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"Ritardi, armi spuntate, incubo Grecia e la moneta unica torna in bilico", di Ettore Livini

Il vecchio fondo salva-Stati viene ridimensionato, il nuovo non è ancora pronto. Si teme il default di Atene. Draghi costretto a muoversi in un campo minato: stretto tra le richieste dei Paesi in crisi e i falchi tedeschi. L´Europa rischia di arrivare in ritardo all´appuntamento con la battaglia decisiva per la salvezza dell´euro. Atene è sull´orlo del crac ormai da due anni. Ma in 24 mesi Bruxelles non è riuscita a mettere assieme un arsenale adeguato alla potenza di fuoco della speculazione. Il Fondo salva stati (Efsf) è allo stato un cannone con poche munizioni. E la sua efficacia è stata ridotta ulteriormente ieri dal taglio del rating da parte di S&P. L´Esm (European Stability Mechanism) – destinato a raccogliere la sua eredità da luglio – è ancora una scatola vuota. Il rischio è che un evento improvviso come il default della Grecia – le Cassandre guardano con preoccupazione alla scadenza di 14,4 miliardi di bond ellenici il 20 marzo – possa cogliere il Vecchio continente in contropiede. Scatenando l´attacco finale alla moneta unica prima ancora che l´Europa sia riuscita a mettere in campo il suo esercito.
Due armi spuntate
Efsf e Esm sono la fotografia più plastica dei ritardi della politica comunitaria nella partita. La Germania e i paesi del nord non vogliono mettere troppi soldi sul piatto per salvare le cicale continentali fino a quando i loro conti non saranno in sicurezza. Morale: i fondi salvastati sono due incompiute. L´Efsf nasce con 780 miliardi di garanzie Ue che avrebbero dovuto consentirgli di spendere 440 miliardi per difendere l´euro. Il declassamento di Francia e Austria però rischia di ridimensionare a 300 miliardi la sua disponibilità. Di più: oltre 46 miliardi della sua dotazione sono stati usati per i salvataggi di Irlanda e Portogallo, 100 andranno alla Grecia. E i 150-250 miliardi residui servirebbero a poco se l´effetto domino della crisi travolgesse la Spagna o l´Italia.
L´Esm, in teoria, potrebbe sparare qualche cartuccia in più. Gli Stati dovrebbero capitalizzarlo con 80 miliardi, regalandogli una capacità di intervento sui mercati di 500 miliardi. Ma il suo decollo, a rate, è previsto da luglio. Quando la frittata dell´euro potrebbe essere cosa già fatta. Mario Monti non a caso chiede da tempo di accelerare il varo dei due fondi e di potenziare di molto il loro arsenale.
Le mosse della Bce
L´Europa politica, insomma, latita. Quella monetaria fa quello che può. Mario Draghi è costretto a muoversi su un campo minato, stretto tra le richieste d´aiuto dei paesi in difficoltà e i falchi della Bundesbank. La Bce ha provato a sparigliare le carte tagliando due volte i tassi di interesse e “regalando” alle banche 489 miliardi per sbloccare la drammatica crisi di liquidità sul mercato. L´operazione ha funzionato solo a metà: gli istituti di credito sono tornati a comprare titoli di stato alle aste italiane e spagnole aiutando il calo dei rendimenti. Ma non prestano soldi a imprese e cittadini. I depositi sui conti correnti delle banche presso la Bce registravano ieri un saldo attivo record di 493,4 miliardi. Come dire che tutti i quattrini girati loro da Supermario sono parcheggiati presso l´Eurotower dove rendono solo lo 0,25%. Francoforte è stata costretta allora a riprendere gli acquisti di titoli dei paesi più deboli sul mercato. La scorsa settimana sono triplicati a 3,7 miliardi portando a 217 miliardi i Btp italiani e i Bonos iberici rastrellati da Draghi. Una strategia che fa già storcere il naso a Berlino.
L´opzione Fmi
Bruxelles ha provato a chiamare al suo fianco nella battaglia per l´euro il Fondo Monetario, già intervenuto in aiuto di Grecia, Irlanda e Portogallo. Ora però la Ue vorrebbe un salto di qualità, grazie a 150 miliardi girati all´Fmi grazie a prestiti bilaterali delle banche centrali continentali. Lo scopo “politico” è convincere gli Stati Uniti e i Bric a fare la loro parte nella crisi dei debiti sovrani mettendo a disposizione nuovi fondi per disinnescare il rischio di una recessione globale. Peccato che anche qui i tempi siano stretti e l´Europa (guarda un po´) sia in ritardo: i finanziamenti per l´organizzazione guidata da Christine Lagarde non sono ancora stati varati.
Scadenze a rischio
A preoccupare Bruxelles e Washington sono le scadenze dei prossimi due mesi. Il dossier più pericoloso è quello di Atene. Le banche hanno rotto i negoziati con la Grecia per il taglio al 50% dei loro crediti con il paese. Senza un´intesa in tempi rapidissimi (ci vuole almeno un mese per implementare lo swap sui titoli di stato dopo l´accordo) il governo ellenico rischia di non avere i soldi per ripagare i 14,4 miliardi di bond in scadenza il 20 marzo. Il mercato guarda con una certa preoccupazione anche alle aste dei prossimi due mesi di Italia e Spagna. Se i tassi dovessero impennarsi la situazione potrebbe avvitarsi su se stessa. E l´Europa, orfana di armi credibili, si troverebbe a combattere la madre di tutte le sue battaglie a mani nude.

