Guardando l’Italia dall’estero in veste di storico, resto sempre colpito da un curioso senso di déjà vu. Sotto il profilo sociale ed economico, nessun altro Paese europeo ha conosciuto altrettante e radicali trasformazioni nel corso degli ultimi 150 anni, eppure in politica si avverte una straordinaria continuità. Il divario scavato tra la gente e le istituzioni, la svogliata collaborazione tra i partiti politici, la scarsa considerazione di cui gode la legalità, il problema dell’evasione fiscale, la mancanza di confini chiari tra interessi pubblici e privati, la spaccatura nord-sud, i pericoli del populismo e l’urgenza di una riforma elettorale per rafforzare l’autorità dello Stato, sono tutti argomenti ricorrenti nel discorso politico italiano dai tempi dell’unificazione.
Prendiamo, ad esempio, un decennio qualunque del passato, quello del 1880. La credibilità del Parlamento era costantemente erosa dal trasformismo, da coalizioni instabili e da scandali per corruzione. Si discuteva incessantemente di quale sistema elettorale e leadership politica avrebbero potuto assicurare forza e credibilità alle istituzioni. Le precarie condizioni delle finanze pubbliche rendevano necessarie misure fiscali sempre più disperate. In gran parte dell’Italia settentrionale la classe media attribuiva le difficoltà economiche alla corruzione di Roma e del Meridione. E in Lombardia, in particolare, si ventilava sempre di più l’ipotesi di secessione.
Saliva la rabbia popolare e a beneficiarne erano le forze anti istituzionali: anarchici, repubblicani e socialisti. Ne approfittava anche la Chiesa, che convogliava il malcontento dei cattolici in istituzioni nuove, come l’Azione cattolica. Imperava il populismo. Dalla Liguria, un giornalista e sociologo barbuto, Pietro Sbarbaro, tuonava contro la corruzione dell’intera classe politica con la satira sferzante dei suoi scritti, ricorrendo a un linguaggio colorito, non di rado brutale e offensivo. Sbarbaro invocava il rinnovamento totale e profondo della politica italiana. Il suo settimanale, Le forche caudine , toccava tirature altissime per l’epoca. Le polemiche, da ultimo, gli provocarono una causa per diffamazione e Sbarbaro fu condannato a due anni di carcere, che riuscì in gran parte ad evitare rientrando trionfalmente in Parlamento.
Per gli inizi del 1890, la crisi era diventata endemica. I dispacci dell’ambasciata britannica di Roma nel 1893 parlano di una sensazione diffusa di «disperazione» e dell’attesa di un uomo di Stato capace di «salvare» il Paese. L’Italia barcollava sull’orlo della bancarotta eppure «l’evasione fiscale in questo Paese non è considerata un’azione riprovevole e neppure un comportamento antipatriottico». Anzi, giravano voci di un’evasione fiscale al 75% come conseguenza di «false dichiarazioni dei redditi e malcostume dei funzionari pubblici». Era tale il malcontento a Roma che «se si fosse tenuto un plebiscito, la popolazione avrebbe votato in massa per la restaurazione del potere temporale del Papa».
Questa sensazione di ricorrenza ciclica degli eventi nella politica italiana non può non stuzzicare la curiosità dello storico. Come mai, benché tante cose siano cambiate in Italia, il panorama politico resta immutabile? Sul finire del 2013, il ripetersi di tanti problemi politici invita a un misto di pessimismo e di cauto ottimismo. L’ottimismo deriva dal fatto che tutte le fasi di crisi economica e sociale in Italia in passato hanno trovato una qualche soluzione. Nel 1880 e nel 1890, la disperazione e il diffuso pessimismo del Paese furono dissipati dalle opportunità create ai primi del 900 dall’emigrazione e da un grande rilancio economico, fenomeni che per un certo tempo alimentarono la speranza che il divario tra le masse e le istituzioni potesse essere finalmente colmato.
Il pessimismo è motivato dal fatto che le nuove aspettative non hanno mai portato a un serio rinnovamento nel comportamento né della classe politica, né della popolazione. Giovanni Giolitti fu bollato come «ministro della malavita», e il danno di immagine subìto dal Parlamento non fu più sanato. L’esperimento fascista di Mussolini, malgrado l’esaltazione dello Stato, non fece nulla per migliorare la credibilità delle istituzioni né per eradicare clientelismo e corruzione. Gli anni del «miracolo economico» coincisero con un’accelerazione della degenerazione politica. Le speranze di cambiamento politico che per qualche tempo circondarono Craxi, e più di recente Silvio Berlusconi, si sono rivelate anch’esse mal riposte.
