organizzate dal Pd. Che Bersani ha voluto senza rete, assumendo tutti i rischi per sé e il suo partito, persino andando incontro ad incoerenze logiche e di sistema. Dal suo punto di vista, il rischio maggiore era l’autoreferenzialità del Pd, davanti alla disaffezione e al distacco crescente verso la politica. Se il Pd vuole candidarsi a guidare un governo di cambiamento politico deve fare di tutto per colmare questa sfiducia, per dare una dimensione popolare alla propria impresa. Deve rischiare tutto. Allargando l’opportunità democratica, mentre la scena pubblica continua ad essere occupata da partiti personali, da leader carismatici, da despota che non sopportano il dissenso e cercano di spacciare il loro autoritarismo come iper-democrazia. Nella modernità non c’è democrazia senza partiti: chi sostiene il contrario vuole imbrogliare i cittadini e renderli sempre più soli e disperati davanti al mercato e allo Stato. Ma costruire partiti rinnovati e corpi intermedi solidali è una sfida che mette in discussione oggi tutte le rendite di posizione. A cominciare da quelle delle attuali classi dirigenti.
Il problema è con quale cultura il Pd affronterà le primarie. E con quale cultura si presenterà subito dopo alle secondarie, cioè alle vere elezioni (speriamo con una legge elettorale nuova, che cancelli le storture insopportabili del Porcellum, dalle liste bloccate all’incostituzionale premio di coalizione senza limiti). La sfida di Renzi a Bersani, e quella di Vendola, e quella di altri dovranno mostrare da subito una cultura profondamente diversa rispetto ai canoni dell’ultimo decennio. Una diversità che, certo, comincia con le primarie, ma che non può ridursi alle sole primarie. Le primarie restano uno strumento, per quanto raro in un Paese che continua a produrre partiti proprietari. Un partito non si fonda sulle primarie, ma su un’idea di società, di giustizia, di tolleranza, di convivenza civile, di legalità, di redistribuzione del lavoro e della ricchezza, di mobilità sociale. Un partito si fonda anche sulla sicurezza e l’aperturta che sa garantire a tutti i cittadini, compresi quelli che non lo votano. Un partito può guidare la rimonta di un Paese se non promette ritorsioni, se non distribuisce odio, ma sa valorizzare le forze migliori, nelle istituzioni, nella società, nell’economia.
Le primarie per il Pd sono un’opportunità. Possono allargare il campo ad elettori che prima non votavano per il centrosinistra, ma possono anche importare lacerazioni devastanti. Il Pd mette in gioco se stesso. I candidati hanno grandi responsabilità. Le primarie non sono la fiera delle vanità, dove si corre per marcare un piccolo territorio e ipotecare domani una partita personale: in ballo c’è un bene più grande e importante per tutti, la rotta europea del prossimo decennio. Anziché fare le primarie che aveva promesso, la destra prova ora a giocare nelle primarie del Pd facendo il tifo per una disarticolazione. Anziché introdurre qualche minimo elemento di contendibilità nell’Idv o nel movimento di Grillo, i populisti di quelle parti fingono ora di mostrare interesse per i candidati outsider delle primarie. Sarebbe un errore reagire a queste offensive con una chiusura. Bisogna rispondere a testa alta e con spirito aperto: chi vota alle primarie del centrosinistra è moralmente impegnato a sostenere il candidato vincitore, chiunque esso sia. È l’etica dei democratici. Uno dei mattoni che sta alle fondamenta del progetto di ricostruzione.