La Repubblica 17.01.12

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Draghi: “Crisi molto più seria puntare su crescita e lavoro” S&P declassa il fondo salva-Stati, di Andrea Tarquini

La situazione dell´eurozona è molto seria, molto pesante, ed è peggiorata negli ultimi mesi. Il severissimo monito, forse di una durezza senza precedenti da parte di un presidente della Banca centrale europea (Bce), è venuto ieri pomeriggio da Mario Draghi in persona. Non dobbiamo né possiamo chiudere gli occhi davanti a questa realtà, ha aggiunto. Inevitabilmente, ha spiegato, le manovre di risanamento dei conti pubblici avranno a breve effetti recessivi. E ha indirettamente criticato il declassamento di Italia, Francia, Austria e altre economie centrali da parte di Standard&Poor: dobbiamo abituarci a vivere non senza agenzie di rating, ma senza curarsi tanto di loro e limitando il loro potere, ha affermato. Contemporaneamente, proprio il rating del Fondo salva-Stati (Efsf) perdeva da parte della stessa S&P la sua classificazione a tre A e veniva degradato ad AA+, in conseguenza del downgrading francese.
Mario Draghi ha lanciato i suoi duri avvertimenti intervenendo davanti al Parlamento europeo. «Quando il mio predecessore, Jean-Claude Trichet, si era rivolto a voi in ottobre, aveva detto che la crisi aveva raggiunto dimensioni sistemiche. Ora la situazione è peggiorata, ed è molto seria ( “very grave”)». Infatti «negli ultimi mesi del 2011 la situazione d´incertezza dei debiti sovrani e le prospettive di crescita stagnante hanno portato a distorsioni gravi dell´economia reale». Draghi ha ricordato, come fatti positivi, le decisioni prese dai leader politici europei, in particolare sul “fiscal compact” (il patto fiscale per coordinamento e controllo reciproci dei bilanci) ricordando però che «devono essere tempestivamente e integralmente messe in atto», in particolare per il fondo salva-Stati e per il suo successore Esm. Un abbassamento del rating del Efsf, ha continuato Draghi sfidando di fatto Angela Merkel, rende necessari ulteriori contributi al suo finanziamento da parte dei Paesi che hanno conservato la tripla A.
Senza la tripla A, il Efsf potrà prestare di meno o a tassi più alti, a meno di non ricevere più mezzi. Proprio S&P si è riservata di restituire al Efsf il rating AAA se riceverà più finanziamenti, cosa cui il governo tedesco si oppone nel modo più reciso. Draghi si è differenziato dalla linea dura di Berlino anche su un altro punto fondamentale: l´effetto recessivo a breve delle manovre di consolidamento è inevitabile, ha ribadito il presidente della Bce. Sebbene gli sforzi di risanamento vadano elogiati, in una situazione in cui i debiti sovrani con i loro interessi sono sovrastanti, «la crescita e l´occupazione stanno diventando sempre più gli obiettivi principali da perseguire, congiuntamente col consolidamento fiscale». Secondo Draghi crescita e consolidamento si integrano, non può esserci l´uno senza l´altra. Draghi ha infine chiesto di monitorare i finanziamenti in dollari, che ha definito fattore di rischio il quale può spingere il rischio di azzardo morale delle banche europee. E infine, ha invitato a ridimensionare il ruolo delle agenzie di rating, a considerare i loro giudizi uno strumento di misura tra tanti, ricordando che nel settore non c´è concorrenza e qualsiasi cosa si farà per cambiare questa situazione sarà benvenuta.

La Repubblica 17.01.12

"Mille euro al mese. La dura vita di gioiellieri e baristi", di Francesco Semprini

Sarà colpa della crisi, ma in Italia un congruo numero di commercianti, artigiani, e piccoli imprenditori guadagna meno di operai e impiegati. Almeno a dar retta ai modelli unici in possesso del fisco. La fotografia è scattata dal ministero dell’Economia attraverso la pubblicazione integrale dei contenuti delle dichiarazioni dei redditi che fanno riferimento agli studi di settore per l’anno 2009, l’ultimo di cui si hanno a disposizione dati completi. Un lungo elenco nel quale compaiono le categorie soggette a prossima liberalizzazione. Le stesse che, e questo è il dato singolare, dichiarano talvolta di incassare meno di addetti alle catene di montaggio o impiegati di livello più basso di enti pubblici o uffici privati. Certo la crisi ha inciso sugli affari di molti, ma non può non far riflettere che alcuni modelli unici riportano per queste categorie un reddito dichiarato inferiore ai mille euro al mese.

Alla fascia dei meno fortunati appartengono gli istituti di bellezza il cui reddito medio era tre anni fa di 5.300 euro. Non se la passano bene neanche tintorie e lavanderie con i loro 8.800 euro, che guardano con una punta di invidia i redditi da 11.900 euro di albergatori e affittacamere. Gli stessi dei giocattolai, che, vittime del rigore delle economie domestiche e del taglio sul budget destinato ai regali dei bambini, registrano giri di affari da 11.900 euro. Il 2009, a quanto pare, è stato anche l’anno buio degli autosaloni, i cui redditi hanno viaggiato a quota 12 mila euro, persino meno dei fiorai che hanno intascato 12.300 euro se proprietari di bancarella, e 300 euro di più se titolari di un negozio. A dar retta ai numeri snocciolati dal dipartimento delle Finanze, una bancarella di fiori e piante rende quanto l’attività di un orefice, che nonostante tratti in oro e preziosi riesce a intascare ogni mese solo qualche spicciolo in più dei canonici mille euro.

