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Renzi: "Andiamo a vincere"

“Noi che stiamo rinnovando l’Italia siamo under 40 e abbiamo bisogno di avere persone, come Chiamparino, più esperte, sagge e autorevoli che ci prendono da parte e ci dicono che cosa stiamo sbagliando. Non montiamoci la testa, rimaniamo noi stessi”. Così Matteo Renzi ha esordito dal palco del Palaisozaki a Torino, dove il Pd ha aperto la campagna elettorale per le elezioni europee e amministrative del 25 maggio, insieme al candidato presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino.

“Sono d’accordo con Sergio – ha aggiunto -, la sinistra che non cambia non è sinistra, diventa destra e perde la dignità di essere sul fronte del progressismo. E noi anche in Europa andiamo per cambiarla”.

Ai candidati a sindaco del Pd nei 4000 Comuni al voto il 25 maggio, Renzi ha suggerito: ” Siate coraggiosi, siate curiosi, e soprattutto circondatevi di persone che sappiano dirvi di no e segnalarvi quando state sbagliando. Siate attenti agli ultimi – ha aggiunto – ma anche al fatto che intorno a noi c’è una società che sta cambiando”.

Nel suo discorso Renzi ha poi toccato tutti i temi caldi dell’agenda di governo, a partire da quello delle riforme: “Entro il 25 maggio dobbiamo arrivare al superamento del bicameralismo perfetto”, ha detto il presidente del Consiglio, sottolineando e scusandosi per il fatto che, per questa ragione, non avrà molto tempo per la campagna elettorale.

A proposito del taglio degli stipendi dei manager, per Renzi: “Chiedere un sacrificio ai manager non è una punizione. E’ inaccettabile che i super stipendi siano aumentati del 170 per cento mentre le famiglie sono in sofferenza. Pensavo di essere criticato per il
tetto, troppo alto, a 238mila euro. Accusateci pure di demagogia ma è una questione di credibilità delle istituzioni, noi resteremo in contatto con la realtà”.

Passando a parlare di lavoro, il segretario del Pd ha detto: “’Sul lavoro il centrosinistra deve discutere sul modello per il futuro, non dividersi sul passato. Noi siamo pronti a cambiare noi stessi ma le regole che raddoppiano la disoccupazione non funzionano, non è la ricetta che salva l’economia. E’ inutile essere il partito del lavoro se non diamo occupazione”.

E a proposito di pensioni, il premier ha annunciato che il 2015 sarà l’anno dell’intervento sulle pensioni, “con un aiuto a chi guadagna meno di mille euro”.

Renzi è poi tornato sul tema a lui caro della scuola: “Se non siamo capaci di restituire
dignità sociale alla scuola – ha detto – , il Pd non ha senso. Nessun Paese esce dalla crisi se non mette l’istruzione al centro. Noi abbiamo fatto una cosa semplice, mettendo a disposizione 3,5 miliardi di euro perché entro la prossima estate possano essere fatti tutti gli interventi chiesti dai Comuni. Ma il Pd deve andare casa per casa, piazza per piazza ad ascoltare insegnanti e genitori per capire cosa va fatto per restituire dignità all’istituzione scuola. Su questo il Pd deve tornare a fare il Pd”.

Nella parte finale del suo intervento, Renzi ha detto: “Noi non abbiamo firmato un contratto, stiamo a palazzo Chigi solo se si può cambiare l’Italia, altrimenti si fa un altro mestiere”.

“Nei prossimi mesi – ha esortato – non perdiamo tempo a litigare tra noi,

In chiusura, un accenno a Grillo: “Non possiamo fare campagna elettorale inseguendo ogni giorno il blog di Beppe Grillo – è stato il ragionamento di Renzi -.Lasciamolo fare, lasciamolo nel suo brodo: dovevano cambiare il palazzo e il palazzo sta cambiando loro. La bellezza della politica la riporteremo a casa noi, ma per fare questo il Pd non perda tempo a litigare al proprio interno. C’è tanto da fare, dobbiamo andare pancia a terra per cambiare l’Italia”.