L’Unità 16.09.12

"Giocarsi tutto alle primarie", di Claudio Sardo

Non distruggere ma costruire. Non distruggere il lavoro, la scuola, le reti di solidarietà, le istituzioni democratiche, la speranza di un domani migliore, la fiducia nella politica come riscatto collettivo. Ma costruire insieme una svolta dopo il trentennio del liberismo, dell’ideologia mercatista, della diseguaglianza sociale. Siamo davanti a un bivio e dalla scelta di questi mesi dipenderà un intero ciclo storico. È una partita europea, non solo italiana. Ma senza il nostro Paese, la nostra forza produttiva e sociale, la nostra cultura, le nostre donne e i nostri uomini, le nostre battaglie, l’Europa sarà tremendamente più debole.
Purtroppo sono in tanti a scommettere sulla demolizione, sulla sfiducia, sulla delegittimazione. Il populismo di destra vuole annegare il proprio fallimento in una sconfitta generale del Paese. Il populismo che ha messo radici a sinistra vuole invece screditare ogni progetto riformatore per lucrare consensi sulle sofferenze sociali e la paura del futuro. Ma così la rabbia diventa sempre più disperata solitudine. Chissà se domani verrà un comico, un capo-popolo, un cavaliere bianco che catalizzerà il dissenso attorno a nuovi slogan smaglianti.
Di certo, abbiamo visto come finiscono queste avventure: a pagare i prezzi più alti sono sempre i più deboli. Nei Paesi dove la borghesia ha più senso dello Stato circolano maggiori anticorpi: da noi invece non di rado capita di incontrare strani minotauri, che per un verso applaudono il Grillo fustigatore della democrazia dei partiti e per l’altro verso inneggiano alla soluzione tecnocratica, al Monti-bis permanente.
Dare all’Italia un’alternativa politica è possibile. Anzi, è necessario. Di fronte ai berluscones che vogliono comprarsi anche La7, riducendo ulteriormente gli spazi di pluralismo. Di fronte ai Marchionne e alle drammatiche crisi aziendali che rischiano di distruggere, con la manifattura italiana, il lavoro di oggi e la speranza di domani. Di fronte ai tentativi ideologici di ridurre i diritti sociali anziché investire sull’innovazione, la qualità, la ricerca, i giovani. Di fronte alla corruzione che aumenta. Costruire un’alternativa politica richiede forza, umiltà, altruismo, lotta, capacità di ascoltare, intelligenza, prudenza, soprattutto coraggio. Richiede cultura della ricostruzione: perché il rinnovamento è diverso dal nuovismo e dal nichilismo, e la distanza etica è tanto più grande quanto il cambiamento delle politiche e degli uomini è diventato ineluttabile.
In questo percorso sono collocate le primarie organizzate dal Pd. Che Bersani ha voluto senza rete, assumendo tutti i rischi per sé e il suo partito, persino andando incontro ad incoerenze logiche e di sistema. Dal suo punto di vista, il rischio maggiore era l’autoreferenzialità del Pd, davanti alla disaffezione e al distacco crescente verso la politica. Se il Pd vuole candidarsi a guidare un governo di cambiamento politico deve fare di tutto per colmare questa sfiducia, per dare una dimensione popolare alla propria impresa. Deve rischiare tutto. Allargando l’opportunità democratica, mentre la scena pubblica continua ad essere occupata da partiti personali, da leader carismatici, da despota che non sopportano il dissenso e cercano di spacciare il loro autoritarismo come iper-democrazia. Nella modernità non c’è democrazia senza partiti: chi sostiene il contrario vuole imbrogliare i cittadini e renderli sempre più soli e disperati davanti al mercato e allo Stato. Ma costruire partiti rinnovati e corpi intermedi solidali è una sfida che mette in discussione oggi tutte le rendite di posizione. A cominciare da quelle delle attuali classi dirigenti.
Il problema è con quale cultura il Pd affronterà le primarie. E con quale cultura si presenterà subito dopo alle secondarie, cioè alle vere elezioni (speriamo con una legge elettorale nuova, che cancelli le storture insopportabili del Porcellum, dalle liste bloccate all’incostituzionale premio di coalizione senza limiti). La sfida di Renzi a Bersani, e quella di Vendola, e quella di altri dovranno mostrare da subito una cultura profondamente diversa rispetto ai canoni dell’ultimo decennio. Una diversità che, certo, comincia con le primarie, ma che non può ridursi alle sole primarie. Le primarie restano uno strumento, per quanto raro in un Paese che continua a produrre partiti proprietari. Un partito non si fonda sulle primarie, ma su un’idea di società, di giustizia, di tolleranza, di convivenza civile, di legalità, di redistribuzione del lavoro e della ricchezza, di mobilità sociale. Un partito si fonda anche sulla sicurezza e l’aperturta che sa garantire a tutti i cittadini, compresi quelli che non lo votano. Un partito può guidare la rimonta di un Paese se non promette ritorsioni, se non distribuisce odio, ma sa valorizzare le forze migliori, nelle istituzioni, nella società, nell’economia.
Le primarie per il Pd sono un’opportunità. Possono allargare il campo ad elettori che prima non votavano per il centrosinistra, ma possono anche importare lacerazioni devastanti. Il Pd mette in gioco se stesso. I candidati hanno grandi responsabilità. Le primarie non sono la fiera delle vanità, dove si corre per marcare un piccolo territorio e ipotecare domani una partita personale: in ballo c’è un bene più grande e importante per tutti, la rotta europea del prossimo decennio. Anziché fare le primarie che aveva promesso, la destra prova ora a giocare nelle primarie del Pd facendo il tifo per una disarticolazione. Anziché introdurre qualche minimo elemento di contendibilità nell’Idv o nel movimento di Grillo, i populisti di quelle parti fingono ora di mostrare interesse per i candidati outsider delle primarie. Sarebbe un errore reagire a queste offensive con una chiusura. Bisogna rispondere a testa alta e con spirito aperto: chi vota alle primarie del centrosinistra è moralmente impegnato a sostenere il candidato vincitore, chiunque esso sia. È l’etica dei democratici. Uno dei mattoni che sta alle fondamenta del progetto di ricostruzione.
L’Unità 16.09.12