Va solo un po’ meglio agli stabilimenti balneari: chi ha in concessione un pezzo di spiaggia destinato a ospitare lettini e ombrelloni porta a casa in media 13.600 euro ogni anno. Poco sembrerebbe, ma a loro discapito, la categoria spiega di lavorare solo tre o quattro mesi all’anno. I tassisti, anima barricadera della protesta anti-liberalizzazioni contro il governo di salvezza nazionale, intascano in media 14.200 euro l’anno, duecento in meno del reddito di impresa o da lavoratore autonomo dei rivenditori di barche, più fortunati però a loro volta dei concessionari di auto, nonostante un giro d’affari inferiore. Crisi o no, gli italiani non rinunciano a cappuccino e cornetto, così i baristi nel 2009 sono riusciti a incassare 15.800 euro, mentre i peccati di gola hanno fruttato ai pasticcieri «ben» 19 mila euro, permettendogli di distinguersi tra i meno fortunati.

Un capitolo a parte lo meritano i professionisti per i quali i redditi d’impresa sono mediamente più alti: gli architetti toccano i 30.500 euro, gli avvocati i 58.200 euro, mentre gli studi medici possono contare su 68.300 euro all’anno. Almeno sino a quando terminerà l’era ante-liberalizzazioni.

La Stampa 17.01.12

"La guerra mondiale dei debiti", di Andrea Bonanni

Il declassamento del Fondo salva Stati europeo (Efsf) da parte di Standard&Poor´s era scontato ed è una logica conseguenza del taglio inflitto a Francia e Austria, che hanno perso la tripla A grazie alla quale garantivano la massima quotazione del fondo. Come scontato potrebbe essere nell´immediato futuro un downgrading delle banche che detengono i titoli di debito dei nove Paesi europei di cui l´agenzia americana ha tagliato il rating. Quello che sorprende, semmai, è che le altre due “sorelle” americane di S&P, cioè Moody´s e Fitch, non l´abbiano ancora seguita in questa guerra al massacro. E soprattutto che i mercati si siano mostrati per ora relativamente poco reattivi all´ennesima scomunica che da Oltreoceano arriva sulle teste degli europei. In parte questo fenomeno si può spiegare con il fatto che i grandi investitori avevano da tempo anticipato il downgrading della Francia e avevano già portato gli interessi sul debito dei Paesi europei meno solidi a livelli fin troppo elevati. Come ha ricordato il presidente della Bce, Mario Draghi, oggi i rischi dei debiti sovrani europei «sono sovrastimati così come erano sottostimati prima di Lehman Brothers».
Ma c´è anche un´altra spiegazione, che traspare dalle parole che Draghi ha usato ieri davanti al Parlamento europeo, e non è una spiegazione rassicurante. Il presidente della Bce ha ricordato che la crisi, definita «sistemica» dal suo predecessore Jean Claude Trichet in ottobre, «da allora è peggiorata. Ci troviamo in una situazione molto grave e non dobbiamo nasconderlo». Il fatto, ha spiegato Draghi, è che «la fragilità´ dei mercati del debito sovrano non e´ solo europea ma mondiale».
E questo è uno degli aspetti spesso trascurati del problema. Nell´anno che si è appena aperto, secondo le stime del Fmi, i governi mondiali avranno bisogno di prendere a prestito dai mercati più di undicimila miliardi di dollari. I debiti europei in scadenza ammontano a meno di millequattrocento miliardi. Una cifra enorme, ma è un´inezia se confrontata agli oltre 4.700 degli Usa e agli oltre tremila del Giappone. La crisi del debito pubblico europeo è dunque solo una faccia di una crisi globale. E se la disomogeneità della Ue la rende più drammatica, con Paesi super penalizzati come l´Italia e Paesi come la Germania che arrivano a piazzare i loro titoli a interessi addirittura negativi, non per questo gli altri giganti dell´economia super indebitati possono dormire sonni tranquilli.
Siamo, insomma, di fronte ad una vera e propria «guerra mondiale dei debiti» per accaparrarsi i finanziamenti necessari. Oggi è l´Europa, o quantomeno alcuni Paesi europei, che stenta a piazzare i propri bond ed è costretta a pagare interessi esorbitanti. Ma se l´euro dovesse resistere alla tempesta e, grazie anche al Trattato sul consolidamento delle finanze, l´Europa potesse aggiustare i propri conti pubblici, finirebbe inevitabilmente per attrarre capitali che verrebbero sottratti al finanziamento del debito di altri Paesi. Da qui l´interesse di alcune piazze finanziarie a speculare sull´instabilità della moneta unica.
In questa guerra, sarebbe illusorio pensare che le agenzie di rating possano restare perfettamente neutrali. Con una durezza mai vista finora, ieri il commissario europeo agli affari economici e monetari, Olli Rehn, ha accusato senza mezzi termini le “tre sorelle” americane: « bisogna ricordare che le agenzie di rating non sono arbitri oggettivi o istituti di ricerca imparziali, ma che hanno i loro propri interessi e agiscono molto secondo i termini del capitalismo finanziario americano».
E, sempre ieri, lo stesso Draghi ha insistito sulla necessità che occorra ormai «imparare a fare a meno» del rating delle agenzie «o, quantomeno, dovremmo imparare a valutare il valore del credito considerando le agenzie una delle tante componenti di questa informazione, non dovremmo dipendere completamente da loro».
La strada per arrivare a questo obiettivo è comunque lunga. Oggi il rating delle agenzie americane è ancora considerato un vangelo non solo da molti grandi investitori privati, ma anche da molte istituzioni pubbliche europee. Non a caso i governi dell´eurogruppo siano già affannosamente al lavoro per vedere come aumentare le garanzie e restituire al fondo salva stati la tripla A perduta. Riuscire ad emanciparsi dalla valutazione delle agenzie americane, come auspicano apertamente tutti i leader europei, in un mondo dominato dal pensiero unico del capitalismo, sarebbe una autentica rivoluzione culturale. Ma le guerre, si sa, facilitano le rivoluzioni. E la guerra del debito è già cominciata.

