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"Spending, il bosone di Higgs non evita i tagli il 10% di risorse in meno ai suoi scopritori", di Elena Dusi

I successi della ricerca scientifica “danno lustro all’Italia”. E il governo li “premia” con un colpo d’ascia da 210 milioni nei finanziamenti dei prossimi tre anni. Neanche 24 ore prima il Presidente Giorgio Napolitano aveva scritto la sua lettera di ringraziamento agli scienziati italiani coinvolti nella scoperta del bosone di Higgs. Ed ecco apparire ieri in Gazzetta Ufficiale la tabella con tutti i tagli che gli enti di ricerca italiani subiranno nella spending review. Il più penalizzato è proprio quell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) che coordina l’attività dell’Italia al Cern, il laboratorio europeo che mercoledì ha annunciato la scoperta dell’ultima particella elementare che ancora sfuggiva alle nostre osservazioni. Dal budget del 2012 dell’Infn verranno decurtati 9 milioni di euro su un totale di 241. Ma dall’anno prossimo il taglio arriverà a 24,3 milioni: un 10% cento che potrebbe portare alla chiusura di un terzo degli esperimenti e al licenziamento di circa 500 precari.
Gli istituti di ricerca coinvolti nel taglio dei fondi sono in tutto 22. La maggior parte fa capo al Ministero dell’Istruzione e della ricerca scientifica (Miur), che ogni anno finanzia la scienza svolta al di fuori degli atenei con 1,7 miliardi di euro. Gli enti perderanno 33,1 milioni nel 2012 e 88,4 sia nel 2013 che nel 2014, per un totale di 210 milioni. Per alcuni di essi, come l’Agenzia spaziale italiana, il ritocco è minimo (1 milione nel 2012, pari allo 0,56% dei fondi erogati dal Ministero). Ma per l’Infn si raggiungerà la percentuale record del 10% del budget. L’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (Inran) “è soppresso a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. I dipendenti verranno assorbiti dal Consiglio per la ricerca in agricoltura (Cra), ente del Ministero per le politiche agricole. Le sue nuove funzioni e la sorte dei precari restano tutte da determinare. “L’Inran è un marchio che si occupa del made in Italy in agricoltura. Perderlo avrà un impatto economico sul secondo comparto italiano in termini di fatturato” spiega il presidente Mario Colombo.
Il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), il maggiore ente pubblico di ricerca italiano, si vedrà tagliare 6 milioni di euro subito e 16 a partire dal 2013. La riduzione inciderà per il 3,2% sui suoi fondi annuali. “Un paese sbaglia di grosso se pensa di poter trattare così la ricerca” dice il suo presidente Luigi Nicolais. “La scienza non è un settore della pubblica amministrazione. E’ la variabile che determina lo sviluppo futuro di un paese. Non è un costo, ma un investimento”. Luciano Maiani, che di Nicolais è stato il predecessore ed ha anche diretto il Cern, ribadisce: “Del bosone di Higgs abbiamo parlato per la sua importanza scientifica. Ma un’impresa di questa portata trascina dietro di sé uno sviluppo tecnologico enorme. E il nostro paese non
può permettersi di rinunciarvi. L’Italia contribuisce al 13% del budget annuale del Cern, ma le nostre industrie hanno ottenuto il 17% delle commesse per la costruzione dell’acceleratore di particelle Lhc”.
Per tutti i presidenti degli enti di ricerca gestiti dal Miur, l’appuntamento è ora il 12 luglio nella stanza del ministro Francesco Profumo. E che i tagli alla ricerca finiscano col prosciugare la ripresa è il timore condiviso anche da Alberto Silvestri, direttore generale dell’Istitito nazionale di ricerca metrologica (Inrim, meno 2,1 milioni in tre anni): “I precari da oggi non hanno più garanzie. Azzerando il ricambio generazionale, abbiamo sterilizzato ogni forma di sviluppo futuro. Stiamo ripetendo l’errore del primo governo d’unità d’Italia, che regalò il telegrafo di Marconi all’Inghilterra”.

La Repubblica 08.07.12

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“Mi sento preso in giro, addio innovazione”, di Fernando Ferroni

«MI SENTO preso in giro » commenta a caldo Fernando Ferroni, presidente dell’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare). Al suo ente Napolitano ha fatto i complimenti per la scoperta del bosone di Higgs. E oggi lui si ritrova a essere il più penalizzato dai tagli. «Ho deciso di reagire duramente. Questa
«Prima di tutto scriverò una lettera al presidente Napolitano, che solo due giorni fa ci ha scritto per complimentarsi con noi e ha invitato i nostri scienziati al Quirinale. Poi cercherò di capire alcune incongruenze di questo decreto».
«Capisco che si possa tagliare un bilancio esistente come quello del 2012. Ma come è possibile tagliare bilanci che ancora non esistono, come quelli degli anni successivi? Noi non sappiamo nemmeno quanti soldi riceveremo in futuro, e già ci hanno programmato i tagli che subiremo. Siamo sicuri che sappiano quel che stanno facendo? »
Una riduzione del 10% del budget come cambia la vita di un ente?
«I precari sanno già da tempo che il loro futuro è all’estero. Gli esperimenti al Cern, al Gran Sasso e in tutti gli altri laboratori che l’Infn gestisce saranno ridotti del
30%. I ricercatori a tempo indeterminato non verranno toccati, ma senza esperimenti non so a cosa si dedicheranno. In parte abbandoneremo
la ricerca di base per cercare fondi europei. Così facendo potremo forse andare avanti qualche anno, ma uccideremo per sempre
ogni speranza di innovazione. Solo se sei all’avanguardia nella ricerca di base puoi infatti sperare di poter trasferire le tue competenze nella ricerca applicata».
Il 12 luglio il ministro Profumo ha convocato i presidenti degli enti di ricerca nel suo ufficio. Cosa vi direte?
«Gli chiederò perché il mio ente è costretto a subire un taglio del 10% e altri enti solo dello 0,5%. Ma conosco già la risposta. L’Infn spende solo il 55% del suo budget in stipendi e altre spese incomprimibili. Il resto va tutto nei progetti di ricerca. Per altri enti la quota delle spese irrinunciabili tocca il 90%. Gli dirò anche che progetti come
Lhc, l’acceleratore di particelle del Cern che ha scoperto il bosone di Higgs, sono stati ideati 20 anni fa e sono stati realizzati seguendo una strategia di lungo periodo. Se nel nostro paese le carte in tavola vengono cambiate ogni pochi mesi, noi non andremo mai da nessuna parte».
A chi fa presente le esigenze di risparmio di questo paese cosa risponde?
«Che risparmiare 50 milioni da parte del Ministero della ricerca non serve ai conti del Paese e dà un segnale mortale alla scienza italiana e a chi la fa».
I nostri ricercatori, senza esperimenti, non so a che cosa si dedicheranno, segnale mortale per l’Italia.