"Quei Ministri usciti dal libro di Calvino", di Luciano Gallino

Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento ». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione ».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.

La Repubblica 16.09.12

"Quei Ministri usciti dal libro di Calvino", di Luciano Gallino

Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento ». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione ».
Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».
A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra cosa.
Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.
In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.
Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.
La Repubblica 16.09.12

«Impossibile calcolare la ricerca», intervista al filosofo Tullio Gregory di Roberto Ciccarelli

Puzzle incomprensibili. Caos strisciante. Parvenus della ricerca. Questi, forse, sono i giudizi più benevoli espressi dalla comunità accademica sui criteri dell’Agenzia Nazionale della Valutazione (Anvur) che serviranno a giudicare i candidati all’abilitazione nazionale, il nuovo concorso che sta mettendo a soqquadro l’università. E che determineranno i futuri orientamenti della ricerca italiana assimilandola al mondo delle scuole di management e delle risorse umane.
Anche se non è certamente l’unica, la parte più esposta a questo processo è quella delle scienze umane, storico-sociali e giuridiche che denunciano il tentativo di assimilazione ad un sistema meritocratico che simula il funzionamento di un’agenzia di rating, più che il reale esercizio di un giudizio critico.
A Tullio Gregory, accademico dei Lincei, fondatore del Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee del Cnr, oltre che membro del comitato scientifico del Festival Filosofia di Modena chiediamo come funzionerà il nuovo sistema di valutazione centralistico, che molti hanno definito da «Unione Sovietica». «Lei è benevolo – risponde Gregory – Più che centralistico, quello dell’Anvur è un sistema aziendalistico, espressione di un potere incredibile, quello di valutare con criteri numerici oggettivi e quantitativi ciò che non può esserlo. Per loro, in filosofia, storia o nel diritto basta superare una “mediana” su tre, cioè avere pubblicato un minimo numero di libri o articoli in dieci anni per diventare commissari o presentarsi agli esami dell’abilitazione. A parte il fatto che un articolo non è paragonabile ad una monografia, in questa situazione chi ha impegnato dieci anni per completare un’edizione critica della Divina Commedia non ha il diritto di presentarsi al concorso. Un altro criterio per l’accesso al ruolo è la “capacità di attrarre finanziamenti competitivi”. Immagini quanto possa essere competitivo un professore di Sanscrito! Prima hanno scassato l’università con le riforme, adesso impongono queste misure. È una tristezza indescrivibile».
L’Anvur è il prodotto più autentico della riforma Gelmini. La mentalità di cui questa agenzia è il prodotto ispira anche le scelte del ministro Profumo. Ci aiuti a comprenderla.
La nascita di questa agenzia obbedisce ad una pretesa molto antica, quella di quantificare la qualità di un’attività scientifica. Un lavoro che ha impegnato da sempre logici e epistemologi, ma senza alcun risultato positivo. Leibniz scriveva in un frammento: «non discutiamo, calcoliamo». Il suo era un tentativo di tradurre i concetti in parametri formali. E da allora è stato lo sforzo compiuto da tutte le logiche formali che però non è mai andato in porto. Questo accade perché esistono molte logiche e non una sola, elemento trascurato dall’Anvur. Invocare questi precedenti sarebbe dare troppa importanza a questi valutatori che, più semplicemente, hanno ignorato alcuni dati di fatto.
Quali?
Tutte le grandi istituzioni scientifiche europee, i Lincei, l’Académie des sciences di Parigi, la European Science Foundation hanno messo in guardia contro l’applicazione meccanica dei criteri bibliometrici per valutare le pubblicazioni. La valutazione è un giudizio critico, un esercizio della ragione e non della macchina calcolatrice. Invece l’Anvur marcia sicura e affida la valutazione a quello che loro chiamano, con vocabolario aziendalistico, «prodotto» e non ricerca. Conta la quantità delle citazioni ricevute su alcune riviste censite da due società schiettamente commerciali, e non scientifiche, come Scopus e Isi, società che guadagnano sulle riviste che inseriscono in elenco e sulle richieste che ricevono. Queste citazioni possono essere anche stroncature. Non importa, ciò che conta è che il prodotto si venda, cioè venga citato.
La bibliometria è la panacea di tutti i mali dell’università. È il rimedio alla corruzione nei concorsi e premierà gli studiosi meritevoli?
Non sarà affatto così. La bibliometria è solo un esempio di una mentalità calcolatrice che si sta applicando a tutti i livelli dell’istruzione. Questa tendenza procede dai tempi dell’ottimo ministro Berlinguer, quando sono stati introdotti meccanicamente e stupidamente i crediti, pensando che i crediti equivalgano a ore di studio o di numeri di pagine. Oggi l’esame di maturità è il risultato di una somma di crediti accumulati in tre anni. Le commissioni possono attribuire solo 5 punti su 100 per assegnare il titolo. Praticamente è inutile farli. Il tutto può essere riassunto con una battuta di Boccaccio: «facessi un mare di teologia da far rincoglionir frate Cipolla». Hanno fatto un mare di numeri da far rincoglionire tutti quanti.