La Repubblica 17.01.12

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Il Professore: “Servono mille miliardi”, di ALBERTO D´ARGENIO

«Per salvare l´euro bisogna mettere sul piatto mille miliardi». Sono passati solo tre giorni dal declassamento di mezza Europa da parte di Standard&Poor´s, mancano poche ore dal bis che colpirà il fondo salva Stati provvisorio dell´Unione europea (Efsf). Nel chiuso di Palazzo Chigi il presidente del Consiglio europeo, Hermann Van Rompuy, pronuncia la frase che Mario Monti voleva ascoltare. Il premier annuisce, poi chiede di più: il trilione di euro è il minimo per mettere in piedi il fondo permanente europeo che sarà varato a luglio (Esm), ma bisogna anche dargli «una licenza bancaria». Solo così avrà la forza di salvare la divisa comune. L´annullamento della trilaterale del 20 gennaio per mano di Sarkozy non modifica la strategia di Palazzo Chigi. Monti sente al telefono sia il presidente francese – che lo rassicura sul fatto che non intende defilarsi dalla scena europea, sulla quale hanno punti di vista convergenti – sia la Merkel. Si decide che il vertice di Roma sarà recuperato a febbraio e nel frattempo si andrà avanti con una conference call tra i tre e poi con una riunione a Bruxelles la mattina del 30 gennaio, giorno del vertice europeo dedicato al Trattato con le nuove regole sul rigore dei conti voluto da Berlino.
Per questo Monti prosegue nel lavoro di persuasione sulla Merkel. Al Financial Times dice che la Germania deve fare di più per aiutare l´Italia a far scendere lo spread, il rigore non basta. La strategia che ha in mente per incassare il risultato la illustra a Van Rompuy, ricevuto in mattinata. Vista l´impossibilità di cambiare lo statuto della Bce regalandole i poteri della Fed americana e assodato che la strada per gli Eurobond è ancora lunga, si punta tutto sull´Esm. Che per l´Italia dovrà agire come un vero e proprio “Fondo monetario europeo”.
I tecnici a Roma sono al lavoro per disegnarne l´identikit da presentare poi ai partner e a Bruxelles. Dotazione di almeno 1000 miliardi rispetto ai 500 attualmente previsti, una governance più credibile abolendo i diritti di veto con lo stop all´unanimità su decisioni che vanno prese in poche ore. E soprattutto farlo agire come una banca, facendolo operare «in collegamento» con la Bce o dotandolo di una «licenza bancaria». «Solo così – spiega il responsabile Ue del Pd Sandro Gozi – possiamo dare ai mercati il chiaro segnale che nella zona euro non fallirà nessuno». Oltretutto con 1000 miliardi e un metodo operativo da istituto di credito, l´Esm potrebbe arrivare a raccogliere fino a 3000 miliardi, cifra necessaria per far capire agli investitori che l´Europa sarebbe in grado di salvare Italia e Spagna contemporaneamente e ridare così fiducia a chi oggi si tiene alla larga dalla moneta unica per paura di un suo crollo (facendo salire lo spread). Una strategia ambiziosa in parte rinfrancata dall´apertura arrivata mercoledì scorso dalla Merkel che dopo l´incontro con Monti a Berlino si è detta pronta a dare più soldi all´Esm. Su questo il governo punta a un ulteriore passo avanti nel summit Ue del 30.
In parallelo Monti lavora al capitolo crescita, essenziale per salvare il Paese e l´euro. Se in casa prepara la “fase due”, in Europa punta a far inserire nelle conclusioni del vertice di fine mese il mandato a Barroso, presidente della Commissione, a scrivere le direttive che completerebbero il mercato interno a suon di liberalizzazioni e abbattimento dei protezionismi nazionali. Conscio che in parallelo Francia e Germania stanno preparando un documento comune sulla crescita da presentare a Bruxelles a marzo.
Di questo Monti ha parlato anche ai leader della maggioranza a pranzo. Alfano, Bersani e Casini danno l´ok a presentare una mozione unica che sarà votata il 25 gennaio per dare forza ai negoziati europei di Monti, ma prima di mettersi d´accordo hanno qualche schermaglia. Se Alfano chiede di inserire nel testo un riconoscimento al lavoro di Berlusconi, condizione irricevibile per gli altri due, Monti boccia il suggerimento di brandire il veto al vertice del 30 gennaio se non otterrà quello che chiede su crescita e Esm: «Evitiamo di farlo, la minaccia di veto è abusata e controproducente, se poi c´è da impuntarsi lo farò». Una conferma del metodo di chi in Europa preferisce preparare nel dettaglio – insieme al ministro Enzo Moavero – bilaterali e vertici piuttosto che fare annunci roboanti. Intanto Monti si accontenterebbe di coinvolgere tutti i partiti sulla mozione del Parlamento italiano. Così il Pd si incarica di trattare con l´Idv e il Pdl, ambasciatore sarà Frattini, con la Lega. Ma i margini di riuscita sono minimi.