La Repubblica 08.07.12

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“Bosone di Higgs. Dopo le lodi, la scure sull’istituto di Fisica”, di Mariagrazia Gerina

Il presidente dell’Infn Ferroni lancia l’allarme sul taglio di 58 milioni in tre anni «Per decreto si distrugge l’eccellenza». Si levano le prime voci di protesta: «Altro che valorizzare il merito». Senza quei soldi l’Italia non potrà avere in futuro un ruolo in esperimenti importanti. Il taglio del 10 per cento all’organico colpirà indiscriminatamente anche gli enti di ricerca.
Ci si poteva aspettare tutto, tranne che per risparmiare il governo dei professori tagliasse via «la particella di dio». E invece tra le vittime della spending review, c’è finito anche, indirettamente, il «bosone di Higgs». Troppo caro per la fisica italiana. Al mattino osannata dal presidente della Repubblica per la parte avuta nella scoperta, alla sera raggiunta dalle «disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica» messe a punto a Palazzo Chigi. A dispetto dei discorsi sulla necessità di investire in ricerca, un capitolo intero nelle tabelle su tagli a beni e servizi è riservato alla «riduzione dei trasferimenti agli enti di ricerca». Tra tutti l’Istituto nazionale di fisica nucleare, che ha dato un contributo determinante agli esperimenti effettuati presso il Cern di Ginevra e alla scoperta della «particella di dio», è quello che subirà il taglio maggiore.
Circa 58 milioni in tre anni: 9 milioni nel 2012, più di 24 milioni nel 2013 e altrettanti nel 2014. Il decreto governativo li definisce «trasferimenti per i beni intermedi». «Sono i soldi con cui costruisco gli esperimenti, li mantengo e mando i miei ricercatori a farli», spiega molto più concretamente il presidente dell’Infn, Fernando Ferroni. Senza, è difficile immaginare che l’Italia in futuro potrà avere un ruolo in progetti importanti come quelli che hanno portato alla scoperta del bosone.
RISPARMI ALL’ITALIANA
Per questo, il presidente dell’Infn non vuole credere alle cifre che legge nelle tabelle elaborate dal governo in cerca di sprechi da tagliare. «Se fossero vere, perderei un terzo della mia capacità di fare ricerca e mi avvierei a diventare un ente inutile». Tanto per dare una misura, i trasferimenti all’Infn per l’ultimo anno ammontano a circa 241 milioni di euro: 24 milioni sono il 10% del totale, ma tenendo conto che circa 135 milioni servono a pagare gli stipendi e un’altra parte di spese, come la corrente elettrica, sono difficilmente eliminabili, 24 milioni sono un terzo di ciò che resta per finanziare esperimenti e missioni all’estero. E più o meno la cifra che l’Istituto ottenne lo scorso anno per i «progetti bandiera».
In tutto, i trasferimenti tagliati agli enti di ricerca ammontano a 200 milioni in tre anni, più di 33 solo nel 2012, altri 88 per il 2013 e per il 2014. Il Cnr perde 6 milioni per il 2012, 16 per il 2013 e altrettanti nel 2014, ovvero il 3,28% dei trasferimenti attuali. L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia perde subito 600mila euro e 1,6 milioni a partire dal prossimo anno. L’Agenzie spaziale italiana, 1 milione subito, quasi 3 dal prossimo anno. Resta ancora una speranza, triste, a cui aggrapparsi: «Siamo in Italia e da noi, qualche volta le tragedie finiscono in commedia», osserva Ferroni. Tanto per dirne una, i finanziamenti per il 2013 e il 2014 non sono ancora fissati: «che significa dunque sottrarre dei soldi a una cifra che ancora non c’è?».
Ma c’è un altro dato che preoccupa: il taglio del 10 per cento all’organico di tutti i settori della pubblica amministrazione che colpirà indiscriminatamente anche gli enti di ricerca. «Avrei capito se ci avessero dato degli indicatori di efficienza e ci avessero detto: a quelli dovete attenervi, ma qui i tecnici hanno deciso di fare all’italiana, tagliando un tanto a tutti indiscriminatamente», li critica il presidente dell’Infn, ancora incredulo che l’ente da lui diretto sia stato individuato dal governo come uno spreco da ridurre. «Mi sento in un film dell’orrore: la mattina il presidente Napolitano ci fa i complimenti, la sera ci tagliano anche i tecnici di cui abbiamo bisogno». Altro che «premio al merito», si sfoga Ferroni. «Come minimo dice mi sarei aspettato che il via libera alle 70 assunzioni programmate per il 2009». Le ultime prima dello stop al turn over. E invece il governo Monti continua a tenere bloccate anche quelle. «E poi ci lamentiamo se i nostri cervelli migliori fuggono all’estero». La fisica italiana ne perde «almeno quaranta» l’anno. «E certo non è così che si arresta la fuga».