Il Manifesto 15.09.12

"Iscrizioni, il declino dei nuovi liceali", di Mariolina Iossa

Ai ragazzi non piace più soltanto il liceo. Se nel 2007 i tecnici e i professionali avevano perso centomila studenti nell’arco di dieci anni, e i licei avevano fatto il pienone, arrivando ad un 45 per cento di iscritti, la tendenza si sta ora invertendo, e da quest’anno il trend per i professionali torna in salita. Il balzo in avanti è dell’1,4 per cento di nuovi iscritti mentre i tecnici tengono la posizione, con un comunque positivo 0,4 per cento in più. I licei, che avevano continuato a riempirsi fino al 48,5 per cento dello scorso anno, scendono per la prima volta di quell’1,9 guadagnato dai tecnici e dai professionali, calando al 46,6 per cento.
La ripresa del numero di iscritti agli istituti tecnici e professionali, i primi al 32 per cento e i secondi al 21,4 per cento, è un segnale positivo secondo il ministero dell’Istruzione, che comunque parla di «buona tenuta» anche dei licei. Ieri sul sito del Miur sono stati pubblicati tutti i numeri di questo nuovo anno scolastico.
«C’è un’inversione di tendenza importante che noi dobbiamo cogliere e potenziare — spiega con soddisfazione il sottosegretario Elena Ugolini, da anni impegnata sui temi della formazione professionale —. A questo dato va aggiunto anche quello dei 50 mila nuovi iscritti ai corsi triennali di formazione professionale gestiti da centri accreditati dalle Regioni, che rappresentano un’importante terza via per continuare gli studi rispettando l’obbligo scolastico a 16 anni. Con i corsi triennali si chiude il percorso di studi professionali a 17 anni, quindi la formazione continua sino alle soglie della maturità».
In genere, continua Ugolini, «la formazione professionale non deve più essere considerata di serie B», e fa l’esempio della Germania, dove «da sempre la percentuale degli iscritti ai licei è molto più bassa rispetto a quella dell’istruzione superiore tecnica e professionale, una formazione fortemente qualificata che attrae molti ragazzi in gamba, i quali poi fanno esperienza nelle aziende e trovano lavoro».
Da noi questo succedeva più vent’anni fa, prima che tutti corressero ad iscriversi ai licei. «Il miracolo economico italiano — dice ancora Elena Ugolini — fu anche dovuto all’apporto dei diplomati tecnici e professionali che poi hanno messo su piccole aziende». Ciò non vuol dire che chi si iscrive al liceo è destinato ad essere disoccupato e chi sceglie i tecnici trova subito un posto.
Soprattutto la formazione professionale, prosegue il sottosegretario, «va rafforzata per attirare veramente un giovane appena uscito dalla scuola media e per dargli un futuro più certo. Il decreto semplificazione di questo governo all’articolo 52 prevede il potenziamento dell’istruzione tecnica e professionale. Il 26 settembre saranno pronte le linee guida».
Quanto ai licei, lo scientifico resta primo nel numero di iscritti, seguono linguistico, classico, scienze umane, artistico e musicale coreutico. In totale, gli studenti quest’anno sono quasi 8 milioni (7 milioni 862 mila 470), con un aumento rispetto allo scorso anno di 36 mila 238 tra bambini e ragazzi. Le classi sono 365 mila 255 e i posti in organico 625 mila 878. Gli oltre 750 mila studenti stranieri sono per il 44,2 per cento nati in Italia.
Luci e ombre, ammettono comunque al ministero. Se è vero che «per la prima volta dopo 10 anni i posti negli organici vengono completamente confermati», considerato l’aumento degli studenti «non è stato possibile compensare l’incremento demografico». Le classi sono quindi ancora troppo affollate. Notizia positiva: aumenta il tempo pieno, con mille 284 classi in più.

Il Corriere della Sera 16.09.12

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“Scuola, quasi 1 su 2 stranieri sono nati in Italia”, di Flavia Amabile

Per la prima volta gli studenti non sono in calo. I dati messi in rete dal Miur sugli studenti e le scuole di quest’anno scolatico portano questa novità. C’è anche un aumento del tempo pieno, delle iscrizioni nei tecnici e poi la conferma di una popolazione di stranieri nati in Italia sempre più numerosa, ragazzi e ragazze cresciuti nel nostro Paese a tutti gli effetti, fianco a fianco con i loro coetanei italiani pur non avendo la cittadinanza

Il 44,2% degli studenti stranieri è nato in Italia (334.284 in valore assoluto). I picchi assoluti sono in Lombardia e Veneto dove la metà degli studenti stranieri iscritti (il 50,9%) è nata in Italia.

Se gli studenti non sono più in calo si crea però il problema di trovare risorse per compensare l’incremento demografico con nuovi professori. A fronte di queste cifre, il numero delle classi rimane sostanzialmente stabile passando da 364.904 a 365.255 (+351). Una leggera crescita che consente, comunque, di limitare il fenomeno dell’affollamento delle classi.

