attualità, cultura

"Pinocchio e il Gabibbo", di Massimo Gramellini

A Benigni che alla festa del Pd gli faceva bonariamente il verso («Lui ti tende la mano, è fatto così. A me ha detto: come stai vecchio cadavere putrefatto salma piduista?»), Grillo ha risposto senza un sorriso ma con la solita, banale e – questa sì – tipicamente fascista litania del «chi paga?». In effetti Benigni si fa pagare i suoi spettacoli dagli spettatori, esattamente come Grillo. Coltivare idee di sinistra, o comunque idee, non costituisce ancora una ragione per lavorare gratis. In questa disputa politica surreale di fine estate, Benigni si muove con la leggerezza di un cartone animato che ha studiato abbastanza per diffidare dei fanatici ma in fondo anche per compatirli. Grillo invece ha smarrito la levità corrosiva degli esordi, sostituendola con una maschera soffocante di livore. Il suo brontolio cupo e monocorde gli permetterà di raccogliere voti fra le macerie di un’Italia disperata, ma gli ha sottratto quell’energia positiva che sola consente di rimettere insieme le persone e le cose. Di ricostruire. Se Benigni è Pinocchio, e ne condivide le ingenuità e le furbizie, i fallimenti e le rimonte, Grillo non è il Grillo Parlante ma un Gabibbo barbuto che si è spogliato dell’autoironia per indossare i paramenti del vescovo della Rete. Sprezzante, assertivo, inutilmente volgare, unico illuminato in un mondo di anime perse e oscuri complotti. Ciò detto, lo considero innocente. Da una vita recita testi non suoi. Il dramma è che da troppo tempo a scriverglieli non sono più Antonio Ricci e Michele Serra, ma Casaleggio, il guru di Cinque Stelle. Uno che basta guardarlo in foto una volta per averne paura per sempre.