L’Unità 08.07.12

"Quelle piccole patrie", di Francesco Merlo

NON muore, ma si esaurisce per accorpamento, che è la morte peggiore per una piccola patria, la cuccia calda del sentimento italiano, quella Provincia che fu l’identità in due lettere – MI oppure BA –, una targa, un fonema, la nostra particella di dio, Milano e Bari anche per gli abitanti di Lainate e di Bitetto che senza l’istituzione Provincia, non sarebbero mai stati milanesi e baresi. LA PROVINCIA è il bosone che ha dato massa all’Italia, mai isolato nel laboratorio del Cern e tuttavia modello standard dell’idea di nazione: «Paese mio che stai sulla collina / disteso come un vecchio addormentato …».
Dunque neppure Monti riesce a togliere completamente di mezzo gli spettri della Provincia: l’albero degli zoccoli, il Friuli pasoliniano, la Racalmuto — metafora di Sciascia -, la dolce ferocia contadina sulle donne, i bambini e gli animali. E ancora le melanzane e il latte di capra come archetipi di una modesta ma sicura felicità, la vita come una lunga partita a carte che ricomincia ogni pomeriggio e non finisce mai.
Sopravvivono come grasse bestie accorpate, 50 mostri che ne divorano 60, cinquanta rimanenze di Provincia, che non è stata solo il luogo del keynesismo all’italiana, anzi alla democristiana, l’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione, delle clientele politiche, ma è stata anche la nostra grande risorsa, la fucina dei caratteri, la patria degli sradicati, dei provinciali appunto, sempre in cerca di un centro di gravità permanente e dunque con la smania di scappare, di evadere — scriveva il provinciale Giorgio Bocca — «dalla prigione dorata, dalle notti stellate, dall’aria pura e correre in una metropoli a vedere come gli uomini si scannano e inganno e derubano» .
Ecco cos’è il provincialismo: lo sforzo, il dolore di chi tende le proprie forze per saltare più in alto degli altri, la necessità per il marginale di avere letto un libro in più, di diventare un virtuoso del sapere dire o del sapere scrivere o del sapere fare, e tutto per essere accettato, per conquistare il centro, per ristabilire i valori stando a cavallo, per imporsi a Torino come il Gramsci di Ales, o per impadronirsi di Roma come il Giolitti di Mondovì o il Crispi di Ribera, come il Mussolini di Predappio, il Verga di Vizzini, il Fenoglio di Alba, e — vado volutamente a casaccio — il Montanelli di Fucecchio, il Benedetto Croce di Pescasseroli, il Leonardo di Vinci, il Bartali di Ponte a Ema e il Coppi di Castellana, il Camillo Benso di Cavour… La stessa monarchia italiana era di provincia, di quella grande provincia mezzo francese che fu il Piemonte.
Forse dunque in questa lunga, estenuante agonia della Provincia, in questa incapacità di accoppare il morto che cammina, non c’è soltanto la resistenza della casta e dell’odiato ceto politico che non vuole accettare per sé i sacrifici che impone a tutti gli altri cittadini. Certo, l’abolizione delle province è stata e ed è il cavallo di battaglia (azzoppato) di tutte le opposizioni, lo slogan (tradito) di tutte le campagne elettorali, da De Mita a Berlusconi, da Prodi a Beppe Grillo. Ma nessuno c’è mai riuscito, è uno degli “impossibili” della politica, come la riforma della Rai. All’ultimo momento infatti l’abolizione cambia regolarmente natura: c’è sempre chi propone come alternativa di cancellare le prefetture; una volta la soppressione è diventata trasformazione in area metropolitana; più spesso è stata proclamata e subito insabbiata in attesa di una futura legge attuativa; e ora l’accorpamento decretato da Mario Monti è deludente, perché uccide l’identità ma non le competenze, non sottrae ma addiziona.
Di sicuro era già morto quel guardare una campagna, un bosco o una montagna e pensare di essere a Bologna o a Firenze; ed era già nostalgia «quella faccia un po’ così» dei provinciali di terra che scoprono la città di mare: «e ogni volta ci chiediamo / se quel posto dove andiamo / non ci inghiotta e non torniamo più». E già
nessuno più credeva che l’infelice Giacomo, appollaiato sulla collina del suo borgo selvaggio, trovasse l’infinto dove dolcemente naufragare nella provinciale SS76, “la strada regina” che porta a Macerata.
E, diciamo la verità, era una sopravvissuta anche la provincia dei vitelloni e pure quella delle aspre battaglie tra campanili per dare un nome a un territorio: in Sicilia è raccontata come un’epica la vittoria di Ragusa su Modica con i leggendari manifesti «a Ragusa la provincia/ a Modica ‘sta mincia». Ma la provincia è stata anche bottino di guerra: nel 1947 l’Italia perse le province dell’Istria, Carnaro e Dalmazia, e parte del territorio di Trieste e Gorizia.
Neppure Monti riesce dunque a spazzare completamente via il fantasma della signorina Felicita, a togliere il catafalco della provincia dal centro della casa. Anche lui infatti ha ridimensionato il suo progetto davanti all’egoismo della politica. Raccontano che, già ai tempi della Bicamerale, Massimo D’Alema abbia gelato Augusto Barbera: «E se l’inutile fossi tu?». Francesco Storace, che è fascista ma spiritoso, riassunse così la battaglia del governo Berlusconi: «Avevamo promesso di abolire le provincie e il bollo auto, ed è finita che ora affidiamo la gestione del bollo auto alle province». Nicola Zingaretti è l’unico che definisce ente inutile la provincia che presiede. Mentre i leghisti vorrebbero al contrario moltiplicarle su fantasiose basi etniche, e basti come esempio la proposta di creare Ladinia come terza provincia autonoma del Trentino Alto Adige. Eppure nella storia d’Italia, le province, istituite nel 1859 su modello dei dipartimenti francesi, dovevano assicurare allo Stato che «da qualunque punto del territorio fosse possibile arrivare al centro dell’amministrazione»: strumenti dunque di centralismo e nel sud persino di annessione.
E però a rendere la Provincia dura a morire non c’è solo l’ostruzionismo politico che si spinge sino a bollare come demagogiche le stime serissime che calcolano dai 12 ai 18 miliardi di euro il risparmio che deriverebbe dalla loro abolizione. C’è anche il sarcofago egiziano che l’italiano di strapaese si porta addosso, con dentro gli oggetti “erotici” della sua vita: la pappa reale, il cimitero di famiglia come unica casa certa, e poi un liquido seminale e un Dna che sanciscono una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali, ciascuno con la sua psicospecialità e le mutande a baldacchino delle nonne, il parente prete o il babbo partigiano, la pennichella come ritorno alla natura, un complesso di inferiorità che diventa una scatola magica, come il letto della mamma, la vigna, il bosco e i colori dell’infanzia che sono finestre sullo spirito umano sia a Drò sia a Tropea: la provincia come dolore dell’anima, asprezza di vivere e goffaggine personale, incapacità di adattamento o al contrario spirito di adattamento. Georges Simenon, che era nato in una provincia del Belgio ed era fuggito, la metteva così: « Me ne sono andato e ho avuto fortuna. Ho raccontato i crimini che avrei commesso se non me ne fossi andato. Cos’altro si può dire di chi ha avuto fortuna se non che se n’è andato» dalla provincia?