Aumentano gli iscritti nei licei ma considerati gli studenti nel loro complesso la maggior parte dei nuovi iscritti ha scelto il settore dell’istruzione tecnica e professionale (53,4%), con un aumento rispetto allo scorso anno dell’1,5% nell’istruzione professionale e dello 0,4% nell’istruzione tecnica. Gli indirizzi tecnici più gettonati sono ‘Amministrazione finanze e marketing’ (31%), ‘Informatica e telecomunicazioni’ (14%), ‘Elettronica ed elettrotecnica’ (10%) e ‘Turismo’ (10%). Nell’istruzione professionale la maggior parte delle scelte è ricaduta sull’indirizzo ‘Enogastronomia e Ospitalità alberghiera’ (40%). Seguono ‘Manutenzione e assistenza tecnica’ (14%), ‘Servizi socio-sanitari, odontotecnico, ottico’ (12%), ‘Servizi commerciali’ (11%).

Aumentano le classi a tempo pieno che passano dalle 38.386 dell’anno scolastico 2011/2012 a 39.670 dell’anno appena iniziato. L’aumento dunque è pari a 1.284 classi. Se quindi diminuisce leggermente il totale delle classi della scuola primaria (dalle 132.270 dello scorso anno alle 132.193 di quest’anno), aumentano quelle in cui è attivato il tempo pieno.

Infine, il 15% dei presidi è anche reggente cioè ha almeno un altro istituto di cui occuparsi.

