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"«In Italia non c’è speranza». Storia di un cardiochirurgo conteso solo all’estero", di Federica Fantozzi

Sa quanti nodi diversi si possono fare con due mani e un unico filo? Settantadue. L’ho scoperto quando mio nonno materno si è ammalato di cuore. Lui, più di tutti, vedeva in me e mio fratello il futuro e l’orgoglio della famiglia. Sono state la sua morte e la mia passione a indirizzarmi verso la cardiochirurgia».
Luigi Agresti, pugliese, 34 anni, una moglie e un figlio di 2, è diventato cardiochirurgo all’università di Verona. Ma non ha trovato lavoro. «Ho fatto colloqui in tutta Italia. Da Lecce a Vicenza, da Bologna a Reggio Emilia, alle Molinette di Torino, nelle cliniche di Brescia. Ho ricevuto infiniti no».
Aottobre ha scritto la sua rabbia a un quotidiano: «Sono laureato in medicina, specializzato in cardiochirurgia, 1200 interventi in curriculum, e resto disoccupato. Che vita è questa?». Racconta: «Sono stato sommerso di mail. Chi solidarizzava, chi diceva “non lamentarti, si sta peggio”. Emergency mi ha proposto di andare nel loro centro in Sudan. Ai giornalisti ho risposto: di che vi stupite? La mia è una storia comune. Nel 2010 qui ci siamo specializzati in tre: uno è andato a Leeds, uno a Norimberga. Quelli di prima a Edimburgo, a Birmingham, a Stoccarda…».
Agresti non voleva: moglie altoatesina, nonni a Bressanone e Taranto, radici profonde e mutuo sulla primacasa. A Capodanno però gli è scaduto l’ultimo “contrattino” di 4 mesi al pronto soccorso di Bussolengo, dove diagnosticava otiti da mal di denti e corpi estranei nella cornea.
Anche quello costava troppo al datore di lavoro: ferie, permessi, malattia. Ha dovuto decidere in fretta: «Ho scritto a Bristol, Monaco, Innsbruck e Dubai. Ho avuto le risposte in 48 ore. 4 colloqui in 8 giorni. Tutti mi hanno preso. Ho scelto l’università di Innsbruck, a tre ore dalla mia famiglia. Dal 15 febbraio sono assistente cardiochirurgo». A tempo indeterminato? «Assunto senza condizioni e licenziabile nello stesso modo. Tra sei mesi un esame di tedesco. Poi avrò la possibilità di dimostrare quanto valgo».
Qui non ci sono miseria né difficoltà di arrivare alla quarta settimana. C’è un ragazzo (un uomo) ambizioso che forse avrà successo ma lo cerca altrove, e sconfitta per ora è l’Italia. È il ritratto impietoso di un Paese dove le generazioni sono bloccate, il merito non conta, l’unico, cupo orizzonte è il taglio dei costi che divora qualità e talenti: «La mia formazione è costata allo stato 23mila euro annui. Perché non valorizzare una figura ultra-specializzata? Perché sprecare le energie produttive di un 30enne?».
Luigi Agresti si è laureato in medicina a Bari a 25 anni. Figlio di un dipendente dell’Ilva, l’ex Italsider «quella che a Taranto avvelena tutti» e di un’insegnante di lettere alle scuole medie. Adolescenza nel quartiere Montegranaro, poi la crisi dell’acciaio: «Io e mio fratello all’università. Pochi soldi, pochi risparmi. Ricordo le 50mila lire che mia mamma mi passava la domenica, e dovevano bastare per i libri, l’affitto, il cibo e le sigarette. E gli studi di gruppo, i camici comprati per il gusto di
sentirci medici».
Il 28 giugno 2004 la laurea. «Era il compleanno di mio padre, mi disse: che bel regalo. Ma io ero già tagliato fuori. Mi avevano rimandato la tesi due volte, alla discussione il relatore nemmeno si presentò. Perché? Credo che se ne fottano della vita delle persone. E io capii il segnale». Poi una breve esperienza al Sant’Andrea di Roma: «Mi sembrò un reparto tecnologicamente avanzato ma poco produttivo: un intervento al giorno quando la media è 4. Giornate faticose, ma non avevo accesso alla sala operatoria, non acquisivo autonomia». Finì male: «Un luminare mi chiese di andargli a prendere una cassa di grissini in un hotel perché aveva ospiti a cena. Io uscii dalla porta e non tornai più».
Nel 2005 il primo concorso pubblico dove risulta primo degli esclusi.
«Per mantenermi lavoravo a “gettone” sulle ambulanze e in pronto soccorso. Contratti di prestazione d’opera con partita Iva, turni di 12 ore, libera professione senza vincoli: se ce la fai puoi lavorare 30 giorni su 30. Ero fresco, arrabbiato, accettavo tutto. Un mese coprii 30 giorni e 25 notti. Intascai 6 mila euro, mi serviva l’anticipo per il mutuo.Sembra inverosimile, ma lo fanno in molti».
Nel 2006, al secondo tentativo, vince il concorso. Comincia la specializzazione all’Ospedale Civile Maggiore di Borgo Trento. Mesi duri, ritmi allucinanti, molto stress. Due anni con 800 euro al mese poi saliti a 1600. «I primi punti sul cuore, i primi bypass, l’adrenalina». In sala operatoria conosce Roberta, specializzanda in Igiene e Sanità Pubblica con una borsa di studio dell’Alto Adige che al termine le garantirà cinque anni di stipendio. Dal novembre 2010, finita la specializzazione, per Luigi invece la realtà cala come una mannaia. «L’unica proposta che ricevo in cardiochirurgia è un dottorato di ricerca: tre anni in cui fare la stessa attività a mille euro al mese. Un ulteriore parcheggio. Intanto avevano assunto un altro a chiamata diretta, un modo per aggirare i concorsi».
Davvero nessuno ha cercato di trattenerla? «E perché? Ci sono i
nuovi specializzandi pronti a subentrare. Chi mi stima mi ha esortato ad andare via. Io sono bravo come tanti: non dovevano privilegiarmi, se non per l’anima che ho dato in cinque anni. Il direttore del pronto soccorso mi ha detto: “resta, prima o poi ti piazziamo”. È un’espressione che mi fa venire la nausea. E poi, suonerà arrogante, ma la cardiochirurgia è al vertice delle discipline mediche: ha senso fare un addestramento più duro di Full Me- tal Jacket per poi tornare indietro alle mansioni da medico generico? Sa che all’estero non chiedono mai le pubblicazioni? Sanno come funzionano le cose in Italia». Perché ha cambiato idea sul partire? «Se perdi il contatto con la materia, con la sala operatoria, diventi vecchio. Dopo un paio di anni nessuno ti cerca più. Mia madre non capisce la mia scelta, mi dice di pazientare. Ma qui per me la porta principale non si aprirà mai. E se entro dalla finestra, in questo mondo di lupi, resterò per sempre una ruota di scorta». E se, invece, avesse accettato quel dottorato? «Me ne sarei andato tre anni dopo. Come gli altri». Un giorno magari tornerà? «No, ho bruciato i ponti alle spalle. Me ne vado con rabbia, ma la preferisco all’esasperazione dell’attesa».

L’Unità 16.01.12