“Andiamo a vincere. Il futuro è già iniziato, il futuro siete voi”, ha concluso Renzi.

www.partitodemocratico.it

Renzi: «Violenta lotta alla burocrazia», di Vladimiro Fruletti

«L’Italia c’è già, basta liberarla da tutto ciò che c’è in più». È il modello Michelangelo quello che il premier, di fronte agli imprenditore del mobile alla Fiera di Milano, rilancia. Quel Michelangelo che a chi gli chiedeva come fosse riuscito a far venire fuori il David da un blocco di marmo delle Apuane spiegava che era stato abbastanza semplice: «è bastato togliere tutto il marmo che c’era in più». E per Renzi il marmo in eccesso è rappresentato dal sistema burocratico opprimente, da un fisco da incubi («più che degli F35 ci sarebbe da preoccuparsi del F24»), da una giustizia che ha tempi «quattro volte superiori a quella dei paesi concorrenti», da una politica impegnata nelle «occupazioni di poltrone» e da un mercato del lavoro meno ingessato. «Semplificare non vuol dire precarizzare anche perché di precarietà ne abbiamo già abbastanza» nota Renzi. Vuol dire, spiega agli imprenditori del mobile, che servono meno regole, ma più chiare che tolgano a chi fa impresa «la paura di assumere». Detta così la ricetta appare anche semplice. In realtà Renzi sa che più che lo scalpello di Michelangelo sarà chiamato a usare il martello pneumatico. Compito non facile ammette: «noi stiamo cercando di far pagare chi non ha mai pagato, loro cercheranno di farla pagare a noi». E tuttavia annuncia che sarà necessaria una «violenta lotta contro la burocrazia». Frase dura, riconosce, ma non ci sono «alternative». Il che concretamente vuol dire diminuire il peso e la presenza della macchina politico-burocratica. Per questo la «cornice», cioè le riforme istituzionali sono indispensabili. Perché rappresentano la condizione necessaria per far ripartire il Paese. Tagliare le province, cambiare il Senato togliendo i senatori eletti e dotati di indennità in cambio di rappresentanti dei territori, limare i mega-stipendi dei dirigenti pubblici («mentre i consumi si bloccavano e il ceto medio scivolava indietro, le loro retribuzioni sono continuate a crescere» scandisce fra gli applausi) e fare una legge elettorale per cui «chi vin- ce, vince, magari attraverso anche il ballottaggio» non significa solo «ridurre i costi e i posti della politica», ma disegnare un nuovo rapporto fra lo Stato e i cittadini.

È all’interno di questa cornice infatti che Renzi inserisce come obiettivo principale la crescita e l’occupazione. Perché l’Italia è sì «una Repubblica democratica fondata sul lavoro» ma attualmente è «affondata dalla rendita». Da qui la scelta di ri-distribuire reddito e quindi capacità di spesa a chi ha avuto meno prendendo un po’ a «chi già aveva tanto e ha avuto sempre di più». Vanno in questa direzione il taglio dell’Irap finanziato dall’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie e gli 80 euro in più in busta paga a chi guadagna meno di 1500 euro lordi al mese finanziati soprattutto con la revisione della spesa e l’aumento del prelievo fiscale alle banche. Sono state aiutate a salvarsi coi soldi pubblici, il ragionamento di Renzi, e quindi ora devono essere disponibili a dare un proprio contributo per aiutare le famiglie.

Per misurare i risultati Renzi fissa l’appuntamento al prossimo anno. Se fra 12 mesi sarà ancora lì sul palco della Fiera del Mobile di Milano con vista sull’Expo 2015 (ieri ha fatto il punto sui lavori assieme ai ministri Lupi e Martina) vorrà dire che c’è riuscito, che non si sarà fatto cambiare «dal Palazzo». Anzi probabilmente cercherà di cambiare un po’ di inquilini di quei palazzi. Lunedì (a borse chiuse) ad esempio dovrebbe esse- re il giorno delle nomine per le aziende pubbliche. «Devo aspettare Pier Carlo» dice. Mentre il diretto interessato, il ministro Padoan, dagli Usa assicura che sa- ranno nomi «competenti e in alcuni casi nuovi». E anche rosa. Infatti salgono le quotazioni dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, della ex ministro Paola Severino, della numero uno di Olivetti Patrizia Grieco e della ad dell’Espresso Monica Mondarini.

