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"Perché i «nativi digitali» snobbano le scienze?", di Antonella De Gregorio

I numeri sono importanti: negli Stati Uniti, tra cinque anni ci saranno due milioni e mezzo di posti da occupare, per esperti di discipline «Stem» (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). In Francia il buco, lo scorso anno, era di 130mila unità, con il 10% di scienziati e tecnici in meno rispetto al 2000. Nel Regno Unito, il calo in dieci anni è stato del 18%. Arretra anche il Giappone. E in Italia, Unioncamere e ministero del Lavoro contano in 47mila le figure professionali introvabili, principalmente tra i profili tecnici. Una tendenza contraria a quella che sembra interessare le economie «emergenti», Asia in testa, come ha sottolineato nei giorni scorsi il quotidiano Les Echos. Ma qual è il motivo per cui, nei Paesi più sviluppati (a eccezione della Germania) la «generazione Y» (i nati tra il 1981 e il 1995) e i fratellini della «generazione Z» (quelli che oggi sono alle superiori) sembrano schivare sicure opportunità di carriera?
Distanti

«Adolescenti connessi», nativi digitali che usano regolarmente smartphone, Internet e videogiochi, raramente i liceali sognano di fare il salto da utilizzatori a creatori di prodigi alfanumerici. Studi percepiti come troppo duri o troppo astratti, di cui si intravedono a fatica sbocchi e opportunità. C’è il timore di non arrivare in fondo; o di non avere, poi, opportunità diverse dall’insegnamento. «La disaffezione – dice Nicola Vittorio, ordinario di Astronomia e Astrofisica all’Università di Tor Vergata – è spesso imputabile a modalità di trasmissione del sapere scientifico troppo “tradizionali”, inadatte a farlo amare». La Fisica rinchiusa in classe, anziché in laboratorio; la Chimica relegata a formule; Matematica privata delle sue connessioni con la vita reale, stretta nell’immutabile sequenza aritmetica-algebra-geometria-trigonometria.
Iscrizioni in picchiata

È una sorta di «morbo», partito dagli Stati Uniti negli anni ‘80, arrivato in Europa nei ‘90, esploso in Italia nel 2000, con iscritti al blocco delle Scienze «dure» in caduta libera, precipitati da 10 a 4mila: le smagliature più evidenti a Matematica e Fisica. «La preoccupazione era che la mancanza di laureati nelle scienze di base anticipasse cattedre vuote e ridotta capacità innovativa (e competitiva, ndr) per il Paese», spiega Vittorio.
Il Piano

Ma all’annus horribilis, il Paese di Galileo e Volta, di Fermi e Montalcini, ha reagito schierando l’artiglieria. Nella forma di un Piano pluriennale (2005-2008, poi rinnovato per altri 4 anni, e nuovamente finanziato nel 2013/14, con fondi per due milioni di euro), per incrementare il numero di iscritti. Migliorando la conoscenza e l’orientamento, avvicinando i giovani, sensibilizzandoli durante le scuole superiori; «formando» i docenti, aumentando le attività di laboratorio (in maniera «consistente», indica il Piano lauree scientifiche-Pls: almeno 20ore di lavoro degli studenti), adottando e insegnando attività di didattica sperimentale. Il Progetto – frutto della collaborazione tra Miur, Confindustria e Presidi delle 40 facoltà scientifiche e tecnologiche – ha coinvolto 173mila studenti e duemila insegnanti, in oltre 800 scuole ogni anno, cercando di rendere più amichevole l’approccio alle scienze dure.
Aumento

Lo sforzo – insieme a una migliore informazione sui fabbisogni delle imprese – ha contribuito ad invertita la tendenza. In otto anni le matricole delle facoltà scientifiche sono aumentate del 26%, in controtendenza rispetto alla generale diminuzione delle iscrizioni all’università. Ma ancora non basta. «Siamo lontani da livelli accettabili – dice Vittorio, coordinatore del Piano – anche se abbiamo raggiunto l’obiettivo del 15% entro il 2010 di laureati in ingegneria», uno dei pochi punti dell’Agenda di Lisbona centrati. I dati sono stati presentati in dicembre a Napoli, in un grande convegno che ha raccolto e descritto le esperienze più significative portate avanti dalle scuole (e documentate sul sito www.progettolaureescientifiche.eu).
La magia del laboratorio

«Avventure che i ragazzi e i docenti vivono con curiosità e meraviglia, quando si trovano in università, a lavorare nei nostri laboratori – spiega Simona Binetti, ricercatrice del dipartimento di scienza dei materiali della Bicocca di Milano e presidente della Commissione orientamento nelle scuole superiori per il Pls -. Ma istruiamo anche i professori su come inventare esperienze con costi e dotazioni limitate». «L’attività di orientamento è volta a indagare se c’è vero interesse, a spiegare le differenze tra i corsi, a illustrare le prospettive di lavoro e carriera e i vantaggi di frequentare facoltà con classi relativamente piccole, laboratori attrezzati, molta attività sperimentale, ottimo rapporto studenti-docenti», spiega Binetti. Da qualche anno sono stati introdotti test d’accesso , perché è importante che gli studenti che entrano all’università abbiano la preparazione necessaria. Alcuni corsi sono a numero chiuso, altri prevedono obblighi formativi aggiuntivi per chi non supera la verifica iniziale.
Al lavoro

Per i laureati in materie scientifiche, il bilancio è positivo anche sul fronte occupazionale: i laureati triennali, a un anno dalla laurea, lavorano nel 42% dei casi, proseguono gli studi (20%), o sono in cerca di lavoro (31%). Mentre 85 laureati magistrali su 100, a tre anni hanno un posto stabile (contro il 69,8% della media delle altre discipline), con retribuzioni medie del 10,5% superiori a quelle dei laureati triennali. Fisica la più richiesta (85,3%); un po’ sotto alle altre Matematica (79,9%).
L’altro «spread» italiano

Intanto, la Commissione Ue, ha sottolineato lo spread negativo dell’Italia: 12 laureati in discipline «Stem» ogni mille giovani 20-29enni, contro 20 in Francia e 14 in Spagna. E ha lanciato la strategia Rethinking education , per cambiare l’impostazione dell’istruzione nel Continente: l’università deve puntare a più laureati in materie scientifiche, ha chiesto Bruxelles: da queste abilità dipende la capacità per l’Europa di incrementare la produttività.
Proposte

E c’è chi è arrivato a proporre la laurea (magari breve) obbligatoria in qualche disciplina tecnico-scientifica, com’era, nel secolo scorso, la leva. Oppure anche solo di alzare il livello di base di competenza scientifica nelle superiori, in modo da avere una consapevolezza delle questioni fondamentali: dall’inquinamento, all’Ogm, alle fonti energetiche alternative. O, addirittura, come ipotizzano Oltreoceano (dove solo 26 donne su 100, che pure sono la metà della forza lavoro – lavorano con la tecnologia o la matematica; o 7 ispanici su 100; 6 persone di colore su 100) di iniziare a coltivare la passione per le scienze fin dall’asilo, riducendo «in culla» gap dettati da stereotipi di genere, pregiudizi e svantaggio sociale

Il Corriere della Sera 06.04.14