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“Il mio ideale? Crescita felice”, di Franco Bolelli

No, non si può mai smettere di crescere. Proprio mai. Perché quando una società, una cultura, un’azienda, una squadra, una relazione sentimentale, un essere umano, smette di crescere, inesorabilmente appassisce, deperisce, comincia a morire. E’̀ una legge biologica, non se ne esce. Provate a pensarci. Con un bambino, è tutta questione di crescita. Anche con le tecnologie, e con la scienza. Mettiamoci poi i progetti inventivi, dalla letteratura all’urbanistica e a tutto quello che ci sta in mezzo. E i linguaggi, e i paradigmi di pensiero. Consideriamo che anche una storia d’amore non può non lavorare sui propri margini di miglioramento se non vuole scivolare nel letale ingranaggio della routine. Alla fine, non c’è attività umana che può dirsi viva se non cresce. Tanto più adesso, che anche i confini dell’età anagrafica si sono irresistibilmente espansi, perché in questo nuovo mondo connesso e globale a qualunque età noi abbiamo la possibilità di entrare in contatto con conoscenze ed esperienze impensabili fino a pochi anni fa.

Ecco perché la popolare idea di decrescita non riesco a non considerarla rovinosa. Sì, lo so che i teorici della decrescita puntano il dito ammonitore soprattutto contro gli stili di vita e il consumo e il mercato, ma – al di là che, se è stato un errore madornale mettere l’economia e il mercato al posto di comando è non meno sbagliato demonizzarli- non si può non vedere che l’idea di fermare la crescita ha un effetto dissuasivo e deprimente sull’intera nostra percezione delle cose, sulla totalità dell’orizzonte vitale.

Nell’intera storia umana, ogni nostra evoluzione la dobbiamo non certo a chi ha frenato e delimitato ma a chi ha costruito, espanso, sperimentato, esplorato, allargato frontiere, compiuto imprese, messo al mondo qualcosa che prima non c’era o migliorato qualcosa che già c’era. È a questo Dna che dovremmo collegarci, tanto più in una situazione di crisi e di difficoltà: perché è proprio quando le co- se sono così disfunzionali che abbiamo ancora più bisogno di mettere a fuoco soluzioni e suggestioni per migliorare la nostra esistenza. Se diffondiamo la rinunciataria idea che si può decrescere, otteniamo il catastrofico risultato di indicare il movimento e il mutamento come pericoli e allontaniamo dalla natura propulsiva dell’intero progetto vitale. Che poi questa idea di decrescita qualcuno l’addobbi con il fiocco dell’aggettivo «felice» a me sembra francamente imbarazzante: perché questo pensiero può essere certamente virtuoso e mostrare i disastri del modello fondato sullo spreco e sul depredamento delle risorse naturali, ma non produce slanci, non suscita senso dell’impresa, non spinge al dispiego delle nostre capacità inventive, non evidenzia e non valorizza la nostra potenza vitale. Se allora le esigenze da cui nasce l’idea di decrescita sono sacrosante, il sistema di pensiero che ne consegue finisce per risultare tristemente regressivo, devolutivo.

Loro sentenziano che «i limiti della crescita sono definiti». Forse anche no. Perché è vero che ci sono preziosissime sorgenti naturali pericolosamente vicine all’esaurimento – e guai a sottovalutare il problema -, ma è altrettanto e ancora più vero che in tutta la nostra storia noi siamo sempre stati capaci di trovare possibilità inesplorate a problemi apparentemente in- solubili. È questo che intendo quando parlo di crescita: che nella nostra mente, nei nostri muscoli, nel sistema nervoso, nell’intero organismo, noi abbiamo risorse che abbiamo fin qui sperimentato solo in minima parte. Soltanto negli ultimi dieci o vent’anni, noi abbiamo creato una nuova relazione fra biologico e tecnologico, siamo passati da una mente verticale a una orizzontale e connettiva, stiamo per esplorare il nostro Dna individuale, abbiamo costruito una rete potenzialmente illimitata di relazioni istantanee, abbiamo inventato e reinventato mille aspetti della nostra esistenza. Evidenziare tutto questo non significa pensare beatamente positivo – trascurare crisi e disfunzioni sarebbe davvero troppo stupido: significa pensare vitale. Senza una strategia per la crescita – politica ed economica ma prima ancora antropologica e psicologica e vitale – non si va da nessuna parte.

L’Unità 19.12.13