La Repubblica 07.07.12

"Tagli per 26 miliardi fino al 2014", di Roberto Giovannini

È un’operazione che vale 26 miliardi di qui al 2014. «Non sono tagli lineari», assicura il presidente del Consiglio Mario Monti, «sarebbe stata una via più semplice ma abbiamo preferito intervenire nella struttura della spesa della Pubblica Amministrazione». Il day after il varo notturno del decreto legge della spending review – già firmato da Giorgio Napolitano – vede le prime (pesanti e negative) reazioni da parte di quell’ampia parte del lavoro pubblico e quelle categorie che si ritiene penalizzato dal giro di vite varato dal governo. La Cgil, con Susanna Camusso, parla di «manovra recessiva che distrugge lavoro», ma vista la posizione molto più morbida di Raffaele Bonanni e della Cisl l’impressione è che proteste ci saranno, ma che non si arriverà allo sciopero generale. La patata bollente se la ritrova il leader del Pd Bersani, che boccia i tagli sulla sanità, ma dovrà appoggiare un provvedimento che colpisce molti degli interessi che il suo partito rappresenta.

Risparmi e nuove spese Il decreto legge vale 4,5 miliardi per il 2012, 10,5 per il 2013 e 11 per il 2014. Risorse che servono ad evitare il rincaro di due punti dell’Iva per il 2012 e a congelarlo almeno fino al luglio del 2013; a «salvaguardare» dagli effetti della riforma pensionistica Fornero altri 55.000 lavoratori «esodati» entro il dicembre 2011 (con una spesa di 1,2 miliardi dal 2014); a reperire infine 500 milioni già quest’anno (1 miliardo rispettivamente nel 2013 e 2014) per le aree colpite dal recente terremoto in Emilia.

Statali nel mirino A pagare dazio sono soprattutto i lavoratori pubblici con il taglio agli organici (-10% i dipendenti, -20% i dirigenti, -10% i militari), il taglio dei ticket restaurant, e in più arriverà una specie di «pagella» per gli impiegati, che saranno quindi valutati anche «individualmente». E una volta andati in pensione, peraltro, i «pubblici» non potranno più fare da consulenti nel settore pubblico. Nel mirino ci sono le Province, che saranno drasticamente dimezzate (ma nascono 10 Città metropolitane) e la sanità, con 18.000 posti letto in ospedale che dovranno sparire entro novembre (anche se si sono salvati i piccoli nosocomi). Un’operazione questa dei nuovi parametri per i posti letto che avrebbe il risultato, secondo i calcoli della Cgil, di mettere a rischio di far saltare circa 1000 reparti ospedalieri e altrettanti primari. Cala la mannaia sui trasferimenti a Comuni, Province e Regioni, che saranno sforbiciati per oltre 7 miliardi.

Le ultime novità Tra le novità dell’ultima versione del decreto (lievitato da 17 a 23 articoli) una stretta sulla spesa (non sul numero) delle intercettazioni, l’arrivo della pagella solo on line mentre i bidelli si salvano dal taglio. Si salvano gli enti di ricerca, mentre verranno fuse le authority previdenziali Covip e Isvap.

La Difesa tira la cinghia Per la Difesa arrivano tagli di un miliardo di euro complessivi nel biennio 2013-2014, mezzo miliardo per anno, più i risparmi derivanti dalla cessione di tutti gli immobili della Difesa al fondo del demanio e dalla decurtazione del 10% del personale. Da registrare che nel corso dei mesi precedenti sono state spedite dai cittadini ben 135.000 segnalazioni su possibili sprechi e inefficienze. Le Regioni che hanno il primato delle segnalazioni sono Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia. L’argomento più trattato (37%) sono le amministrazioni locali, seguito con il 14% dalle spese sanitarie.

Sindacati in ordine sparso Mentre la maggioranza sembra già in difficoltà, col Pd in allarme, Udc e Pdl che plaudono al decreto, duro è il giudizio del segretario Cgil Susanna Camusso. «Ci pare che sia in corso nei fatti un’altra manovra di carattere recessivo, nei fatti, che taglia molto lavoro più di quello che non dichiari, un taglio lineare del welfare ai cittadini». Assolutamente più cauto il suo collega Cisl Raffaele Bonanni, che limita le critiche al capitolo lavoro pubblico: «Ci mobiliteremo sicuramente nei prossimi giorni ma per avere una riorganizzazione trasparente del pubblico impiego e per dare serenità ai lavoratori che continuano ad essere insultati». Già pronti allo sciopero di categoria invece sono i sindacati di settore di Cgil e Uil. «Mi sta bene come primo passo – afferma il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi – però bisogna andare avanti con maggiore decisione, con più determinazione e far seguire i passi successivi».

Sul piede di guerra pure Federfarma, che contesta i tagli all’aggio per i titolari di farmacie, i medici ospedalieri dell’Anaao Assomed, ma anche gli avvocati.