La Stampa 16.09.12

"Iscrizioni, il declino dei nuovi liceali", di Mariolina Iossa

Ai ragazzi non piace più soltanto il liceo. Se nel 2007 i tecnici e i professionali avevano perso centomila studenti nell’arco di dieci anni, e i licei avevano fatto il pienone, arrivando ad un 45 per cento di iscritti, la tendenza si sta ora invertendo, e da quest’anno il trend per i professionali torna in salita. Il balzo in avanti è dell’1,4 per cento di nuovi iscritti mentre i tecnici tengono la posizione, con un comunque positivo 0,4 per cento in più. I licei, che avevano continuato a riempirsi fino al 48,5 per cento dello scorso anno, scendono per la prima volta di quell’1,9 guadagnato dai tecnici e dai professionali, calando al 46,6 per cento.
La ripresa del numero di iscritti agli istituti tecnici e professionali, i primi al 32 per cento e i secondi al 21,4 per cento, è un segnale positivo secondo il ministero dell’Istruzione, che comunque parla di «buona tenuta» anche dei licei. Ieri sul sito del Miur sono stati pubblicati tutti i numeri di questo nuovo anno scolastico.
«C’è un’inversione di tendenza importante che noi dobbiamo cogliere e potenziare — spiega con soddisfazione il sottosegretario Elena Ugolini, da anni impegnata sui temi della formazione professionale —. A questo dato va aggiunto anche quello dei 50 mila nuovi iscritti ai corsi triennali di formazione professionale gestiti da centri accreditati dalle Regioni, che rappresentano un’importante terza via per continuare gli studi rispettando l’obbligo scolastico a 16 anni. Con i corsi triennali si chiude il percorso di studi professionali a 17 anni, quindi la formazione continua sino alle soglie della maturità».
In genere, continua Ugolini, «la formazione professionale non deve più essere considerata di serie B», e fa l’esempio della Germania, dove «da sempre la percentuale degli iscritti ai licei è molto più bassa rispetto a quella dell’istruzione superiore tecnica e professionale, una formazione fortemente qualificata che attrae molti ragazzi in gamba, i quali poi fanno esperienza nelle aziende e trovano lavoro».
Da noi questo succedeva più vent’anni fa, prima che tutti corressero ad iscriversi ai licei. «Il miracolo economico italiano — dice ancora Elena Ugolini — fu anche dovuto all’apporto dei diplomati tecnici e professionali che poi hanno messo su piccole aziende». Ciò non vuol dire che chi si iscrive al liceo è destinato ad essere disoccupato e chi sceglie i tecnici trova subito un posto.
Soprattutto la formazione professionale, prosegue il sottosegretario, «va rafforzata per attirare veramente un giovane appena uscito dalla scuola media e per dargli un futuro più certo. Il decreto semplificazione di questo governo all’articolo 52 prevede il potenziamento dell’istruzione tecnica e professionale. Il 26 settembre saranno pronte le linee guida».
