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"Non è un derby Italia-Germania", di Antonio Silvano Andriani

Il futuro dell’euro non può essere trattato come una gara fra italiani e tedeschi. Ed è un errore prendersela con i tedeschi per l’eccesso di spirito etico che determinerebbe le loro valutazioni. Se la mettiamo sul piano dei comportamenti l’eccesso di propensione all’evasione fiscale e alla corruzione, la preferenza per i rapporti particolari piuttosto che per il merito e, più in generale, la scarsa tendenza a rispettare le regole dell’italiano medio non sono uno stereotipo inventato dai tedeschi, ma sono una realtà certificata da classifiche di agenzie internazionali e da sondaggi di opinione. Ridurre queste attitudini sarebbe la vera riforma strutturale che comporterebbe una rivoluzione culturale. Ciò detto, il problema del futuro dell’euro non dipende da questo e non riguarda solo italiani e tedeschi.

Riguarda due visioni opposte dell’economia, dei meccanismi che generano la crescita e del ruolo della politica economica.
Nella fase di accelerazione della globalizzazione che ebbe inizio nelle seconda metà dell’Ottocento tutti i Paesi industrializzati seguirono strategie mercantiliste. Tutti tennero fermi i salari mentre aumentava fortemente la produzione e si impegnarono ad esportare all’estero la maggiore produzione realizzata. L’imperativo della politica economica era aumentare la competitività del paese e quindi la sua potenza economica. Ne risultarono la spinta alle conquiste coloniali, guerre commerciali e l’adozione diffusa di pratiche commerciali scorrette. Tutto ciò fu causa non ultima delle grandi crisi economiche e delle guerre mondiali.
Proprio durante la crisi degli anni 30 la cultura riformista, avviò l’elaborazione di una nuova visione dello sviluppo economico che trovò la sua prima applicazione nelle politiche di Roosevelt e dei governi socialdemocratici scandinavi. L’obiettivo della crescita economica doveva essere non più la potenza economica del Paese, ma il benessere dei suoi cittadini e ruolo della politica economica doveva essere di indurre il sistema economico alla piena utilizzazione delle sue risorse, a cominciare dal lavoro. Da quella elaborazione è nato il modello che è risultato vincente dopo la seconda guerra mondiale e le cui parole chiave erano “welfare state”, “politica dei redditi”, “concertazione” e “programmazione”. Gli accordi di Bretton Wood, si inspirarono a questa visione. Si decise di rilanciare il processo di integrazione dell’economia mondiale, ma di tenerlo sotto stretto controllo politico per evitare soprattutto che si formassero ancora squilibri strutturali in seguito a strategie mercantiliste.
Dall’entrata in funzione dell’euro i governi tedeschi hanno adottato esplicitamente una strategia mercantilista. E, paradossalmente, hanno usato per alimentarla una delle pratiche tipiche del riformismo, la concertazione, attraverso la quale hanno, con l’accordo dei sindacati tedeschi, rovesciato la politica dei redditi nel suo contrario. Il principio che i salari reali debbano crescere in relazione alla crescita della produttività, che era il cuore della politica dei redditi, è stato sostituito da una regola che stabilisce l’esatto contrario: i guadagni di produttività dovevano essere usati per aumentare la competitività del sistema economico tedesco. Così la competitività di un’economia già forte è aumentata in quanto la Germania ha avuto una dinamica del costo del lavoro e della domanda interna inferiore a quella dei Paesi concorrenti. A questo si è aggiunto il grande vantaggio di un tasso di cambio dell’euro che favorisce i Paesi più forti. Nessuna meraviglia allora per le eccezionali performance della Germania nel commercio estero e che esse si siano manifestate soprattutto verso gli altri Paesi dell’area euro ed abbiano fornito una formidabile spinta alla formazione degli enormi squilibri finanziari e reali formatisi fra i Paesi dell’area euro.
Nella prima riunione dei G20 alla quale partecipava Obama sostenne che per superare i profondi squilibri formatisi nell’economia mondiale ogni Paese dovesse rimettere in discussione il suo modello di sviluppo. Il governo tedesco rifiutò questo approccio e da allora ha imposto all’area euro una politica di contenimento della domanda interna che ha senso solo se si volesse fare adottare anche all’intera area euro una strategia mercantilista. Questo è un approccio velleitario che fa dell’Europa non solo il centro della crisi economica mondiale, ma anche il principale ostacolo alla ricerca di nuove forme di cooperazione per il superamento degli squilibri dell’economia mondiale. Ad essa si deve opporre il rilancio di una visione che vede obiettivo della crescita economica il maggiore benessere dei cittadini anche se tale benessere deve essere definito oggi in relazione ai nuovi bisogni ed ai profondi mutamenti nel livello di vita e nella composizione demografica. E restituisca alla politica economica il compito di puntare con ogni mezzo a realizzare la piena utilizzazione delle risorse di ciascun Paese anche se questo può essere conseguito oggi sopratutto attraverso politiche macroeconomiche di dimensione europea.
Questi sono i termini del confronto che non è fra italiani e tedeschi, ma fra una cultura conservatrice che risuscita pratiche e valori ottocenteschi ed una cultura riformista che deve provare a rilanciare nella realtà di oggi i valori e le politiche innovatrici che dettero allora la risposta vincente alla crisi. Ed è un confronto in corso anche in Germania dove voci autorevoli si stanno opponendo alla politica del governo. Tale confronto conoscerà probabilmente una svolta se ci sarà un mutamento nella situazione politica tedesca.

l’Unità 08.08.12