La Stampa 07.07.12

"Bersani con i sindaci e le Regioni: tagli non sostenibili", di Simone Collini

Il leader democratico su Monti: «Non si può dare la colpa 
al pompiere per il fuoco appiccato da Pdl e Lega»
Ma avverte che «il Pd dirà come la pensa e come farà». Parla di primo mattino con il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani e con quello dell’Anci Graziano Delrio, oltre a molti altri amministratori locali sparsi in tutta Italia, per ascoltare la loro valutazione. E il discorso che Pier Luigi Bersani ascolta è ogni volta lo stesso: questa spending review non è sostenibile. Col passare delle ore emergono poi tutti i dettagli del decreto varato dal Consiglio dei ministri. E l’allarme lanciato da sindaci e presidenti di Regione, soprattutto per quel che riguarda i tagli alla sanità e i trasferimenti agli enti locali, si dimostra tutt’altro che infondato.
«È paradossale che il titolo del decreto sia “revisione della spesa pubblica ad invarianza dei servizi ai cittadini”», scuote la testa Bersani. Perché i servizi, a leggere le 73 pagine del testo, inevitabilmente saranno a rischio. E nel Pd già si inizia a discutere di quali emendamenti presentare in Parlamento quando (molto probabilmente dopo la chiusura delle Camere per la pausa estiva) ci dovrà essere la conversione in legge del decreto.
Questo passaggio per il Pd rischia di essere anche più delicato di quanto non sia stato quello riguardante la riforma del mercato del lavoro. Con i sindacati sul piede di guerra, gli enti locali che lanciano un grido d’allarme e i potenziali alleati che o attaccano duramente il governo (il leader di Sel Nichi Vendola parla di «decreto ammazza-Italia») o lo sostengono senza se e senza ma («la spending review è cura dimagrante dello Stato, tagli sprechi e burocrazia inutile, noi con Monti, gli altri facciano quel che vogliono», dice il leader Udc Pier Ferdinando Casini) il crinale su cui Bersani deve muoversi è stretto e scivoloso: né può venir meno all’impegno di sostenere Monti, né può assecondare le misure decise dal governo, senza peraltro il confronto chiesto nei giorni scorsi (contatti diretti tra presidente del Consiglio e il segretario Pd non ci sono stati). E allora Bersani ricorda che «non si può dare ora la colpa al pompiere» per il fuoco appiccato da chi c’era prima («negli ultimi dieci anni di governo Pdl-Lega la spesa ha sempre sforato e poi tra Ruby e bunga bunga stavamo facendo la fine della Grecia») e ricorda anche che quella di sostenere Monti è stata una «scelta di responsabilità» che verrà rispettata con «lealtà» dal suo partito. Ma aggiunge anche che il Pd dirà come «la pensa» e cosa «farà».
IL PD RAGIONA SUGLI EMENDAMENTI
E allora non manca, da parte di Bersani, l’apprezzamento per le misure volte a razionalizzare l’organizzazione pubblica, la riduzione dei costi per le auto blu, la sforbiciata alle Province. Ma non mancherà neppure una battaglia in Parlamento, in particolare su sanità e trasferimenti agli enti locali, quando i partiti potranno dire la loro.
«Nella prospettiva dei prossimi due anni, per la sanità, a Tremonti si aggiunge Monti: ci sono troppi “Monti” da scalare, 12 miliardi di tagli sono troppi», dice Bersani ricordando la scure che già si è abbattuta col governo Berlusconi. Ricorre alla battuta, di fronte ai giornalisti che di primo mattino gli chiedono un commento su quelli che sembrano essere i contenuti della spending review, perché pensa ci sia ancora qualche margine di manovra, e infatti lancia un ultimo appello ad uso e consumo del governo: «Attenzione a non dare una mazzata al Servizio sanitario nazionale». Poi le indiscrezioni diventano parole messe nere su bianco nelle 73 pagine uscite nel primo pomeriggio da Palazzo Chigi. «Ci sono cose che ci preoccupano molto», dice Bersani facendo poi capire che quel “ci” non riguarda soltanto il suo partito. «I governatori hanno ragione, è gente che pensa, non sono azzeccagarbugli o agit-prop».
Tra gli amministratori locali la tensione è alle stelle. Il presidente dell’Emilia Romagna Errani, che come presidente della Conferenza delle Regioni ha chiesto un incontro «urgentissimo» a Monti, parla di «tagli lineari insostenibili», mentre il sindaco di Reggio Emilia Delrio dice a nome dei Comuni italiani: «Non accetteremo i due miliardi di tagli che ci propone il governo, i nostri bilanci scoppierebbero, abbiamo già dato 8 miliardi di risparmi in questi anni come Comuni, altri non possono dire d’aver fatto altrettanto».
Ma non è solo il capitolo sanità a preoccupare il Pd. Il responsabile Trasporti della segreteria Matteo Mauri fa notare che con i tagli alle Regioni il trasporto pubblico locale finirebbe in una «situazione drammatica», e diversi parlamentari lanciano un allarme sui rischi che comporta nella lotta alla criminalità organizzata la chiusura di diversi tribunali (soprattutto in Calabria, ma Michele Meta cita anche il caso di Cassino, che fa da «diga» alle infiltrazioni camorristiche).
Nel Pd, la voce scevra di accenti critici è quella di Enrico Letta, che dice: «Ricordiamo che la spending review serve ad evitare l’aumento dell’Iva che serviva ad evitare il taglio alle esenzioni fiscali sul welfare deciso dal governo Berlusconi». C’è però anche chi fa notare che l’aumento dell’Iva è solo rinviato a luglio del prossimo anno. Insomma sarà l’eredità lasciata da Monti al prossimo presidente del Consiglio.

L’Unità 07.07.12

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“Bersani preme per le modifiche E Monti ha già previsto aggiustamenti al Senato”, di Ugo Magri

Bersani farà muro contro le amputazioni alla sanità e ai comuni. Qualche correzione al decreto dei tagli vorrà infilarla pure Alfano. E Monti, al quale è ben chiara la sofferenza del Pd, non pare del tutto sordo alle grida di dolore. Per cui il passaggio in Senato, dove da lunedì incomincia l’esame della «spending review», sarà tutt’altro che un prendere o lasciare. Palazzo Chigi per il momento esclude un voto di fiducia, che solitamente viene deciso dal governo quando vuole mettere in riga i partiti. Semmai dalle parti di Monti si considerano scontati un tot di aggiustamenti, purché (si capisce) restino invariati i saldi, e la quota complessiva dei risparmi risulti alla fine sufficiente per bilanciare il mancato aumento dell’Iva.
La sensazione tra gli addetti ai lavori è che al voto di fiducia si arriverà per colpa dei tempi strettini; però dopo l’esame del testo in commissione, e quando le principali richieste Pd e Pdl saranno state almeno in parte soddisfatte. Insomma: dalle parti di
Monti nessuno prevede sbocchi traumatici, tensioni politiche insuperabili. Oltretutto i riflettori, anche mediatici, già si stanno orientando verso la delicata riunione dell’Eurogruppo lunedì sera, quando lo scudo anti-spread verrà discusso nei suoi dettagli tecnici, e pessimisti come l’ex ministro Brunetta già scommettono giulivi su un buco nell’acqua, con conseguente nuova tempesta valutaria. Circola nei palazzi istituzionali un filo di inquietudine per questa tanto attesa svolta sui mercati che, nonostante i sacrifici chiesti alla gente, non sta prendendo corpo. Monti conosce bene i rischi, ma parte per Bruxelles più sereno (assicurano i collaboratori) anche grazie al decreto sui tagli, che Napolitano ieri ha immediatamente controfirmato: agli occhi degli europei, una prova in più che l’opera di risanamento nel Belpaese non si è arenata.
Quanto al fronte interno, il presidente del Consiglio crede di aver fatto il possibile. Ha chiesto (e ottenuto) dai partiti di maggioranza degli «sherpa» con cui il confronto è stato «intensissimo», dicono dalle sue parti. In qualche caso Monti ha colloquiato per telefono direttamente coi segretari. L’altro ieri, per esempio, si è sentito con Alfano, il quale tutto sommato approva la manovra dei tagli («Vigileremo per evitare sbilanciamenti e squilibri, ma la strada di fondo è quella giusta»). Fonti del Pd negano, invece, che Monti abbia mai alzato il telefono con Bersani, «forse avrà sentito qualcun altro». Se si fossero parlati privatamente, il segretario avrebbe rivolto al premier le stesse critiche che muove nei comizi al decreto: «Sulla sanità e sugli enti locali i tagli mi sembrano un po’ troppo pesanti, qui andiamo oltre il segno e tocchiamo le prestazioni, per noi si entra sul problematico». Fassina, responsabile economico del partito, definisce senza mezzi termini «insostenibili» le sforbiciate che vanno giocoforza a colpire i trasporti locali, le mense scolastiche, gli asili, i servizi per gli anziani…
Che nel decreto ci sia qualcosa di buono, a Sant’Andrea delle Fratte nessuno lo nega, specie per quanto riguarda gli accorpamenti delle province, i costi standard. Ma forte è la pressione del sindacato, con la Camusso sul piede di guerra, e scatenata la concorrenza a sinistra di Vendola, in prima fila nella lotta contro il «decreto ammazzaitalia», come il leader di Sel lo definisce arrivando quasi a rimpiangere Berlusconi che «neanche aveva osato dove Monti è riuscito». La morale è che il decreto dovrà cambiare. Martedì convocata la segreteria del Pd per discutere il come e il dove. Fa del sarcasmo da destra Gasparri, «questa sinistra si dimostra meno montiana di quanto faceva finta di essere», e magari c’è del vero. Però pure il Pdl cercherà di piazzare qualche ritocco per andare incontro alle categorie di riferimento, tra cui immancabile quella dei farmacisti. L’unico che non avanza richieste (almeno su Twitter) è Casini: «Noi stiamo con Monti, gli altri facciano quel che vogliono! », con tanto di esclamativo.