La Repubblica 17.01.12

"La prevalenza dello Schettino", di Massimo Gramellini

C’erano voluti due mesi per ritornare all’onor del mondo. Due mesi di loden e manovre, di noia e ricevute fiscali. Due mesi per nascondere i politici di lungo corso sotto il tappeto o in un resort delle Maldive. Due mesi per far dimenticare il peggio di noi: la faciloneria, la presunzione, la fuga dalle responsabilità. E invece con un solo colpo di timone il comandante Schettino ha mandato a picco, assieme alla sua nave, l’immagine internazionale che l’Italia si stava ricostruendo a fatica. Siamo di nuovo lo zimbello degli altri, il luogo comune servito caldo nei telegiornali americani, il pretesto per un litigio fra due politici francesi (francesi!), uno dei quali ieri accusava l’altro di essere «come quei comandanti che sfiorano troppo la costa e mandano la loro barca contro gli scogli».

Mi auguro che non tutto quello che si dice di Schettino sia vero: anche i capri espiatori hanno diritto a uno sconto. Ma se fosse vero solo la metà, saremmo comunque in presenza di un tipo italiano che non possiamo far finta di non conoscere. Più pieno che sicuro di sé. Senza consapevolezza dei doveri connessi al proprio ruolo. Uno che compie delle sciocchezze per il puro gusto della bravata e poi cerca di nasconderle ripetendo come un mantra «tutto bene, nessun problema» persino quando la nave sta affondando, tranne essere magari il primo a scappare, lasciando a mollo coloro che si erano fidati di lui. Mi guardo attorno, e un po’ anche allo specchio, e ogni tanto lo vedo. Parafrasando Giorgio Gaber, non mi preoccupa lo Schettino in sé, mi preoccupa lo Schettino in me.

La Stampa 17.01.12

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Se la viltà batte il “compito della vita”, di PIERANGELO SAPEGNO

Non sappiamo se come Lord Jim anche il comandante Francesco Schettino dovrà correre tutta la sua vita, da un posto all’altro, fra la vergogna e il rimpianto, per sfuggire ai suoi demoni.

Anche nel romanzo di Joseph Conrad, il primo ufficiale era scappato su una scialuppa dalla sua nave in tempesta. Processato e degradato, fu costretto a scappare con la sua ignominia senza riuscire a perdonarsi il suo errore, trovando riscatto solo alla fine in una terra lontana. L’eroismo serve nei film, o nei libri. Francesco Schettino dev’essere costretto ad affrontare altri fantasmi, cercando fra i rimorsi di un errore. Ma come per Lord Jim, ormai niente sarà più come prima.

E’ che ci sono errori che cambiano la vita. L’errore dell’uomo ha sempre qualcosa di imponderabile in sé, qualcosa che resta difficile da giudicare, come il peccato: una paura, un sentimento, a volte solo un pensiero, che ne determina l’azione. In fondo, che cos’è l’errore se non un peccato. Sono le conseguenze che ne classificano la gravità. Ecco, la fuga e l’atto di viltà, hanno una accezione più grave di tutti gli altri, semplicemente perché appartengono anche a noi, alle nostre fragilità e alle nostre miserie, e noi sappiamo bene quanto dobbiamo combattere ogni giorno per superarle. La viltà di un altro ci indebolisce. Ma la viltà di chi comanda ci umilia, ha qualcosa in sé che non è spiegabile se non con il rifiuto e lo spregio. Il generale Giacomo Zanussi raccontava così in un suo diario la fuga del Re e degli Alti Comandi da Roma, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: «Sono passate le sei. Qualche soldato, fermo sui marciapiedi, davanti agli edifici del Ministero della Guerra e dello Stato Maggiore, saluta. Ma gli altri, i più, restano come sono, berretto di traverso, viso torvo, mani in tasca. Annusano la fuga dei capi». Quel peccato costò la vita di 1300 soldati e cittadini anonimi, mentre una fila vociante di 250 ufficiali con le loro famiglie si riversava disordinatamente sulla tolda della corvetta Baionetta nel porto di Pescara, fra insulti preghiere e spintoni, per scappare a Brindisi.

Come si vede, c’è sempre, nella diversità delle azioni, una diversità ancora più evidente di comportamento. Non è solo la dignità del coraggio, o la vergogna della fuga. Il commissario di bordo Manrico Giampedroni risponde quasi sorridendo, sdraiato su un lettino, con la mano e il braccio fasciato e la gamba ingessata, che lui ha fatto quello che doveva fare, mica di più. «Quello era il mio compito», dice. «Credo che anche il comandante abbia fatto il suo». E’ il senso del dovere, quello che ti eleva, la fatica di fare il tuo compito ogni giorno e tutti i giorni. Non è così semplice come sembra. Molti di noi ci riescono. Ma sono i migliori. Perché non devi sbagliare. L’ammiraglio Persano, nel 1866, perse la battaglia di Lissa contro Wilhelm von Tegetthoff, il comandante austriaco che parlava in veneto ai suoi marinai, che erano tutti triestini, istriani, dalmati e veneziani. Ritornò in Italia annunciando una grande vittoria, fino a quando non vennero pubblicati i bollettini della battaglia: gli italiani, nonostante una flotta numericamente superiore, si erano ritirati con due navi corazzate affondate e 620 morti, contro i soli 38 degli austriaci, che non avevano perso alcuna unità. Il proprio compito bisogna farlo sino alla fine. Nessuno riuscì a capire l’enorme e inutile bugia raccontata dall’ammiraglio. Ma certo, per commettere un errore del genere, tutti pensarono che doveva averne nascosto uno più grande.