Si vedrà. Ora l’unica cosa certa, assicura, è che non invocherà (come chi fin qui l’ha preceduto, suggerisce) alibi: «se non ce la faremo sarà solo colpa nostra, saremo dei chiacchieroni». Nemmeno l’alibi dei parametri europei. Perché si dice convinto che durante il semestre di presidenza della Ue l’Italia farà sentire «la propria voce» agli alleati europei. Proprio perché rispetta tutti i vincoli, sarà in grado di chiedere alla Ue di cambiare le regole «perché non serve a niente avere tutte regole incentrate sull’austerità e sul rigore se la disoccupazione rad- doppia assieme al dolore delle famiglie e delle persone che non ce la fanno più». E che invece ci sarà bisogno di regole che tengano insieme «riforme e crescita», che «è inutile avere parametri economici non servono a rilanciare la crescita». Certo, prima ci sarà il voto (europeo e amministrativo) del 25 maggio. Appuntamento su cui il premier e il Pd stanno scommettendo parecchio. Stamani da Torino Renzi avvierà la campagna elettorale. Con lui Chiamparino, candidato a presidente del Piemonte, le 5 capolista alle europee e centinaia di candidati sindaci che per i propri manifesti elettorali potranno anche farsi una foto esclusiva con il loro oramai ex collega.