La Stampa 07.07.12

"Spending review, la “stretta” all’istruzione c'è e si farà sentire", di Alessandro Giuliani

In attesa di prendere visione del decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri contenente le “disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica a servizi invariati” (spending review), il Governo ha reso pubblico un lungo comunicato stampa attraverso cui vengono riassunti tutti gli interventi previsti dal decreto. Disposizioni, come già rilevato su questa testata, nelle intenzioni del Governo dovrebbero far migliorare la produttività delle diverse articolazioni della Pa e consentire un risparmio per lo Stato di 4,5 miliardi per il 2012, di 10,5 miliardi per il 2013 e di 11 miliardi per il 2014.
La scuola è inserita nel raggruppamento I, denominato “Pubblica istruzione, Università, Enti di ricerca.
Partiamo dall’utilizzo del personale docente in esubero (nell’anno scolastico ormai terminato si trattava di oltre 10mila insegnanti): il Governo avrebbe “previsto l’utilizzo in particolare dei docenti senza cattedra per attività di docenza in materie affini”. La davvero troppo generica espressione viene poi sostenuta con la necessità di adottare per ogni soprannumerario il dovuto “accertamento delle competenze necessarie a garantire il risultato didattico atteso. In particolare verificando il possesso degli idonei titoli di studio”: una sottolineatura che, di fatto, renderà nella maggior parte dei casi (escludendo solo coloro che sono in possesso di titoli spendibili in ambiti disciplinari allargati) inattuabile la disposizione.
Viene poi prevista l’istituzione di un servizio di tesoreria unica per le scuole, nel quale confluiranno tutte le risorse finanziarie attualmente depositate presso istituti bancari privati. In questo modo la “Banca d’Italia – si legge nel documento del Governo – disporrà di una maggiore disponibilità di cassa di circa 1 Miliardo di euro, con conseguente economia data dal miglioramento dei saldi di cassa e una minore spesa di interessi sul debito pubblico quantificabile in circa 8 milioni per il 2012 e 29 milioni a regime”. Il modelle di gestione della liquidità è lo stesso già adottato dagli enti di ricerca.
Novità in arrivo anche per la contabilità speciale: “30 milioni verranno messi a disposizione delle scuole per le proprie spese di funzionamento mentre una ulteriore somma di pari importo andrà a contribuire ai miglioramenti dei saldi di cassa”. Mediamente ogni scuola riceverà poco più di 6mila euro: la cifra non è notevole e nella maggior parte dei casi dirigenti e consigli d’istituto dovranno ingegnare modalità interne per far quadrare i conti.
Il Governo ha poi deciso di realizzare un ulteriore giro di vite sui controlli di regolarità amministrativa e contabile: “in linea con un orientamento di maggiore equità, la spesa per compensi aggiuntivi al personale impegnato nell’attività di controllo sull’attività amministrativa e contabile delle istituzioni scolastiche porterà un risparmio annuo alle scuole quantificabile in 8 milioni”.
I risparmi toccheranno anche il personale del Miur impegnato in scuole estere e presso il MAE: “si opera una riduzione del personale scolastico comandato presso il MAE con funzioni di coordinamento e gestione delle scuole italiane all’estero. Di concerto – spiega ancora il documento riassuntivo – si opera una ulteriore riduzione anche del personale dei docenti impiegati presso le scuole italiane all’estero”. La doppia riduzione comporterà risparmi per 2,6 milioni nell’anno in corso e di 16 milioni a regime.
Nel mirino dell’esecutivo del premier Monti c’è anche il personale reputato inidoneo all’insegnamento: si tratta di alcune migliaia di docenti, che le commissioni mediche dello Stato hanno reputato comunque in grado di mantenere la capacità lavorativa: come già previsto, si conferma che verranno utilizzati “in attività amministrative presso le stesse scuole, nell’ambito regionale. Da questa misura si ottiene una riduzione di spesa nell’immediato di 38,5 milioni, che a regime supereranno i 100”.
La spendng review inciderà anche sulle visite fiscali: “viene trasferita alle regioni una somma forfettaria di 23 milioni circa che consentiranno alle scuole di poter usufruire senza oneri finanziari e amministrativi delle visite fiscali”. In questo modo i dirigenti avranno così un “tesoretto” (tra i 2 e i 3mila euro l’anno) per i controlli delle malattie del personale da poter gestire, attribuendo la spesa ad un altro comparto.
Tra le disposizioni da attuare c’è anche qualche “voce” in attivo: arrivano, ad esempio, 90 milioni in più per il diritto allo studio, riportando lo stanziamento al valore storico. Confermato, invece, lo stanziamento di 103 milioni per la gratuità dei libri di testo nella scuola secondaria di primo grado.