Sotto il profilo economico, il 2014 sembra promettere qualche miglioramento, ancorché non si vedano prospettive di un rilancio tale da giustificare grandi entusiasmi, specie con l’attuale elevato tasso di disoccupazione. Per i giovani, in particolare, rabbia e frustrazione non si placheranno tanto facilmente, e le invettive di Grillo e le proteste dei forconi continueranno a godere del sostegno dei cittadini. La sfida principale del governo Letta è quella di varare una nuova legge elettorale credibile, compito reso ancor più impellente dalla recente sentenza della Corte costituzionale. Se si voterà una legge elettorale capace di esorcizzare le coalizioni instabili del passato, gli italiani potranno tornare alle urne con una certa fiducia.
Si spera che le nuove elezioni avverranno al termine della presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, nella seconda metà del prossimo anno. Dopo i danni umilianti inflitti dal berlusconismo alla reputazione internazionale dell’Italia, il governo Monti prima, e oggi Letta, hanno fatto molto per restituire credibilità all’Italia in seno all’Europa. Detto questo, il risultato delle elezioni del febbraio 2013 è apparso assai sorprendente agli osservatori stranieri, perché lasciava intuire fino a che punto il Paese, storicamente al primo posto nell’impegno a favore del progetto europeo, avesse smarrito la sua bussola morale e politica. Compito principale dell’Italia durante il semestre di presidenza Ue sarà non solo quello di rafforzare la sua posizione tra i partner europei ma anche, e soprattutto, dimostrare di saper stemperare quel crescente scetticismo verso l’Europa che oggi serpeggia nell’elettorato italiano.
Il recente rifiuto della proposta tedesca di agganciare nuovi aiuti economici all’introduzione di «contratti» mirati all’attuazione di riforme economiche sta a indicare il desiderio, tra le economie del sud dell’Europa in particolare, di non esacerbare i sentimenti anti europei. Questo sarà forse un espediente politico a breve termine, ma nel caso dell’Italia il venir meno di uno stimolo esterno capace di spingere verso riforme strutturali fondamentali rischia di lasciare intatti quei meccanismi che hanno provocato le crescenti difficoltà finanziarie del Paese dal 1970 ad oggi. E le problematiche di fondo non riguardano esclusivamente la normativa e la rigidità del mercato del lavoro e la necessità di frenare il potere degli interessi di parte a favore di un programma nazionale coerente di rigenerazione. Vi è ancora l’urgenza di intervenire per cambiare l’atteggiamento del pubblico verso lo Stato e il mercato.
E proprio qui sta la più grande sfida dei nuovi leader nel 2014. Le riforme fiscali ed elettorali non produrranno benefici duraturi a meno che uomini come Letta, Renzi e Alfano non saranno pronti a coinvolgere il pubblico con forti motivazioni emotive ed intellettuali — specie le nuove generazioni — per convincerlo che le soluzioni sono da ricercarsi all’interno dello Stato e dei partiti, e non in un’opposizione rancorosa e distruttiva. Questo significherà affrontare verità scomode. Gettare la colpa addosso agli altri — che sia la Germania, l’euro, o la «casta» politica — è fin troppo facile. Molto più difficile da accettare è l’idea che i problemi dell’Italia di oggi sono una responsabilità collettiva che non è più possibile ignorare né scansare, com’è accaduto fin troppo spesso negli ultimi 150 anni, in base alla convinzione che Stato e società rappresentano due sfere distinte.
Per superare un profondo trauma, gli psicologi suggeriscono di seguire un percorso che passa attraverso la negazione, la depressione e la rabbia. La fase finale è l’accettazione della realtà. Per far cessare il lungo ciclo ripetitivo della politica italiana, per placare la rabbia popolare, e per raccogliere e incanalare efficacemente le straordinarie riserve di energie creative di questo Paese, l’Italia deve trovare la forza di riconoscere e accettare la realtà. Non in modo disfattista e passivo, ma nello spirito di impegno e di responsabilità collettiva. Solo così si potranno gettare le basi per la rinascita nazionale. E per far questo occorrerà una leadership illuminata e lungimirante.
Nel 1864, Francesco De Sanctis disse chiaramente qual era il compito principale dei suoi connazionali, se volevano sconfiggere i gravi problemi politici ed economici che travagliavano il Paese: superare la vecchia mentalità e i vecchi condizionamenti per identificarsi completamente nello Stato italiano: «hoc opus, hic labor» («questa è la difficoltà, quest’è l’impegno»). Fattore indispensabile, sosteneva De Sanctis, era una leadership ispirata e convincente. Tanta acqua è passata sotto i ponti negli ultimi 150 anni, ma l’ammonimento di De Sanctis non ha perso nulla della sua attualità.
L’autore è uno storico dell’Italia
(Traduzione di Rita Baldassarre)
Il Corriere della Sera 31.12.13