L’Unità 12.04.14

"Silvio e Marcello", di Sebastiano Messina

Solo un destino cinico ma non baro poteva volere che dopo vent’anni passati a fuggire dai giudici, dai processi e dalle manette Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri si ritrovassero a vivere, senza condividerla, l’angoscia per le condanne che li aspettano. Condanne separate, e assai diverse tra loro. L’ex Cavaliere aspetta di sapere se potrà estinguere una pena di quattro anni per frode fiscale con una simbolica collaborazione a un servizio sociale, mentre sul suo sodale, sul suo socio, sul suo carissimo amico Marcello pende una spada di Damocle assai più pesante, sette anni di carcere (carcere vero, senza scappatoie) per concorso esterno in associazione mafiosa. Ma anche l’attesa, stavolta, li separa. BERLUSCONIsi è cupamente blindato nella villa di Arcore, dove non può neanche riaccendere le luci del bunga-bunga, mentre Dell’Utri è semplicemente scomparso, sparito, dissolto: da ieri è ufficialmente “latitante”, anche se lui ha trovato il modo di far sapere che non è in fuga ma sta solo «effettuando esami e controlli», chissà come e chissà dove — c’è chi dice a Santo Domingo, chi in Libano e chi nella Guinea Bissau — e anche se la sua angioplastica strategica somiglia tanto all’uveite tattica dell’amico Silvio al processo Ruby.
Sappiamo tutti che Dell’Utri non sarebbe diventato Dell’Utri senza Berlusconi, ma certo neanche Berlusconi sarebbe arrivato dov’è arrivato senza l’amico siciliano, che a 20 anni gli faceva da segretario personale, a 30 era il suo braccio destro all’Edilnord, a 40 rastrellava la pubblicità miliardaria per le sue tv e a 50 gli tirò su dal nulla il partito, arando il terreno con una geniale campagna di affissioni dove bambini felici sorridevano sotto uno slogan che sembrava innocente, «Fozza Itaia», e invece preparava il pubblico, cioè gli elettori, alla nascita del partito-azienda che in quattro mesi avrebbe vinto le elezioni. Erano una coppia formidabile, Silvio & Marcello, uno al timone con l’uniforme candida del capitano e l’altro in sala macchine a far andare a trenta nodi la corazzata di Forza Italia. Insieme combattevano, insieme vincevano e insieme si divertivano. Raccontò una volta Berlusconi che avevano fatto una scommessa, loro due, sulla sua capacità di riuscire a fare un complimento a chiunque, durante una con-ventiondel partito. «A un certo punto mi sono trovato davanti a uno spastico. Non sapevo cosa dire. Leggevo già il sorriso del vincitore negli occhi di Dell’Utri, poi ho trovato: “Ma che stretta di mano vigorosa!”». Questa era l’aria che si respirava, sul ponte dell’invincibile armata berlusconiana.
Poi insieme si erano ritrovati a essere inseguiti da accuse da smontare, da inchieste da neutralizzare, da reati da depenalizzare, e ancora una volta avevano condiviso la paura del carcere e la strategia per evitarlo. Poi sembrò che i loro destini si fossero separati, da quella sera del 13 aprile
del 1999, quando Silvio riuscì a fare in modo che la Camera negasse ai magistrati l’autorizzazione ad arrestare Marcello e la sera lo aspettò davanti all’uscita di Montecitorio sulla sua auto, con il motore acceso, e risultò chiaro che l’amico siciliano da quel momento in poi si sarebbe dedicato solo alla sua salvezza giudiziaria, mentre l’altro si preparava a tornare a Palazzo Chigi per altri cinque anni.
Adesso, dicevamo, un destino beffardo li riunisce ancora nell’inquietudine angosciosa di chi non è più padrone della propria sorte. E improvvisamente la loro creatura politica —appena tornata in società con il nome da signorina: Forza Italia — scopre che la prossima settimana i giudici potrebbero decapitarla, disarmando il leader che l’ha inventata e ordinando addirittura il carcere per l’architetto che l’ha costruita. E cosa rimane, senza Berlusconi e senza Dell’Utri, del partito-azienda capace di rinascere dalle sue ceneri? C’è Verdini, ma anche lui ha i guai suoi. C’è il giovane Toti, con la sua faccia da bravo ragazzo ma senza neanche l’ombra dell’energia vitale che un capitano deve avere. Ci sono i colonnelli che sono invecchiati aspettando la greca da generale, dall’ex giovane Fitto al sempre scalpitante Brunetta, ci sono le donne fatali che a sentirle parlare sembrerebbero disposte a salire pure sul rogo al posto dell’amato Presidente. E c’è una pletora di berlusconesin servizio permanente effettivo, dall’inaffondabile Gasparri alla bellicosa Gelmini, che senza l’ex Cavaliere — e senza neanche Dell’Utri — diventerebbe un’armata Brancaleone nella quale ognuno andrebbe “sanza meta, ma da un’altra parte”, come nel film di Monicelli.
A quaranta giorni dalle Europee — nelle quali ognuno conterà i suoi voti, senza trucco e senza inganno — il partito che un anno fa perse le elezioni per una manciata di voti guarda dentro di sé e vede una scatola vuota. Pensa al futuro che lo aspetta e apre con mano tremante le buste con i sondaggi, nei quali la bandiera nera del corsaro Grillo è ormai stabilmente davanti al vessillo sbiadito disegnato vent’anni fa da un geniale pubblicitario. Una sorte amara attende Forza Italia, ora che il suo fondatore è un pregiudicato e il suo inventore un latitante.

La Repubblica 12.04.14

"Il cuneo fiscale è sempre troppo elevato", di Luigina Venturelli

Del recentissimo taglio dell’Irpef deciso dal governo c’era un disperato bisogno. Una verità che risulta non solo dall’analisi del Paese reale, di cui ben si conoscono stati di crisi e situazioni di malessere sociale in larghi strati della popolazione, ma anche dalle ultime ricerche dell’Ocse: incrociando i dati relativi all’economia, al fisco e alla retribuzione del lavoro in Italia, infatti, la distorsione salta subito all’occhio.