La Tecnica della Scuola 07.07.12

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Il Governo non scherza: supplenze brevi per i soprannumerari e gli Itp potranno diventare bidelli!

È previsto dalla manovra di risparmio della spesa pubblica approvata dal Cdm. Introdotta pure l’utilizzazione dei docenti privi di titolarità su materie affini: non servirà l’abilitazione. E diventeranno Ata tutti gli appartenenti alla C999 e C555. Sindacati imbufaliti. Non erano infondate le indiscrezioni sull’utilizzo coatto del personale soprannumerario della scuola, previsto nella manovra di risparmio della spesa pubblica approvata dal Consiglio dei ministri. Nel testo approvato dal Governo si prevede che il personale “in esubero nella propria classe di concorso nella provincia in cui presta servizio, è assegnato per la durata dell’anno scolastico un posto nella medesima regione, con priorità sul personale a tempo determinato, sulla base” di una serie di criteri. Il primo dei quali prevede di utilizzare detto personale sui “posti rimasti disponibili in altri gradi d’istruzione o altre classi di concorso, anche quando il docente non è in possesso della relativa abilitazione o idoneità all’insegnamento, purché il medesimo possegga titolo di studio valido, secondo la normativa vigente, per l’accesso all’insegnamento nello specifico grado d’istruzione o per ciascuna classe di concorso”. In un colpo solo, insomma, le necessità di fare economia fanno “saltare” uno dei tasselli fondamentali dell’insegnamento pubblico italiano: l’abilitazione. Averla o non averla, in momenti di difficoltà, non è una condizione imprescindibile. Del resto, a dare l’esempio nella stessa direzione è stato il Miur introducendo, un paio di anni fa, le tabelle di confluenza: quelle che permettono di insegnare, in attesa della revisione delle classi di concorso, anche su materie affini. Ed anche in questo caso non è prevista l’abilitazione. Oltretutto questa facoltà verrà applicata anche per il 2012/13, il terzo consecutivo.
Farà anche discutere almeno un’altra delle possibilità di utilizzo degli oltre 10mila docenti rimasti oggi senza titolarità. Si tratta del loro utilizzo “per la copertura delle supplenze brevi e saltuarie che dovessero rendersi disponibili nella medesima regione nella medesima classe di concorso”. Come dire, il docente viene collocato tra le “riserve”. Che in caso di emergenza si attivano e vanno a coprire i “buchi” creati dai colleghi assenti. Anche per pochi giorni.
Per la Cisl Scuola siamo di fronte a delle “vistose brutture”: in particolare, scrive il sindacato di Francesco Scrima, ci aspettiamo che si “cancelli la vera e propria idiozia di un impiego dei docenti in esubero per supplenze brevi in ambito regionale”.
Il punto che però farà sicuramente più discutere è un altro. Se non altro perché se approvato anche nella versione definitiva della spending review, potrebbe venire a determinare un precedente molto “pericoloso” per tutta la categoria degli insegnanti. Nel testo si prevede che “il personale docente attualmente titolare della classi di concorso C999 (si tratta dei quasi 1.500 insegnanti tecnico pratici transitati nel 2005 dagli enti locali allo Stato ndr) e C555 (esercitazioni di pratica professionale ndr) entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, con decreto del direttore generale del competente ufficio scolastico regionale transita nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico o collaboratore scolastico in base al titolo di studio posseduto”. Si specifica, inoltre, che lo stesso “personale viene immesso in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili nella provincia di appartenenza, tenuto conto delle sedi indicate dal richiedente, e mantiene il maggior trattamento stipendiale mediante assegno personale riassorbibile con i successivi miglioramenti economici a qualsiasi titolo conseguiti”.
Certo, si tratta di situazioni che si trascinavano da tempo. Quella degli ex dipendenti degli enti locali, che ha sempre destato molte polemiche. E quella degli Itp della ex tecnica dei servizi, impiegati da troppi anni in mansioni alternative. Tuttavia, siamo di fronte ad una disposizione che rimarrà indigesta a molti. Anche in questo caso i sindacati non sono andati per il sottile. L’Anief ritiene che in questo modo “viene sconvolta la divisione, prevista dal Ccnl, tra docenti e Ata. Ignorando del tutto titoli e competenze didattiche acquisite dagli insegnanti, vengono attribuiti in modo coatto degli incarichi impiegatizi proprio nel momento in cui allo stesso precariato della scuola viene negata la stabilizzazione”. Non è possibile che “gli insegnanti di laboratorio diventino bidelli. È una politica sbagliata: così si mortifica l’intelligenza e la competenza dei lavoratori. Chiederemo al Parlamento – conclude l’Anief – almeno di modificare delle norme che solo apparentemente producono risparmi”.

La Tecnica della Scuola 07.07.12

"Ecco i magnifici ragazzi del bosone i cervelli italiani che brillano al Cern", di Elena Dusi