Quello più grande commesso da Francesco Schettino, non possiamo giudicarlo. Tocca agli altri farlo. Come quei soldati che vedevano correre via la Fiat 2800 grigioverde con il re e il generale Puntoni, anche a noi non resta che guardare. E lui non l’abbiamo visto fra i volti dolenti dei turisti disperati e di tutti quelli che adesso stanno lottando contro il mare e contro il tempo per salvare l’ultima vita. Lì c’erano solo gli uomini di tutti i giorni, quelli che accettano il compito della vita. Fino in fondo.

La Stampa 17.01.12

"«In Italia non c’è speranza». Storia di un cardiochirurgo conteso solo all’estero", di Federica Fantozzi

Sa quanti nodi diversi si possono fare con due mani e un unico filo? Settantadue. L’ho scoperto quando mio nonno materno si è ammalato di cuore. Lui, più di tutti, vedeva in me e mio fratello il futuro e l’orgoglio della famiglia. Sono state la sua morte e la mia passione a indirizzarmi verso la cardiochirurgia».
Luigi Agresti, pugliese, 34 anni, una moglie e un figlio di 2, è diventato cardiochirurgo all’università di Verona. Ma non ha trovato lavoro. «Ho fatto colloqui in tutta Italia. Da Lecce a Vicenza, da Bologna a Reggio Emilia, alle Molinette di Torino, nelle cliniche di Brescia. Ho ricevuto infiniti no».
Aottobre ha scritto la sua rabbia a un quotidiano: «Sono laureato in medicina, specializzato in cardiochirurgia, 1200 interventi in curriculum, e resto disoccupato. Che vita è questa?». Racconta: «Sono stato sommerso di mail. Chi solidarizzava, chi diceva “non lamentarti, si sta peggio”. Emergency mi ha proposto di andare nel loro centro in Sudan. Ai giornalisti ho risposto: di che vi stupite? La mia è una storia comune. Nel 2010 qui ci siamo specializzati in tre: uno è andato a Leeds, uno a Norimberga. Quelli di prima a Edimburgo, a Birmingham, a Stoccarda…».
Agresti non voleva: moglie altoatesina, nonni a Bressanone e Taranto, radici profonde e mutuo sulla primacasa. A Capodanno però gli è scaduto l’ultimo “contrattino” di 4 mesi al pronto soccorso di Bussolengo, dove diagnosticava otiti da mal di denti e corpi estranei nella cornea.
Anche quello costava troppo al datore di lavoro: ferie, permessi, malattia. Ha dovuto decidere in fretta: «Ho scritto a Bristol, Monaco, Innsbruck e Dubai. Ho avuto le risposte in 48 ore. 4 colloqui in 8 giorni. Tutti mi hanno preso. Ho scelto l’università di Innsbruck, a tre ore dalla mia famiglia. Dal 15 febbraio sono assistente cardiochirurgo». A tempo indeterminato? «Assunto senza condizioni e licenziabile nello stesso modo. Tra sei mesi un esame di tedesco. Poi avrò la possibilità di dimostrare quanto valgo».
Qui non ci sono miseria né difficoltà di arrivare alla quarta settimana. C’è un ragazzo (un uomo) ambizioso che forse avrà successo ma lo cerca altrove, e sconfitta per ora è l’Italia. È il ritratto impietoso di un Paese dove le generazioni sono bloccate, il merito non conta, l’unico, cupo orizzonte è il taglio dei costi che divora qualità e talenti: «La mia formazione è costata allo stato 23mila euro annui. Perché non valorizzare una figura ultra-specializzata? Perché sprecare le energie produttive di un 30enne?».
Luigi Agresti si è laureato in medicina a Bari a 25 anni. Figlio di un dipendente dell’Ilva, l’ex Italsider «quella che a Taranto avvelena tutti» e di un’insegnante di lettere alle scuole medie. Adolescenza nel quartiere Montegranaro, poi la crisi dell’acciaio: «Io e mio fratello all’università. Pochi soldi, pochi risparmi. Ricordo le 50mila lire che mia mamma mi passava la domenica, e dovevano bastare per i libri, l’affitto, il cibo e le sigarette. E gli studi di gruppo, i camici comprati per il gusto di
sentirci medici».
Il 28 giugno 2004 la laurea. «Era il compleanno di mio padre, mi disse: che bel regalo. Ma io ero già tagliato fuori. Mi avevano rimandato la tesi due volte, alla discussione il relatore nemmeno si presentò. Perché? Credo che se ne fottano della vita delle persone. E io capii il segnale». Poi una breve esperienza al Sant’Andrea di Roma: «Mi sembrò un reparto tecnologicamente avanzato ma poco produttivo: un intervento al giorno quando la media è 4. Giornate faticose, ma non avevo accesso alla sala operatoria, non acquisivo autonomia». Finì male: «Un luminare mi chiese di andargli a prendere una cassa di grissini in un hotel perché aveva ospiti a cena. Io uscii dalla porta e non tornai più».
Nel 2005 il primo concorso pubblico dove risulta primo degli esclusi.
«Per mantenermi lavoravo a “gettone” sulle ambulanze e in pronto soccorso. Contratti di prestazione d’opera con partita Iva, turni di 12 ore, libera professione senza vincoli: se ce la fai puoi lavorare 30 giorni su 30. Ero fresco, arrabbiato, accettavo tutto. Un mese coprii 30 giorni e 25 notti. Intascai 6 mila euro, mi serviva l’anticipo per il mutuo.Sembra inverosimile, ma lo fanno in molti».
Nel 2006, al secondo tentativo, vince il concorso. Comincia la specializzazione all’Ospedale Civile Maggiore di Borgo Trento. Mesi duri, ritmi allucinanti, molto stress. Due anni con 800 euro al mese poi saliti a 1600. «I primi punti sul cuore, i primi bypass, l’adrenalina». In sala operatoria conosce Roberta, specializzanda in Igiene e Sanità Pubblica con una borsa di studio dell’Alto Adige che al termine le garantirà cinque anni di stipendio. Dal novembre 2010, finita la specializzazione, per Luigi invece la realtà cala come una mannaia. «L’unica proposta che ricevo in cardiochirurgia è un dottorato di ricerca: tre anni in cui fare la stessa attività a mille euro al mese. Un ulteriore parcheggio. Intanto avevano assunto un altro a chiamata diretta, un modo per aggirare i concorsi».
Davvero nessuno ha cercato di trattenerla? «E perché? Ci sono i
nuovi specializzandi pronti a subentrare. Chi mi stima mi ha esortato ad andare via. Io sono bravo come tanti: non dovevano privilegiarmi, se non per l’anima che ho dato in cinque anni. Il direttore del pronto soccorso mi ha detto: “resta, prima o poi ti piazziamo”. È un’espressione che mi fa venire la nausea. E poi, suonerà arrogante, ma la cardiochirurgia è al vertice delle discipline mediche: ha senso fare un addestramento più duro di Full Me- tal Jacket per poi tornare indietro alle mansioni da medico generico? Sa che all’estero non chiedono mai le pubblicazioni? Sanno come funzionano le cose in Italia». Perché ha cambiato idea sul partire? «Se perdi il contatto con la materia, con la sala operatoria, diventi vecchio. Dopo un paio di anni nessuno ti cerca più. Mia madre non capisce la mia scelta, mi dice di pazientare. Ma qui per me la porta principale non si aprirà mai. E se entro dalla finestra, in questo mondo di lupi, resterò per sempre una ruota di scorta». E se, invece, avesse accettato quel dottorato? «Me ne sarei andato tre anni dopo. Come gli altri». Un giorno magari tornerà? «No, ho bruciato i ponti alle spalle. Me ne vado con rabbia, ma la preferisco all’esasperazione dell’attesa».

