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"Il codice della mezza mafia", di Francesco Merlo

Il mezzo mafioso si sente un mafioso e mezzo, e dunque Dell’Utri è patacca pure nella fuga proprio perché è un uomo di mezza mafia, uno dei tanti rovinati dal film il Padrino dove il vecchio satrapo (Hyman Roth) se la gode in Florida e nella Cuba di Battista. Dell’Utri voleva godersela nella Beirut a 5 stelle, con carte di credito e telefonino, e non infilarsi nella botola dei mafiosi veri come il Malpassoto e Provenzano, e neppure in un’altra vita comeBuscetta e forse Matteo Messina Denaro. La mezza mafia, nel codice penale, si chiama concorso esterno. Prima che un reato è un’antropologia fatta di mafiosità (che è diversa dalla mafia) e di narcisismo. Dell’Utri è di quelli che si mettono in posa con i libri al posto delle pupe, e ora la sua fuga è sgangherata come i diari finti di Mussolini che storici autorevoli accreditarono mentre il mezzamafia li definiva «presunti veri» con il sigaro della sbruffoneria al posto della cicoria di Provenzano.
E fu presunzione da mezza mafia ridurre il boss Mangano a corpo scelto di Silvio e poi dirgli al telefono: Berlusconi «non suda», non sgancia. Pensava di prendere a servizio la mafia senza mettersene a servizio, credeva di avere più corna del diavolo. Raffaele Lombardo, per esempio, governava con l’antimafia a Palermo mentre a Catania trafficava (dall’esterno) con la mafia sempre esibendo un sicilianismo fatto di baffi, riportino e “sgruscio di carrettu”. L’antropologia da mezza mafia è la stessa di Cuffaro che, dopo l’orgia di baci e di cannoli, teneramente fu l’unico ad infilarsi in carcere. Ed è quella di Mannino, che esibiva il latino e il greco come prezzo che il vizio paga alla virtù: è stato assolto perché l’antropologia non esclude l’innocenza penale.
Solo in Dell’Utri la mezza mafia diventa paradigmatica , a partire dal gessato e dalla scriminatura “come te l’aspetti”, l’incedere con la spalla “sciddicata”, gli odori di barbiere – allume, Prep e Floid – e quel parlargli all’orecchio e il suo rispondere a occhiate che da “Fortunato al Pantheon”, tra Pera, Previti, Verdini, Jannuzzi e Micciché, lo rendevano capotavola di un tavolo rotondo: tutti gli occhi a lui mentre Fortunato (buonanima) grattava una razione doppia di tartufo al predatore alfa. Finché arrivava Silvio e, per stare al gioco, gli faceva il baciamano e lo chiamava “don Dell’Utro” .
Nessuno ha mai capito chi, tra loro, era il doppio, chi il servo e chi il padrone, ma solo che l’uno era l’autenticità dell’altro. L’uno portava “la Sicilia come metodo”, la sostanza di un “saperci fare”, e l’altro lo copriva d’oro
sino ai 21 milioni di euro con cui gli ha comprato la villa Comalcione che ne valeva 9: «Mi arrivava un busta anonima in ufficio con dentro delle banconote». E la casa? «Un giorno mi disse: “vedo che ci stai bene, tienila, è tua”».
Senza sottovalutare il dettaglio dell’allegro “concierge” Bonaiuti che lascia Forza Italia «perché sono un moderato» , è l’arresto di Beirut che seppellisce l’epoca dei consigliori di Berlusconi ormai sostituiti dalla Pascale e dalla Rossi, due sorelle Materassi che, come le “sanguette”, controllano l’eccesso di liquidi nella decomposizione. Dell’Utri è letteratura non solo perché rimanda all’ideologia delle mezze cose, alle mezze porzioni, alla consapevolezza nascosta di essere mezzi uomini ma perché il concorso esterno, che neppure il Libano conosce, è una vera specialità italiana, un Paese fuori e dentro la modernità, la laicità, il capitalismo e la legalità; il Paese dove è stato condannato il mezzo poliziotto e mezzo mafioso Contrada, il Paese del mezzo statista e mezzo mafioso Andreotti.
E scappano sempre nei “non luoghi” i ceffi italiani. Il Brasile-paradiso di Battisti è come la Beirut di Dell’Utri: lì spacciano rivoluzione, qui corruzione. La sua geografia ulteriore, i suoi “altrove” di bengodi sono Santo Domingo, le Bermuda, la Guinea-Bissau e il Libano. Nella mappa che, direbbe Benjamin, è il suo curriculum vitae, c’è anche la terrazza dell’Eden (alle spalle di via Veneto) e la via Giulia del ristorante “Assunta Madre” dove tutti sembrano comparse del film “Terapia e pallottole”, proprio come Dell’Utri quando disprezzava la tv asservita: «Io vado solo da Santoro». Già nella scenografia nera e nell’esagerazione delle bollicine e dei vassoi di pesce ci sono la posa, il codice, il posizionamento del concorso esterno, di chi non potendo avere i galloni della piena appartenenza lascia intendere di essere il pupo che controlla il puparo e assume su di sé anche il folclore: «Persino io – diceva Dell’Utri – guardando me stesso dall’esterno, mi riconosco come mafioso… ». E forse è un furbo il proprietario che si chiama Gianni ma si fa chiamare Johnny, regalando un brivido di mezza mafia in più agli avventori, tutti squadrati dagli agenti dell’Antimafia che ha sede poco più in là.
C’è, infine, il dettaglio shakespeariano: Alfano ha voluto dare l’annuncio della cattura. Il giorno prima aveva dichiarato: «In politica non ci sono nemici da combattere». Silvio ha commentato a mezza voce: «Perché per lui in politica ci sono solo amici da tradire». Ecco,
appunto, il codice della mezza mafia.

