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"Tra euroscettici e populisti la missione della sinistra che può vincere" di Bernardo Valli

Alle origini fu un nome della mitologia, quello della principessa fenicia rapita e deposta sulla spiaggia di Creta da un toro bianco che era Zeus. Adesso per molti suoi cittadini sulla parola Europa c’è una fredda, indecifrabile impronta. Evoca valori concreti ma inafferrabili. Zattere sull’oceano economico e finanziario. In particolare una moneta non sempre amica, dietro la quale si annidano i tanti demoni del mercato: le banche, le società finanziarie, gli speculatori. Una moneta sganciata dai governi nazionali succubi del Grande fratello di Bruxelles di cui si diffida, anche perché lo si pensa tedesco. È un peccato, alla nostra Europa manca un po’ di quel “mito” moderno che è la politica.
Le elezioni europee sono di solito noiose, non esercitano il richiamo di quelle nazionali, né sembrano riguardare problemi vicini come quelle locali.
IL VOTO del 25 maggio si differenzia tuttavia dai precedenti perché è destinato a rafforzare le prerogative del Parlamento, e quindi a infondere più politica nell’Unione. E la politica è la linfa indispensabile per darle l’energia di cui manca. Sull’Europa pesa l’errata immagine di un’impresa dedita esclusivamente all’economia, come se quella economica fosse un’attività del tutto indipendente dalla politica. In una situazione di crisi questa visione strabica induce a concentrare sull’Europa gran parte dell’insoddisfazione, della collera risentite dalle società, in particolare quelle sottoposte a cure austere, volute da un’autorità sovranazionale vista come una matrigna crudele e senza volto. Sto tratteggiando un panorama mentale da psicanalisi. Meglio ancorarlo alla storia.
Il voto coincide questa volta con il centesimo anniversario della Grande guerra iniziata nel 1914. La ricorrenza obbliga a evocare la fine della vecchia Europa, sepolta da quel conflitto sotto una montagna di cadaveri. Fu per certi aspetti il funerale di un glorioso e rissoso continente, perché le nazioni che lo componevano furono via via declassate. La decadenza della sua potenza politica e militare è continuata per tutto il secolo, con le rivoluzioni, le dittature, i conflitti, i genocidi derivati dal 1914. Le nazioni europee sono state ridimensionate, hanno ceduto il passo agli Stati Uniti d’America, la sola nazione uscita vittoriosa dal ‘900. Tuttavia l’Europa degradata ha avuto una sua rivincita con la comunità in cui regna pace dalla sua fondazione e dove, nonostante le crisi e i costosi ampliamenti, si è affermato un progresso sociale ed economico mai raggiunto dagli Stati-nazione. Dei quali ci sono ancora tanti nostalgici. Il loro progetto è di erigere di nuovo i confini nazionali, per farne delle barricate contro i mostri della mondializzazione.
Uno dei più autorevoli e rispettabili nostalgici è Jean-Pierre Chevènement, ex ministro socialista e patriota di sinistra. Chevènement considera un errore gravissimo della Francia l’avere accettato «la dissoluzione della sua sovranità in un magma di impotenze coniugate». Per lui l’Unione europea non è la sola in grado di colmare la debolezza delle singole nazioni ma un vasto protettorato americano. Gli argomenti da contrapporgli, benché validi, possono risultare fastidiosi. Un’insistente retorica ha infatti logorato il discorso europeista. Il passaggio dalla memoria alla storia disperde inoltre i ricordi, senza i quali si smarrisce la capacità di mettere a confronto vecchie e nuove realtà.
Gli umori non sono gli stessi nella comunità dei ventotto Stati. Un paese emerso un quarto di secolo fa dal comunismo reale come la Polonia ha appena festeggiato il decimo anniversario dell’adesione all’Ue. La celebrazione è stata trionfale: il reddito procapite è passato negli ultimi nove anni da 5.900 a 8.600 euro. Le istituzioni europee hanno consentito alla società polacca di crescere più delle altre. A Varsavia si dice che «l’Europa ha fatto uscire il paese dall’ombra». L’Ucraina, secondo paese del continente per la grandezza del territorio, è sull’orlo della guerra civile per la contesa tra chi vuole entrare nell’Ue e chi preferisce la Russia. Invece a Londra, capitale di una antica e nobile nazione, il primo ministro conservatore promette per il futuro un referendum sulla permanenza nell’Ue del Regno Unito. Ed è significativo che i laburisti non abbiano neppure invitato a partecipare alla campagna elettorale il candidato della sinistra europea, Martin Schulz. In un’altra antica e nobile nazione, la Francia, il Front National, campione di antieuropeismo, potrebbe uscire dalle urne come il partito più forte. Un primato provvisorio, che non dovrebbe estendersi alle consultazioni nazionali.