La nostra è la terza economia dell’area euro, eppure i nostri stipendi medi si fermano ai posti bassi della classifica, al nono per l’esattezza. Rispetto ai colleghi europei, i lavoratori italiani sono fra i più tartassati dal fisco, eppure il cuneo tra il lordo e il netto di quel che guadagnano ha continuato a salire fino a pochi mesi fa. Almeno per le persone single e senza figli. Le uniche variazioni positive registrate dall’organizzazione parigina nel 2013 hanno riguardato le famiglie, ma in ogni caso la pressione sulle retribuzioni resta elevatissima, di gran lunga superiore alle medie Ocse.

In dettaglio, l’Italia nel corso dell’anno scorso ha ridotto il cuneo fiscale per i nuclei famigliari monoreddito e con due figli di 0,5 punti percentuali al 38,2%: un piccolo miglioramento che ci permette di scendere dal quarto al quinto posto, ma ben oltre i livelli medi dei Paesi considerati, che si attestano al 26,4%. Peggio dell’Italia fanno solo la Grecia al 44,5%, la Francia al 41,6%, il Belgio e l’Austria al 41%. Posizione invariata al sesto gradino della classifica, invece, per i single senza figli che sopportano un cuneo fiscale al 47,8%, salito di un punto negli ultimi cinque anni. La media dell’area Ocse è pari al 35,9%, circa dodici punti percentuali in meno del nostro dato nazionale, inferiore solo a quello di Belgio (55,8%), Germania (49,3%), Austria (49,1%), Ungheria (49%) e Francia (48,9%).

I raffronti internazionali non sono lusinghieri nemmeno sul fronte dei redditi. Il Paese dell’Eurozona con i salari lordi più alti è il Lussemburgo, con una media di 52.902 euro all’anno nel 2013. Seguono, tutti sopra i 40 mila euro, olandesi, belgi, tedeschi, finlandesi e austriaci. Mentre l’Italia, con una retribuzione media annua lorda di 29.704 euro, si trova in nona posizione (grazie a un incremento dell’1,3% sul 2012), preceduta da Francia e Irlanda e seguita da Spagna e Grecia. In fondo alla lista, con retribuzioni annue inferiori ai 20 mila euro lordi, Slovenia, Portogallo, Estonia e, fanalino di coda, la Slovacchia con 10.015 euro lordi all’anno in media per lavoratore.

IL DECRETO LAVORO

Per sperare di migliorare il livelli delle retribuzioni medie, l’Italia dovrà attendere la ripresa dell’economia reale e del mercato del lavoro. Determinante in tal senso, almeno nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe rivelarsi il decreto Poletti per il quale sono state presentate finora 376 proposte di modifica in Commissione Lavoro alla Camera, 39 delle quali sono state depositate dal Partito democratico. E diverse so- no quelle che potranno essere introdotte, senza però stravolgerne l’impianto complessivo e senza superare il limite imposto dal ministro Giuliano Poletti, quello cioè dei 36 mesi di durata del contratto a termine. È quanto ha assi- curato ieri il relatore del provvedimento, Carlo Dell’Aringa, ricordando i punti su cui il governo sarebbe disposto a trattare.

Potrebbe essere ridotto il numero delle proroghe per i contratti a termine, potrebbe delinearsi un periodo transitorio dalle vecchie alle nuove norme, ci dovrebbero essere novità sulla soglia del 20% (in alcuni settori, come quello agricolo, molte aziende rischierebbero di dover licenziare propri lavoratori). Possibili anche modifiche sull’apprendistato.

L’Unità 12.04.14

"Il film di una storia italiana", di Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana».
Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