L’Unità 16.01.12

Vasco Errani: "La nostra lotta contro le mafie"

Che l’infiltrazione mafiosa sia un fenomeno che ci riguarda da vicino è senz’altro vero e non siamo tra quelli che pensano che sia sbagliato parlarne. Al contrario, servono parole e fatti. Qui certo presenta caratteristiche diverse, ma non meno pericolose, rispetto ad altre zone del Paese, in termini di infiltrazione nell’economia locale e avvelenamento del clima di legalità.
Le mafie, in sostanza, hanno deciso di “investire” laddove è più alta la ricchezza, e dunque anche nei nostri territori, utilizzando una tecnica di guerriglia, più che di guerra aperta. Ripulendo capitali, conquistando posizioni, rendite.
Di fronte a questo, in Emilia-Romagna non abbiamo di certo nascosto la testa sotto la sabbia ed abbiamo riconosciuto ed iniziato ad affrontare di petto un fenomeno evidenziato anche da alcune ricerche e da indagini svolte dalle Procure, che abbiamo apprezzato e sempre sostenuto. Non mancano, dunque, gli anticorpi: fra gli amministratori (a Modena ad esempio, numerose sono state le iniziative), fra i magistrati, le forze dell’ordine, i giornalisti, e lo dimostra da ultimo il vostro coraggioso cronista, fatto oggetto di minacce. Il sistema regionale deve essere sempre più attento. Con i fatti promuoviamo assieme una cultura del rispetto e della legalità, creiamo forti antivirus ad ogni livello, per far crescere una forte reazione civica.
Come Regione abbiamo fatto alcune cose concrete. Due leggi regionali, innanzitutto, che non formulano “auspici”, ma che danno concreti strumenti di contrasto alla criminalità. Si parla di economia come alveo nel quale attecchiscono le mafie. Bene, la Regione ha approvato una legge che promuove la legalità e la semplificazione nel settore delle costruzioni, sia a committenza pubblica che privata.ùSettore evidentemente delicato, rispetto al quale puntiamo a valorizzare le imprese virtuose, a semplificare le procedure, riducendo le pratiche cartacee e l’uso indiscriminato del massimo ribasso d’asta negli appalti, ad aumentare i controlli nei cantieri per segnalare appalti nei quali possono annidarsi fenomeni di infiltrazione mafiosa, lavoro irregolare e usura.
A partire da questa legge, abbiamo siglato protocolli con alcune Prefetture: il primo, sui controlli antimafia, ha abbassato le soglie previste dalla normativa statale. Questo vuol dire estendere i controlli per tutti gli appalti e i subappalti di servizi e forniture considerati “sensibili”. Parlo, ad esempio, di trasporto e smaltimento rifiuti, trasporto terra e materiali inerti. Il secondo protocollo ha esteso per la prima volta all’edilizia privata la verifica antimafia. E poi c’è il delicatissimo settore del credito.

Delicato perché anche qui si gioca l’equilibrio della legalità. Abbiamo puntato, in questi anni, sui Consorzi Fidi, sostenendoli in modo tale da assicurare disponibilità di credito al nostro sistema produttivo.