«La scoperta del bosone di Higgs ha dato grande lustro all’Italia e onora il prestigio della scuola di fisica italiana che ci ha reso famosi nel mondo». Da Roma a Ginevra, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano manda i suoi complimenti agli scienziati italiani che lavorano al Cern e li invita al Quirinale a settembre. Nella città della fisica di Ginevra mercoledì è stata annunciata la scoperta dell’ultima particella elementare che sfuggiva alle osservazioni: il bosone di Higgs.
Se il Cern con i suoi 10mila scienziati da 113 paesi è uno specchio del mondo, l’Italia ha un colore particolarmente brillante nella mappa. Brillante come la passione di Fabiola Gianotti, che mercoledì ha annunciato al mondo la scoperta del bosone di Higgs con il collega americano Joe Incandela. Gianotti, diplomata anche in pianoforte, da quasi tre anni guida Atlas. Questo grande occhio da 42 metri e 7mila tonnellate ha il compito di scrutare le particelle di dimensione infinitesima che sono le tracce del bosone di Higgs, con un lavoro che impegna 3mila fisici di tutto il mondo. «Siamo in un luogo in cui vigono le regole della natura e del libero pensiero e non posso impormi con gli ordini » spiega lei. «Devo cercare il consenso, incanalare la passione e la curiosità di tutti».
In questa “repubblica dei fisici” in cui i capi degli esperimenti sono eletti democraticamente e chiamati solo “portavoce”, tre dei quattro “occhi” di Lhc – l’acceleratore di particelle più grande del mondo – sono diretti da italiani. Oltre a Gianotti, Paolo Giubellino guida l’esperimento Alice che studia lo stato della materia un istante dopo il Big Bang e Pierluigi Campana è a capo di LhcB, il rivelatore che interroga la natura sul perché materia e antimateria hanno una simmetria imperfetta. Fino a dicembre il poker era completato da Guido Tonelli, portavoce del l’esperimento fratello di Atlas: Cms. Tonelli ha lasciato il posto a Incandela, ma è sotto la sua guida che i
dettagli del bosone di Higgs hanno iniziato a prendere forma l’anno scorso.
Gli italiani a Ginevra sono oggi 700, divisi a metà fra scienziati affermati e studenti. A coordinarli è l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), che con 100 milioni all’anno contribuisce al 18% del budget del Centro di Ginevra. Italiano fu uno dei fondatori, Edoardo Amaldi, che con il Cern nel 1954 diede all’Europa uno dei primi nuclei di aggregazione.
Qui Carlo Rubbia fece le scoperte che nel 1984 gli valsero il Nobel. E come lui, anche Luciano Maiani ricoprì la carica di direttore generale. «Dalle nostre aziende arriva circa la metà dei magneti superconduttori di Lhc» spiega Lucio Rossi, che del grande acceleratore ha costruito “il motore” e ora sta progettando la versione “turbo”. Le aziende italiane dalla costruzione dell’acceleratore hanno guadagnato 400 milioni. «Io vivo a Ginevra – dice Rossi – ma a mia figlia ho consigliato di studiare fisica in Italia». Per Gian Francesco Giudice, uno dei teorici senior: «Per un fisico lavorare al Cern è come per un bambino trovarsi in un parco divertimenti dove si gioca e si mangia Nutella tutto il giorno».
Il timore però è che questo non
duri. «La scienza è una maratona e noi stiamo perdendo troppo terreno. L’Italia non può permettersi di trattare così male i suoi giovani ricercatori» dice Sergio Bertolucci, che a Ginevra ricopre il ruolo cruciale di direttore della ricerca e al quale Napolitano ieri ha indirizzato la sua lettera. «Stiamo vivendo – aggiunge Rossi – l’onda lunga della tradizione della fisica italiana. Godiamo dei frutti della preveggenza dei nostri padri. Ma cosa trasmettiamo alla generazione successiva?». Nel giorno della spending review, al presidente dell’Infn Fernando Ferroni è affidato il commento più amaro: «Mi sento preso in giro. Tagliare il 10% dell’organico vuol dire uccidere il futuro della ricerca in Italia».

La Repubblica 07.07.12

"La fiducia torna solo con le regole", di Stefano Lepri

E’ ancora meno facile prendere di petto difetti annosi e intricati dell’Italia, come quelli che gonfiano e rendono inefficiente la spesa pubblica, quando in tutto il mondo le condizioni dell’economia tornano a peggiorare. La crisi globale che tra un mese compirà cinque anni e non è mai finita pone ora problemi nuovi, che sono politici nel senso più profondo del termine, e vanno riconosciuti come tali. Il cieco instabile potere della finanza rende oggi arduo sanare quegli squilibri enormi della globalizzazione (Paesi avanzati che vivono al di sopra dei propri mezzi, in debito verso i Paesi emergenti) che lo hanno fatto crescere a dimensioni spropositate. Le ricette di politica economica applicate finora – tutte, non solo quella neoliberista che ha condotto alla crisi – diventano o inefficaci o dannose.

L’area euro fatica a risolvere i suoi problemi perché non riescono ad essere solidali tra loro le nazioni che la compongono. Negli Stati Uniti la ripresa stenta a causa della paralisi del governo, dovuta a contrasti politici mai così aspri, insomma a un calo della solidarietà tra i cittadini. Le banche continuano a funzionare male perché la sregolatezza passata fa sì che ognuna non si fidi delle altre.

Nello stesso tempo, arrivano al pettine i nodi in parecchi Paesi emergenti. Il lungo boom della Cina si infiacchisce: un regime autoritario che da anni chiede di faticare oggi in nome di un migliore domani, non sa dire ai suoi cittadini che il domani è arrivato, perché non ha fiducia in loro.

L’Italia, inoltre, soffre di una comprensibile sfiducia nella propria classe dirigente. La nostra economia aveva cominciato a perder colpi già prima della grande crisi; la crescita del tenore di vita si era arrestata, e non per colpa dell’euro. Anzi, il vantaggio dei primi anni dell’euro, ossia i bassi tassi di interesse, era stato usato per nascondere i guai.

Se non vuole restare schiacciato dal debito, il nostro Paese deve ritornare più efficiente. O ci riesce rivedendo a fondo la spesa pubblica, e rinnovando lo Stato, o sarà costretto ad abbassare ancora il proprio tenore di vita, a cominciare dai salari (come ci consigliano i tedeschi, scettici sulle nostre capacità di autoriforma). E sì, purtroppo, in una prima fase anche i tagli aggravano la recessione, al contrario di quanto predicavano alcuni economisti in voga.

Non è facile intervenire nel modo giusto sulla spesa. Attorno agli sprechi peggiori si annidano i gruppi di potere più tenaci; e può accadere che si finisca a tagliare prestazioni sanitarie agli anziani nell’incapacità di eliminare le mazzette sulle forniture agli ospedali; che riducendo i fondi un po’ per tutti si puniscano le Regioni meglio governate. Però protestare a priori contro ogni intervento sulla spesa è proprio ciò che aiuta di più i corrotti e gli scialacquatori.
In Italia come altrove, la fiducia può ritornare solo con regole chiare, spiegando bene che cosa si fa e perché. Gli ostacoli all’efficienza non vengono solo dalla classe politica.

Burocrazia, lobbies, forze sociali, pezzi anche ampi di società, profittano dello stato presente delle cose. E quanti di noi si aggrappano a piccoli privilegi perché disperano in ogni possibile soluzione di più ampio respiro?

Un progetto tecnico calato dall’alto fallisce perché la gente non ne comprende la necessità. Eppure, far piazza pulita a colpi di demagogia non risolve nulla, perché unirsi in nome del «non ne posso più» dura poco e distrugge le scarse solidarietà che restano. Occorre spiegare con pazienza, confrontarsi sui dettagli: mostrare che esiste un progetto, che nuove regole varranno per tutti. Altrimenti, perché gli altri Paesi dell’euro dovrebbero avere fiducia in noi?

La Stampa 07.07.12