La Stampa 12.04.14

"Riscopriamo il tesoro nascosto dei beni culturali", di Giovanni Valentini

Oltre al valore in sé che è un suo carattere assolutamente pre-minente, la cultura possiede anche un valore che le viene dal-l’utilità. (da “La cultura si mangia!” di Bruno Arpaia e Pietro Greco – Guanda, 2013 – pag. 153).
ALL’ATTO della sua nomina a ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini aveva esordito con un’impegnativa dichiarazione programmatica, affermando che il suo è «il ministero economico più importante del Paese». Ora sarà proprio in forza della spending review che Franceschini metterà mano alla riorganizzazione della struttura ministeriale, tagliando 32 dirigenti di seconda fascia. E magari promuovendo nel contempo un auspicabile ricambio generazionale. Il neo-ministro si riserva di decidere se procederà a un accorpamento delle competenze per ambiti territoriali oppure per materie. Sta di fatto, comunque, che un intervento del genere è destinato a incidere sul ruolo e sulle funzioni delle Soprintendenze, in modo da renderle più snelle e forse anche più efficienti. È proprio quello che abbiamo più volte sollecitato, contestando disfunzioni e ritardi burocratici che spesso compromettono l’attività di questo apparato statale.
Nel frattempo, Franceschini ha attuato la normativa anticorruzione, in base alla legge 190 del 2012 contro l’illegalità nella pubblica amministrazione, confermando anche Antonia Pasqua Recchia nel ruolo di segretario generale. E ne prendiamo atto volentieri. Ma in questo Piano 2014-2016, ultimo aggiornamento 7 aprile, la rotazione triennale dei dirigenti — prevista come misura cautelare da una circolare del Segretariato generale del ministero e ritirata dall’ex ministro Massimo Bray — viene rinviata entro giugno prossimo ad atti successivi che la gradueranno in rapporto alla gravità e alla ricorrenza del rischio, per gli appalti, le autorizzazioni e in particolare per le mostre.
Si può accogliere, comunque, come un segnale importante che Franceschini consideri il “Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”, secondo la denominazione ufficiale, un ministero “economico”. Anzi, testualmente, «il più importante». Questo è, infatti, il principale caveaudell’Italia; il maggiore deposito di risorse — naturali, storiche, artistiche e culturali — a nostra disposizione. E oltre a salvaguardarlo, è doveroso valorizzarlo anche a fini turistici, occupazionali e appunto economici.
È vero, ed è sbagliato, che l’Italia investe troppo poco in questo campo: nell’ultimo decennio, il bilancio del ministero s’è quasi dimezzato, passando dai 2,7 miliardi del 2001 (pari allo 0,37% del bilancio totale) al miliardo e mezzo del 2013 (appena lo 0,2). E si tratta di un settore che vale almeno 80 miliardi di euro all’anno e corrisponde a circa il 5,8% del Pil. Bisogna quindi spendere di più, anche perché un euro investito nella cultura ne può rendere statisticamente da due a sei.
Va in questa direzione l’incontro che s’è svolto tra il ministro Franceschini, il presidente dell’Anci Piero Fassino e i sindaci di alcune importanti città d’arte, per favorire la partnership pubblico-privato e la valorizzazione del patrimonio culturale. Lo Stato, con le sue risorse, non riuscirà mai a gestirlo interamente da solo. E occorre perciò fissare una scala di priorità, in modo da concentrare pragmaticamente i fondi disponibili sui beni di maggiore interesse e rilevanza.
Altrimenti, il rischio è quello di disperdere risorse scarse in mille rivoli, frenando o paralizzando di fatto lo sviluppo turistico ed economico. Dobbiamo tenere tutti alla Bellezza del nostro Paese, ma al di fuori di una visione puramente conservativa o contemplativa, quasi sacrale dei beni artistici e culturali. L’Italia non si può trasformare in un museo della memoria, un magazzino proibito di reperti storici.
Ben venga, allora, la partnership tra pubblico e privato, a patto che rispetti una gerarchia di valori fondamentali: a cominciare dall’identità nazionale che racchiude il nostro passato e il nostro futuro. Ma, nel pieno di una crisi come quella che attraversiamo, è tempo di uscire dalla retorica del protezionismo fine a se stesso per interpretare correttamente l’articolo 9 della Costituzione, dove si parla al primo comma di “promozione” della cultura e al secondo di “tutela” del paesaggio, del patrimonio storico e artistico della Nazione. È una grande operazione culturale che richiede, anche sul piano mediatico, un impegno e una mobilitazione collettivi.

La Repubblica 12.04.14