Lo scorso anno, poi, abbiamo varato la legge di prevenzione delle infiltrazioni mafiose e per la diffusione della cultura della legalità. Sono stati finanziati oltre 60 progetti, e gli accordi saranno firmati in Regione proprio lunedì. Si tratta di progetti che hanno coinvolto scuole, Associazioni, Comuni, Province, Università, Polizie locali, Arma dei Carabinieri, Associazione nazionale magistrati. E una parte significativa e rilevante è nel modenese. Da ultimo, ma non certo per importanza, il Patto per lo sviluppo intelligente, promosso con tutte le forze economiche e sociali della regione, fa perno proprio sulla questione della legalità, del rilancio di una economia sostenibile e sana. Dunque non si parte da zero, vogliamo rispondere con i fatti. A costo di essere ripetitivi, reagiamo sempre nelle stesso modo: ci si unisce, si fa rete, si mettono insieme risorse ed energie. Al di là delle differenze che ci sono tra noi. E questo faremo. Per battere un fenomeno che
c’è, che affrontiamo a viso aperto, che ci preoccupa ma che siamo certi di poter combattere in modo adeguato.

Questo è l’impegno della Regione Emilia-Romagna, che intendiamo rendere sempre più solido ed efficace.

Vasco Errani, Presidente della Regione Emilia-Romagna

"Tra sinistra e destra distacco invariato ma i partiti soffrono", di Carlo Buttaroni

Tra sinistra e destra distacco invariato ma i partiti soffrono
Il paradosso. Cala la partecipazione al voto e cresce la spinta all’impegno politico. Tanti piccoli rivoli invece di grandi contenitori, pochi riferimenti comuni. Si diffondono nuove domande e nuove forme di partecipazione che i partiti tradizionali non riescono a intercettare né a interpretare. L’indagine è stata realizzata da Tecnè su un campione rappresentativo di italiani maggiorenni. Sono state intervistate telefonicamente, con metodo CATI, mille persone il 13 gennaio 2012. Il margine di errore è pari a +/3,1%.
Il documento completo sondaggipoliticoelettorali.it

Fra teoria e pratica cresce il sentimento dell’antipolitica. Il problema della coerenza tra teoria e pratica come ricorda Antonio Gramsci si pone soprattutto nei momenti storici di rapida trasformazione, quando realmente le azioni domandano di essere giustificate teoricamente per essere più efficienti, o si moltiplicano i programmi teorici che chiedono, a loro volta, un punto di ricaduta pratico.
Il tema è quanto mai attuale. E si ripropone, con evidenza, nell’indagine di Tecnè, nel momento in cui registra, al tempo stesso, una forte spinta all’impegno politico e la diminuzione della partecipazione elettorale, che sembra preannunciare, invece, un abbandono.
Un’apparente incoerenza, che in realtà è il segno più evidente del passaggio da un sistema composto di grandi e stabili attori politici capaci di rappresentare le correnti sociali a un sistema più complesso, dove convivono una moltitudine di soggetti e di temi, attorno ai quali i cittadini si orientano e si mobilitano indipendentemente dai tradizionali partiti.
Una crescita della fluidità e della contingenza che ha il suo punto di ricaduta nell’eclissi dei grandi interpreti e nell’indisponibilità di riferimenti culturali e valoriali che alimentino relazioni fondate su una comune appartenenza.
Il risultato può apparire una complessiva diminuzione della partecipazione politica, mentre in realtà questa è diventata soltanto meno visibile.
Tanti piccoli rivoli anziché pochi grandi invasi capaci di contenerli. Nuove domande e forme di partecipazione che spesso i partiti tradizionali non riescono a intercettare e delle quali faticano a farsi interpreti.
Eppure le pratiche che si moltiplicano avrebbero bisogno di teorie in grado di spiegarle e darne un senso politico.
Così come le buone idee politiche avrebbero bisogno di un’operatività pratica capace di renderle reali e concrete. Anche il nuovo ha bisogno, pertanto, di politica.
Eppure, apparentemente, sembra affermarsi l’idea opposta, quella dell’antipolitica. Un partito “non-partito” con leader, organi d’informazione e liturgie che di democratico, aperto, inclusivo ha ben poco.
L’antipolitica fa leva su un sentimento diffuso, ampiamente giustificato, e lo trasforma in una protesta cieca, senza prospettive e direzioni, favorendo una forma di apatia, quando non di vera e propria ostilità, verso le stesse istituzioni democratiche.
Cresce, infatti, la critica nei confronti dei partiti ma cresce anche l’antiparlamentarismo, il leaderismo esasperato, l’insofferenza verso il confronto e il dibattito.
Questo perché l’antipolitica non è la cura, ma soltanto il segnale d’allarme che invia il corpo di un sistema che vive gli affanni dell’inadeguatezza.
Un virus che si diffonde e si moltiplica perché la democrazia, a diffeenza di qualsiasi altro regime politico, è inerte da se stessa e non può difendersi.
Il carattere dei suoi anticorpi è nella famosa frase di Voltaire «non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu possa esprimerla».
Se lo scopo dell’antipolitica è mettere in luce i difetti del sistema, denunciarli e tentare di correggerli, i fatti dimostrano, che la “cattiva politica” cresce proprio intorno all’antipolitica, alimentandosi a vicenda, giustificandosi l’uno con l’altra, dando luogo a una struttura del potere rovesciata e reazionaria.
Per opporsi alla deriva antidemocratica c’è una sola strada: alzare la qualità dell’agire politico e promuovere la partecipazione dei cittadini.
La storia insegna cosa c’è in fondo alla strada dell’antipolitica e alla scelta di nutrire gli istinti oscuri dell’opinione pubblica.
La maggioranza dei cittadini è in campo con un rinnovato impegno, ma ha bisogno di trovare un terreno comune dove far crescere valori e idee capaci di interpretare le buone pratiche, e dove i principi, le aspirazioni e i nuovi bisogni possano trovare una concreta applicazione.

L’Unità 16.01.12