All’inizio dell’agosto più temuto degli ultimi anni, per i frequenti rovesci dell’Italia sui mercati, un caso politico come quello che s’è aperto ieri tra Monti e il centrodestra non era proprio da augurarsi. L’intervista in cui il premier ha detto tra l’altro che, senza il passaggio di discontinuità tra il suo governo e quello precedente, lo spread sarebbe arrivato a quota 1200, ha provocato reazioni di protesta del Pdl, che al Senato ha fatto mancare il suo appoggio. E ha reso necessaria una telefonata di chiarimento tra lo stesso premier e Berlusconi, preceduta da una nota in cui Palazzo Chigi spiegava che non c’era alcuna intenzione di attaccare il Cavaliere. Ma al di là del nervosismo, sempre presente, nella base parlamentare e in parte del gruppo dirigente del Pdl nei confronti del Pr ofessore, un interrogativo ieri è rimasto a lungo sospeso.
Nel clima rarefatto della conclusione dei lavori parlamentari e nell’attesa di una pausa feriale che praticamente non ci sarà, la domanda è cosa ha spinto Monti, nel giro di pochi giorni, a rendere più accidentato del solito il cammino del suo governo con due interviste consecutive come quelle a «Der Spiegel» e al «Wall Street Journal». Interviste importanti e piene di cose, perché Monti ha un suo personale codice di comunicazione, e se sceglie di parlare raramente si occupa di questioni contingenti. Ma che tuttavia, seppure in parte contro la sua volontà, hanno determinato reazioni pesanti, costringendo il presidente del Consiglio a correre ai ripari.
Ieri appunto nei corridoi parlamentari, dove fioriscono spesso fantasiosi retroscena, c’era chi attribuiva quelli che a molti occhi politici consumati sono apparsi come infortuni alla stanchezza del premier e alle fatiche che ha dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra inevitabili scadenze parlamentari indispensabili per tradurre in realtà la strategia anti-crisi del governo, road-show europei e internazionali per spiegare ad osservatori qualificati il senso del suo lavoro e delusioni per i risultati avari ottenuti finora sul fronte dei mercati, su cui l’Italia da quasi un anno sta combattendo la sua battaglia. È una spiegazione diffusa ma poco convincente, che tende ad assimilare Monti a tutti i governi che lo hanno preceduto e dei quali, con lo stesso cinismo, con la stessa approssimazione, a un certo punto s’è cominciato a dire che erano «cotti».
La verità è che il premier ha detto quel che ha detto nelle sue interviste per ragioni esattamente opposte. Per capirlo bisogna considerare che Monti, sia quando parla alla Camera e al Senato, sia quando si trova all’estero, ha davanti a sé lo stesso orizzonte. Un orizzonte non solo nazionale, ma europeo e in qualche modo globale, dato che non gli sfuggono, ed anzi gli sono costantemente presenti, le dimensioni e i risvolti della crisi economica mondiale. E all’interno del quale, a dispetto di quel che appare, l’Italia da qualche mese grazie ai suoi sforzi è guardata con rispetto e considerazione che non si vedevano da tempo. È a questo nuovo atteggiamento – meno esplicito, meno emergente spesso dell’immagine negativa che il Paese si porta dietro che Monti guarda, cercando di corrispondervi. È questo il motivo per cui insiste sul necessario «cambio di mentalità» degli italiani.
Se ne ricava che quando parla a un giornale o a una tv, stranieri o italiani, Monti segue un suo filo di ragionamento e non si preoccupa delle conseguenze che le sue affermazioni possono provocare ai margini del sistema politico. Vale per la Germania, nel senso che non lo hanno preoccupato i toni elettorali anti-italiani di alcuni politici tedeschi, mentre ha accolto con soddisfazione il gradimento della Merkel alle sue parole su «Der Spiegel». E vale anche per l’Italia. Non solo perché era evidente che i destinatari dell’intervista al «WSJ» non erano i senatori del centrodestra, ma i lettori più attenti dell’autorevole giornale finanziario americano (che non a caso ha presentato l’articolo con l’aggiunta di una serie di analisi e di pareri sul nuovo corso italiano). Piuttosto perché nessuno, a cominciare dagli esponenti del Pdl che lo hanno attaccato, può seriamente dubitare che Monti, per risultare più credibile, debba ricorrere all’antiberlusconismo. Argomenti del genere, semplicemente, non gli appartengono e neppure lo interessano. Li lascia volentieri ai politici che li usano tutti i giorni nella loro campagna elettorale. Ma se ritiene di dover dire che senza il cambio di governo lo spread sarebbe peggiorato, lo dice e basta. Perché pensa, e vuol far capire in tutte le occasioni possibili, che accanto all’Italia che non vuol fare il proprio dovere e ha nostalgia di un passato irripetibile, ce n’è un’altra che a furia di sacrifici sta venendo fuori. La sua Italia, l’Italia di Monti.
La Stampa 08.08.12