L’Europa d’oggi è anemica. I suoi globuli rossi sono i consensi dei cittadini. E tra di loro cresce lo scetticismo. Non è un rifiuto netto, piuttosto un sentimento in cui si alternano indifferenza, sfiducia, rancore. L’Europa è un capro espiatorio. Una volta si preferiva dire «governo ladro». Stando a uno studio recente, più approfondito dei numerosi, inflazionati sondaggi che sembrano avere il compito di deprimerci, il sostegno di fondo all’integrazione europea è restato abbastanza alto e stabile durante tutta la crisi. Secondo le conclusioni di Sara B. Hobolt, della London School of Economics and Political Science, l’Ue non suscita entusiasmo, tutt’altro, ma le soluzioni alternative non ispirano fiducia. Di riflesso maggioranze sia pure non traboccanti preferiscono quindi un’integrazione rafforzata all’avvenire incerto dei governi messi individualmente davanti alle difficoltà economiche e politiche.
Questo non significa che le spinte verso un’uscita dall’euro, o addirittura dall’Unione, non si siano intensificate e non favoriscano l’elezione di un Parlamento con all’interno una forte opposizione (il 30 per cento stando ai sondaggi) alla sua stessa sopravvivenza. Se lo scetticismo è in aumento non lo è al punto da mettere in serio pericolo le istituzioni. Un consistente numero di deputati eurofobi costituisce una minaccia relativa trattandosi di una forza frantumata in tanti movimenti non sempre alleati.
L’appuntamento del 25 maggio dovrebbe essere un momento intenso della democrazia europea ma è dominato dai problemi nazionali e quindi non accende un adeguato interesse. L’astensione si annuncia alta. I media lo trattano come un test cui sono sottoposte le società politiche dei diversi paesi. Un test senza una conseguenza immediata sul piano nazionale e poco convincente perché il voto con la proporzionale favorisce i piccoli partiti, in particolare quelli protestatari, che sono i più ascoltati. Singolare, indicativo è l’atteggiamento del Front National di Marine Le Pen e del Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo. Entrambi si propongono di chiedere lo scioglimento dei rispettivi parlamenti nazionali nel caso di un loro netto successo alle europee, come se quest’ultime riguardassero direttamente i governi di Parigi e di Roma, e il Parlamento di Strasburgo fosse soltanto un fastidioso e secondario obiettivo del voto.
Durante la crisi si è visto quanto abbia contato il colore politico della Commissione e del Parlamento. Le prossime elezioni accentueranno questo aspetto al quale non si è prestata finora la dovuta attenzione, avendo prevalso la generica accusa di «tecnocrazia» rivolta all’Ue, quasi fosse politicamente asessuata. O come se le decisioni di Bruxelles fossero in realtà dettate da Berlino. Il 25 maggio gli europei potranno scegliere il futuro presidente dell’esecutivo comunitario, poiché egli sarà eletto poi dal Parlamento come in una vera democrazia. Il successore del portoghese José Manuel Barroso, un conservatore, potrebbe essere il tedesco Martin Schulz, un socialdemocratico. In tal caso, da non escludere, il clima politico cambierebbe a Bruxelles. Anche perché il nuovo presidente di sinistra avrebbe alle spalle il Parlamento che lo ha eletto, e del cui voto i ventotto capi di Stato o di governo dovranno «tener conto».
La politica, quindi la democrazia, compie un passo avanti nelle istituzioni europee. L’offerta è ampia. Se Martin Schulz è il campione della sinistra riformista, quello dei conservatori è il lussemburghese Jean-Claude Juncker; quello dei liberali è il belga Guy Verhofstadt; quello di una sinistra più radicale il greco Alexis Tsipras; mentre i verdi mettono in campo il francese José Bové e la tedesca Ska Keller. Gli eurofobi e l’estrema destra non hanno designato candidati alla presidenza. Loro hanno come obiettivo di boicottare l’Unione europea.
Conservatori e liberali prevalgono dal 1999 nella Commissione e in Parlamento. Sui ventotto membri dell’esecutivo soltanto quattro sono socialisti, perché questo era il rapporto di forza nel Consiglio europeo del 2009 quando i capi di Stato e di governo designavano in gran segreto il presidente della Commissione. Il tedesco Martin Schulz non è il candidato di Angela Merkel. La cancelliera cristiano-democratica non lo sostiene. E lui, socialdemocratico ottimista, vede un movimento di fondo in favore della sinistra, e una tendenza al ribasso dei partiti popolari (centrodestra) che hanno dominato nell’ultimo decennio. Se il pronostico di Schulz si rivelerà esatto, e lui conquisterà la presidenza della Commissione, il patto di stabilità e di crescita continuerà ad essere applicato, ma si punterà con maggior decisione sulla crescita.

La Repubblica 10.05.14