attualità, politica italiana

"Nelle urne sarà una partita a due", di Ilvo Diamanti

Non ci sono ancora dati attendibili, in vista delle Europee. Stimare in modo credibile le scelte di voto, con troppo anticipo, è difficile. E, prima ancora, rischioso. Basti l’esempio delle elezioni politiche del 2013. E fare pronostici, partendo dai sondaggi, oggi è ancor più insidioso dell’anno scorso.
UNPO’ per i limiti dello strumento. Ma soprattutto perché sono molti gli elettori indecisi, che scelgono all’ultimo momento se e per chi votare. L’anno scorso, ad esempio, secondo le indagini del LaPolis dell’Università di Urbino (pubblicate in Un salto nel voto, Laterza), oltre il 10% degli elettori del M5s (3-4 punti, in termini complessivi) maturarono la loro scelta negli ultimi due giorni. I last minute voterpremiarono largamente il M5s ai danni del Pd.
Oggi, comunque, per azzardare stime di voto — usandole come previsioni — c’è la complicazione del tempo. E del tipo di elezione. Manca ancora molto. E, soprattutto, si tratta di elezioni europee. Che gli elettori hanno sempre affrontato in modo diverso, rispetto alle altre consultazioni. Usandole, di frequente, come un test per lanciare messaggi “interni” ma anche “esterni” al Paese. Contro le forze politiche nazionali e i governi europei. Tanto più che si vota con un sistema proporzionale, senza alleanze né alleati di coalizione. In più, c’è il problema dell’astensione. La quota di chi non si reca alle urne, infatti, è sempre più ampia rispetto alle altre elezioni. Nel 2009, in Italia, votò il 65% degli aventi diritto: 10 meno delle politiche di un anno fa. Per questo è difficile cogliere tendenze attendibili, in questa fase. Anche se, per quel che mi riguarda, io mi sono fatto un’impressione, abbastanza precisa. Confortata solo in parte dai sondaggi. Personalmente, infatti, io credo che si delinei
un risultato diverso, rispetto alle elezioni politiche dell’anno scorso, quando sono emerse tre grandi minoranze. Fra loro incompatibili oppure alternative. Dopo un anno di governi di intese larghe e nebulose; un anno di frazionamento partitico, a destra, e di cambiamento di leadership — e di premiership — a sinistra: penso che molto sia cambiato, rispetto al 2013. Ritengo, in particolare, che in questa occasione le grandi minoranze, in grado di ottenere un risultato importante, siano, di nuovo, due. Renzisti e Grillini. Che il voto si concentrerà, dunque, sui due principali partiti che oggi occupano la scena politica. Il (post) Pd, unica maggioranza. E il M5s, unica forza di opposizione.
Le ragioni per cui, a mio avviso, potrebbe avvenire ciò sono diverse. Tutto sommato, prevedibili e comprensibili. Anzitutto, vent’anni di Berlusconismo hanno abituato gli italiani a personalizzare il loro voto. A votare pro o contro Berlusconi. L’anno scorso questo gioco non ha funzionato. Perché Berlusconi, ormai, è invecchiato. Più delle inchieste della Magistratura, l’hanno logorato anni e anni di governo e di promesse senza esito. Il mito dell’imprenditore e dell’individualismo possessivo. Reso in-credibile dalla crisi. Come la figura che ne è simbolo e interprete. Appunto. Certo, Berlusconi è in grado di sopravvivere alla fine del Berlusconismo. Anche perché è stato cooptato. Da Renzi. A cui garantisce sostegno per le riforme istituzionali — anche se formalmente sta all’opposizione. Ottenendone, in cambio, una legittimazione che gli permette di resistere. O, almeno, di esistere. Renzi. È lui, ormai, il leader di riferimento. Il “capo” (come scandiscono Mauro Calise e Fabio Bordignon nei loro ultimi saggi). Difficile non misurarsi pro o contro di lui. Ma contro di lui sono pochi, a potersi schierare, tra le forze politiche dell’era berlusconiana. Sel (accanto a Tsipras), i leghisti. Mentre i problemi gli giungono, semmai, dall’interno. Da quel partito incompiuto che è il Pd. Renzi, tuttavia, l’ha addomesticato. Dopo aver vinto le primarie, ha agito “come se” il partito non ci fosse. D’altronde, gli altri partiti della maggioranza senza di lui non esisterebbero. I centristi: chi li ha visti? Il Ncd: pare impossibile, in futuro, che si allei con Berlusconi. Ultimo segnale: il passaggio di Bonaiuti, storico portavoce di Berlusconi.
FI, come ho già detto, fa l’opposizione a parole, ma agisce da complemento al premier. Mentre Renzi tratta con Berlusconi per neutralizzarlo e intercettare i suoi voti, più che per restituirgli credito.
Così, non resta che Grillo. Insieme al M5s. L’unico oppositore e l’unica opposizione. L’unico canale del dissenso tematico — sulle spese della politica, le regole istituzionali e costituzionali. Ma soprattutto, del dissenso-e-basta. Contro lo Stato centrale, contro l’Europa dell’Euro, contro il ceto politico e la classe dirigente. Per questo Grillo cavalca e alimenta ogni manifestazione anticentralista. Da ultimo, in modo clamoroso, la mobilitazione per l’indipendenza regionale promossa e gestita dai “venetisti”. Condivisa da gran parte dei suoi elettori (circa il 60%, secondo Demos ma anche Ipsos). L’in-dipendenza, secondo l’interpretazione di Grillo, come non-dipendenza da Roma, dallo Stato, dall’Europa. In nome della democrazia della Rete. La democrazia diretta, senza mediazioni e senza mediatori. Salvo Grillo, Casaleggio e il loro sistema operativo.
Per questo Grillo ha, ormai, puntato le sue armi — retoriche e polemiche — con un solo, unico bersaglio. Renzi. “Colpevole” di essere visibile, anche troppo. Capace di comunicare, di usare i media. Come lui. Grillo. Veterano delle piazze, dei teatri, delle arene. Della tivù. Cerca, così, di personalizzare l’alternativa pro o contro Renzi. Di trasformarla in una contesa fra renzismo e grillismo. Un po’ come al secondo turno delle presidenziali oppure, per analogia, delle elezioni per il sindaco. Com’è avvenuto a Parma, nel 2012, quando Pizzarotti intercettò il voto della destra, determinata a battere la sinistra. Certo, le europee non sono le amministrative né le politiche. Tanto meno le presidenziali. Però, l’ election day associa il voto europeo a quello amministrativo. In molte città. Grillo non è Pizzarotti. E Renzi è un Capo capace di polarizzare il consenso e la competizione. Per cui non mi sorprenderei se, il prossimo 25 maggio, il voto si bi-personalizzasse. E i primi due partiti — Pd e M5s — e i loro Capi ottenessero, insieme, i due terzi dei voti. Riproponendo quel “bipartitismo imperfetto” che, secondo Giorgio Galli, ha segnato la storia della nostra Repubblica.

La Repubblica 14.04.14