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Tutti i segreti di don Marcello, di ATTILIO BOLZONI

Se un giorno dovesse ricordarsi — e finalmente parlare — della Milano degli anni ‘70 e di quei «signori» impomatati che venivano da Palermo, quanti segreti potrebbe raccontare? Lui, che è stato il custode dell’avventura del Cavaliere fin dagli inizi?

MENTRE organizzava incontri con i boss, lui che ha partecipato alla nascita di Forza Italia, quanti dettagli inconfessabili nasconde ancora nei suoi armadi?
La storia della mafia e dei suoi territori contigui è ricca di tradimenti e risentimenti, doppiezze, infedeltà, interessi. Perché dovrebbe fare mai eccezione proprio don Marcello Dell’Utri, ex impiegato di banca in una cassa rurale di Belmonte Mezzagno (provincia di Palermo, abitanti 11.244, altitudine 356 metri) e vent’anni dopo uno degli uomini più potenti d’Italia al fianco di un milanese che per tre volte sarebbe diventato Presidente del Consiglio?
Forse basta ricordare come – solo un anno e qualche mese fa – parlava Dell’Utri. Erano i giorni in cui bisognava decidere le candidature per le elezioni politiche del febbraio 2013, il “problema” era Marcello già condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno.
Dichiarazione di Berlusconi: «Temo che gli chiederemo un grande sacrificio perché una sua candidatura porterebbe critiche, nonostante le sue straordinarie qualità morali». Risposta di Marcello: «Dico solo che basta ricordarsi dove sto io, dove sono sempre stato…Continuerò a candidarmi, non lo farò più solo da morto… ». Seconda dichiarazione di Berlusconi: «Vedremo». Seconda risposta di Marcello: «Io non sono un amico acquisito nella stagione politica, sono un amico di vecchia data… la mia storia è la stessa di Berlusconi. Se Berlusconi mi vuole escludere l’unico modo è di rinnegare il mio passato». E poi: «Forse Silvio di soldi me ne deve ancora…». Tutto chiaro? Gli aveva mandato a dire con il suo stile: stai attento, un onorevole muto è molto più ragionevole di un imputato che rischia la galera, se finisco male io finisci male anche tu.
Il collegio blindato — nel 2013 — Dell’Utri non l’ha avuto e, qualche giorno fa, è stato costretto a fare rotta verso Beirut alla vigilia di una sentenza.
E ora cerchiamo di elencare quali segreti custodiscono uno dell’altro, in quali pieghe della vicenda italiana si nascondono antichi patti tra i due, quali personaggi (assassini, trafficanti, mandanti di delitti eccellenti) hanno incrociato l’(ex) Cavaliere all’inizio della sua spericolata scalata.
Sono 25 gli anni della «vicinanza» di Marcello Dell’Utri con la mafia. Prima con l’aristocrazia criminale palermitana, poi con i Corleonesi di Totò Riina. E dietro, dietro c’è sempre l’ombra di Berlusconi. I nomi: si comincia con Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino », con Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. A quel tempo Marcello è segretario particolare di Silvio. È il 1970. Solo frequentazioni pericolose. Poi, il salto. Con certezza è nel 1974. Arriva ad Arcore Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova che fissa la sua dimora fino all’ottobre del 1976 in via San Martino 42. È in quel momento che il legame fra i palermitani del boss Stefano Bontate e la coppia siculo-milanese diventa più strutturato.
In quei mesi tutto si fa alla luce del sole. I capi di Cosa Nostra salgono a Milano per incontrare Berlusconi in via Larga («Alla riunione eravamo presenti io, Tanino Cinà, Stefano Bontate, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi», rivelerà il pentito Francesco Di Carlo), pranzi, cene, soldi che passano di mano. Avrà pensato a questo Dell’Utri, l’anno scorso, quando ricordava a Silvio che erano amici di «vecchia data»? Dalla metà degli anni ‘70 alla fine degli anni ‘80: antenne (gli interessi di Bontate nel settore televisivo) e palazzi (il risanamento del centro storico di Palermo), i rapporti con il finanziere Filippo Alberto Rapisarda e quelli con i soci dell’ex sindaco Vito Ciancimino, le telefonate al commercialista (Giuseppe Mandalari) di Totò Riina, gli intrecci con le cosche catanesi. Tutto è dentro le carte su Dell’Utri, la mafiosità dell’ex segretario di Silvio accertata al cento per cento.
Fino al 1992. Poi, è un altro discorso. Poi nasce Forza Italia e Dell’Utri diventa «meno» mafioso, ci sono le stragi Falcone e Borsellino e Dell’Utri allenta il suo abbraccio con quelli di laggiù, una mezza dozzina di pentiti (creduti per tutto il resto) non vengono dichiarati attendibili sulla «disponibilità» di Cosa Nostra a sostenere Forza Italia dopo la fine dei vecchi partiti. Questo certificano gli atti giudiziari in nome del popolo italiano.
Di sicuro, qualche altro dettaglio Marcello Dell’Utri lo conoscerà. Più di quanto abbiano scoperto fino ad ora i giudici. Sul denaro che ha viaggiato da Palermo a Milano, su quell’altro che negli ultimi mesi è arrivato a Santo Domingo (c’è un’indagine per verificare se, per caso, Berlusconi stia restituendo soldi a prestanome di boss nel centro America), sui vincoli con alcune consorterie calabresi.
Di tutta questa melma, una volta, è stato chiesto conto a Berlusconi. Era il 26 novembre del 2002 e i pm di Palermo domandarono al Presidente del Consiglio: ha qualcosa da dire? Lui, Berlusconi, si avvalse della facoltà di non rispondere.

La Repubblica 13.04.14