Quanto ai licei, lo scientifico resta primo nel numero di iscritti, seguono linguistico, classico, scienze umane, artistico e musicale coreutico. In totale, gli studenti quest’anno sono quasi 8 milioni (7 milioni 862 mila 470), con un aumento rispetto allo scorso anno di 36 mila 238 tra bambini e ragazzi. Le classi sono 365 mila 255 e i posti in organico 625 mila 878. Gli oltre 750 mila studenti stranieri sono per il 44,2 per cento nati in Italia.
Luci e ombre, ammettono comunque al ministero. Se è vero che «per la prima volta dopo 10 anni i posti negli organici vengono completamente confermati», considerato l’aumento degli studenti «non è stato possibile compensare l’incremento demografico». Le classi sono quindi ancora troppo affollate. Notizia positiva: aumenta il tempo pieno, con mille 284 classi in più.
Il Corriere della Sera 16.09.12
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“Scuola, quasi 1 su 2 stranieri sono nati in Italia”, di Flavia Amabile
Per la prima volta gli studenti non sono in calo. I dati messi in rete dal Miur sugli studenti e le scuole di quest’anno scolatico portano questa novità. C’è anche un aumento del tempo pieno, delle iscrizioni nei tecnici e poi la conferma di una popolazione di stranieri nati in Italia sempre più numerosa, ragazzi e ragazze cresciuti nel nostro Paese a tutti gli effetti, fianco a fianco con i loro coetanei italiani pur non avendo la cittadinanza
Il 44,2% degli studenti stranieri è nato in Italia (334.284 in valore assoluto). I picchi assoluti sono in Lombardia e Veneto dove la metà degli studenti stranieri iscritti (il 50,9%) è nata in Italia.
Se gli studenti non sono più in calo si crea però il problema di trovare risorse per compensare l’incremento demografico con nuovi professori. A fronte di queste cifre, il numero delle classi rimane sostanzialmente stabile passando da 364.904 a 365.255 (+351). Una leggera crescita che consente, comunque, di limitare il fenomeno dell’affollamento delle classi.
Aumentano gli iscritti nei licei ma considerati gli studenti nel loro complesso la maggior parte dei nuovi iscritti ha scelto il settore dell’istruzione tecnica e professionale (53,4%), con un aumento rispetto allo scorso anno dell’1,5% nell’istruzione professionale e dello 0,4% nell’istruzione tecnica. Gli indirizzi tecnici più gettonati sono ‘Amministrazione finanze e marketing’ (31%), ‘Informatica e telecomunicazioni’ (14%), ‘Elettronica ed elettrotecnica’ (10%) e ‘Turismo’ (10%). Nell’istruzione professionale la maggior parte delle scelte è ricaduta sull’indirizzo ‘Enogastronomia e Ospitalità alberghiera’ (40%). Seguono ‘Manutenzione e assistenza tecnica’ (14%), ‘Servizi socio-sanitari, odontotecnico, ottico’ (12%), ‘Servizi commerciali’ (11%).
Aumentano le classi a tempo pieno che passano dalle 38.386 dell’anno scolastico 2011/2012 a 39.670 dell’anno appena iniziato. L’aumento dunque è pari a 1.284 classi. Se quindi diminuisce leggermente il totale delle classi della scuola primaria (dalle 132.270 dello scorso anno alle 132.193 di quest’anno), aumentano quelle in cui è attivato il tempo pieno.
Infine, il 15% dei presidi è anche reggente cioè ha almeno un altro istituto di cui occuparsi.
La Stampa 16.09.12