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"Quello spread tra regole e speranze", di Franco Bruni

Ieri Draghi ha deluso i mercati. C’è stato qualcosa di troppo nelle aspettative suscitate dalle sue affermazioni della settimana scorsa, oppure c’è stata qualche inadeguatezza nelle decisioni di ieri. Forse un po’ di entrambe le cose: nel discorso di Londra non è stata ascoltata l’insistenza con cui sottolineava che Francoforte sarebbe intervenuta con forza ma rimanendo «nell’ambito del suo mandato»; ma è possibile che lo stesso Draghi sperasse di ottenere maggior consenso, subito, attorno a qualche prima mossa concreta, che confermasse le intenzioni combattive antispread che aveva preannunciato. Comunque, fra l’impazienza dei mercati e i tempi delle decisioni politico-economiche rimane troppa distanza: i mercati dovrebbero farsi meno nervosi e la politica più spedita.

La Bce vuole muoversi con indipendenza, ma in un quadro di rafforzato coordinamento con la Commissione e con i fondi intergovernativi salva-Stati. A ciascuno il suo compito.

La Bce userà il suo bazooka per comprimere quella parte degli spread che si può attribuire al fatto che i mercati pensano possibile una rottura dell’euro e un ritorno alle monete nazionali: eventualità che la Bce esclude risolutamente, mettendo in gioco tutta la sua credibilità. Ma per far ciò vuol essere sicura che, in parallelo, gli organi comunitari e i fondi salva-Stati intergovernativi disciplinino quella parte degli spread che non dipende dal rischio di rottura dell’euro ma dai rischi di illiquidità e insolvenza causati dai difetti del governo dell’economia europea nel suo insieme, dai suoi squilibri e dall’eccessiva lentezza con cui alcuni Paesi «mettono la propria casa in ordine».

La novità che, in un certo senso, spiega il tono del discorso di Draghi della settimana scorsa, è che negli ultimi vertici europei ci si è convinti davvero che gli spread non sono solo colpa delle «case in disordine» e che per difendere l’integrità dell’euro servono anche interventi possenti della banca centrale. Ma è un consenso che ora deve tradursi in coordinamento tecnico e la Bce non può e non vuole fare la superpotente che salva tutti senza condizioni e supplendo all’inazione altrui. E nemmeno vuole tornare a fare come quando cominciò a comprare i titoli italiani l’anno scorso e fu lei, irritualmente, a scrivere le condizioni dell’aiuto, in una lettera dove giunse a chiederci di riformare il diritto del lavoro. A ognuno il suo mestiere: i Paesi che vogliono aiuto per ridurre lo spread lo chiedano e rispettino le condizioni che concorderanno con gli organi comunitari a ciò preposti; questi organi siano intelligenti, tempestivi ed efficaci; dopodiché la Bce farà senz’altro tutto il necessario («e, credetemi, sarà sufficiente») per sradicare dal mercato la paura che qualcuno cerchi di uscire dai guai spezzando l’euro. Lo farà in modo trasparente, ha detto Draghi; e lo farà con convinzione, perché è evidente che la rottura dell’euro non guarisce nessun guaio: prima o poi, bontà loro, lo capiranno anche i mercati e lo spread da rischio di cambio tenderà a svanire.

In sostanza ieri la Bce ha aggiunto un suo progetto di intervento alle misure decise dal Consiglio di fine giugno. Anche il suo progetto, come le misure del Consiglio, richiede qualche tempo per essere messo a punto e Draghi ha elencato i comitati che lo dettaglieranno. Nel frattempo, il Consiglio potrebbe affidare alla Bce una nuova responsabilità che, sempre nell’ambito del suo mandato, la impegnerebbe nella supervisione unitaria e accentrata dei sistemi bancari dei Paesi dell’area dell’euro, la cui vigilanza è ancora nelle mani opache e protezioniste dei governi nazionali. Il che diffonde sospetti di trattamenti poco rigorosi e di inadeguata solvibilità di alcune banche e distorce la circolazione internazionale della liquidità, che tende a concentrarsi nei Paesi considerati meno rischiosi. Ragion per cui, fra l’altro, non ci si sarebbe potuta attendere grande efficacia da rinnovate violente iniezioni di liquidità che la Bce avesse deciso ieri: a che pro rendere ancor più liquida la Germania? Con un’euro-area meno segmentata e più uniforme, gli interventi della Bce potranno diventare più diversificati e potenti, capaci persino di tornare a mirare a facilitare la crescita, cosa che oggi non riesce nemmeno a tassi di interesse minimi, quali quelli che pratica la Bce, il cui impatto sul costo effettivo del credito è stravolto dai premi al rischio che allargano gli spread.

Occorre dunque armarsi di pazienza e attendere che l’intenso lavoro europeo di coordinamento politico, tecnico e istituzionale dia i suoi frutti. Forse con qualche slancio in più di quelli che a volte distinguono i banchieri, una briciola concreta del progetto si sarebbe potuta anticipare già ieri, per non frustrare l’onda di entusiasmo suscitata dalle parole di Draghi a Londra. A beneficiarne avrebbero potuto essere proprio i Paesi dove, come in Italia, è maggiore la sproporzione fra lo spread e l’azione di riforma e disciplina finanziaria messa in atto dal governo in accordo con la Commissione.

Ma il tentativo, da molti suggerito o atteso, di soffocare di colpo gli spread e i complicati guai dell’euro-area col bazooka della Bce, avrebbe consentito festeggiamenti per qualche giorno, forse qualche settimana, ma a costo di gravi delusioni successive. Anche perché se la Bce trascurasse i ruoli degli altri organi comunitari ne diminuirebbe la credibilità. E ciò non gioverebbe nemmeno alla sua.

Resta il fatto che, come ha detto chiaramente ieri Draghi, se l’Italia vorrà un aiuto per ridurre lo spread, lo dovrà chiedere, sottoscrivendo le relative condizioni, anche se ritiene di meritarlo molto più basso. Ma c’è un impegno del Consiglio di giugno a far sì che la sua buona dose di «virtù» abbia un riconoscimento: le condizioni saranno definite con celerità e flessibilità e rifletteranno i programmi di riforma e aggiustamento già concordati con la Commissione e che, pasticci partitici permettendo, stiamo realizzando con impegno.

La Stampa 03.08.12