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“Nei campi 12 ore senza paga” i 100mila prigionieri dei caporali, di Valeria Teodonio

Il sole è appena tramontato e Kumar può tornare a casa. Da 12 ore è chinato sui campi per seminare. Ha le mani sporche di terra e la pelle già cotta dal sole. Per ogni ora passata piegato in due ha guadagnato meno di tre euro. Abita cinque chilometri più in là, vicino al Circeo, in 30 metri quadrati fatiscenti. Che divide con altri ragazzi indiani di etnia sikh come lui. Quanti, non lo dice.
È partito dieci anni fa, Kumar. Appena diciottenne ha lasciato il Punjab, regione nel nord-ovest dell’India. Ha salutato i genitori e la giovanissima moglie. Per arrivare in Italia ha dato seimila euro ai trafficanti di uomini. Seimila euro per diventare schiavo. Sfruttato dalle aziende che lo pagano una manciata di euro al giorno, sfruttato da chi gli affitta una casa squallida a un prezzo esagerato. E la storia di Kumar non è la peggiore che possiamo raccontare. Ci sono altri braccianti indiani nel Lazio che non guadagnano neanche quei pochi euro a giornata.
Lavorano gratis per mesi, a volte anni: devono risarcire un debito inventato da chi li usa. Quando il permesso stagionale scade, i loro ‘padroni’ (così li chiamano) pretendono altri soldi. La scusa è che servono per pagare il permesso di soggiorno, che in realtà è gratuito. Chi non ha quei soldi è costretto a lavorare senza stipendio. Schiavo in piena regola. Lo sfruttamento riguarda Latina e altre decine di località italiane. Sono 22 le province in cui si registrano condizioni di paraschiavismo. In tutto 12 regioni, da nord a sud. A dirlo è il rapporto della Flai Cgil sulle agromafie curato dall’osservatorio Placido Rizzotto. «Nel nostro Paese si può azzardare una stima di 100mila braccianti gravemente sfruttati, in 5mila vivono in condizioni di schiavismo vero e proprio — spiega Francesco Carchedi, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma — Sono assoggettati, ricattati, vivono in condizioni igieniche indecenti, spesso vengono ghettizzati. Molti vengono anche picchiati dai caporali, che prendono una percentuale sul lavoro degli immigrati ».
Gli addetti all’agricoltura in Italia sono un milione e 200mila. Un quarto sono stranieri, dicono i dati di Coldiretti. L’Istat parla del 43 per cento di lavoro sommerso. Dunque i lavoratori a rischio sfruttamento nel nostro Paese sono almeno 400mila. Di certo a migliaia restano sui campi anche 12, 14 ore al giorno. Anche per due euro e mezzo l’ora. Tre o quattro, quando va bene. Dovrebbero prenderne 8,60. «È una partita molto ricca — aggiunge Carchedi — un raccolto delle angurie fatto con gli indiani sfruttati, ad esempio, dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se si trattasse di italiani, costerebbe almeno 70 euro e durerebbe un mese e mezzo ». Il giro d’affari legato al business delle agromafie, secondo le stime della Direzione nazionale antimafia, è di 12,5 miliardi di euro all’anno. L’evasione contributiva legata al caporalato vale 600 milioni di euro.
I braccianti indiani non arrivano come clandestini. Alle organizzazioni che trafficano esseri umani danno fino a 8mila euro. In cambio hanno un biglietto aereo e un permesso di tre mesi per lavorare come stagionali. Per pagare questi viaggi le loro famiglie si indebitano. Poi vengono ingaggiati da caporali, a Latina come nelle altre zone: all’alba li caricano sui furgoni e li portano sui campi. Dai lavoratori pretendono anche personali tasse giornaliere: 5 euro per il trasporto, 3,50 per il panino, 1,5 euro per ogni bottiglia d’acqua. Ma il caporale è solo l’ultimo anello di questa catena dello sfruttamento. Sopra di lui – quasi sempre un italiano – c’è un faccendiere, un avvocato o un commercialista. Che gestisce il giro degli affitti e dei permessi di soggiorno. Al di sopra c’è il capo dell’organizzazione, un uomo della malavita locale che si occupa del traffico di uomini. Campania, Puglia e Sicilia le regioni più colpite dal fenomeno: a Rignano Garganico (Foggia), esiste un enorme ghetto, un villaggio di baracche. Ci abitano 1.500 persone, quasi tutti africani, impiegati nell’industria del pomodoro.
Le campagne del Piemonte, invece, sono popolate soprattutto da braccianti dell’est Europa. A Saluzzo (Cuneo), e a Canelli (Asti), raccolgono le uve pregiate per produrre spumanti. Ma anche i tartufi. I braccianti vengono reclutati in Romania, Bulgaria e Macedonia, lo stipendio non supera i 300-400 euro al mese. Nel Lazio molti dormono nelle serre dove lavorano. Oppure nei templi dove pregano. Altri affittano appartamenti a prezzi esagerati dove vivono anche in 10. Kumar paga 500 euro per 30 metri quadrati: soffitti neri per l’umidità, materassi ammuffiti, mosche. Sopra il letto Kumar ha appeso la foto del suo matrimonio. Con l’abito tipico e il turbante rosso. «Il mio padrone di casa — racconta Kumar — mi ha portato una bolletta della luce da 575 euro. Poi ha detto: se non la paghi ti sparo ». Eppure, Kumar resta convinto che il suo datore di lavoro sia una brava persona. «Perché mi paga», spiega. E abbassa lo sguardo, gli occhi scuri e stanchi. «Ma sai che dovrebbe darti il triplo?», gli chiediamo. «Non ho alternativa», risponde con la voce che trema. Fermare questo sfruttamento non è semplice. La Flai, insieme agli altri sindacati di categoria di Cisl e Uil, ha presentato una proposta di legge per rendere trasparente il mercato del lavoro in agricoltura. In tutto, le persone arrestate o denunciate negli ultimi due anni per caporalato (reato introdotto solo nel 2011) sono 360. Ma resta difficile da provare, e non è scontato che si arrivi a una condanna.
Il sole è tramontato. Kumar sta tornando a casa. In sella alla bicicletta, forse, pensa a sua moglie. Ma in Italia non può, non vuole farla venire. Perché? Gli chiediamo. Ci risponde a labbra strette: ‘Cosa le farei mangiare?’

La Repubblica 02.04.14