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“Il restyling del ceto medio”, di Nadia Urbinati

Le tensioni sociali che crescono nei Paesi europei, e sempre più fortemente in Italia, impongono una responsabile riflessione a politici e governanti sulla qualità e l’impatto delle loro scelte, sull’impossibilità di continuare con la politica delle misure contingenti. Spostare i libri sugli scaffali è un restyling che non basta a dare l’impressione che si cambi l’ordine delle cose. Sul fronte della diagnosi, politici e governanti devono interrogarsi sul peso che le loro scelte hanno e avranno sulla classe media, la cui sofferenza va di pari passo con la sofferenza della democrazia. Esserne consapevoli è la premessa per comprendere l’importanza delle politiche sociali e l’irragionevolezza di procedere senza un progetto che le rilanci, un nuovo New Deal per le democrazie sociali in declino.
C’è abbondanza di analisi quantitative sulla classe media e tuttavia, come ha osservato l’economista Anthony Atkinson, essere classe media è un affare complicato che il reddito da solo non spiega: perché avere aiuto domestico, affittare o possedere una casa decente, avere un lavoro ben retribuito o condurre un’attività lavorativa autonoma, non si traduce sempre e dovunque in una qualità della vita associabile con la condizione della classe media. E inoltre, in alcuni Paesi, come l’Italia, queste condizioni economiche diventano, ogni giorno di più, un privilegio di pochi. La classe media si è impoverita e la democrazia ne paga le conseguenze in termini di stabilità sociale e legittimità politica.
In tutti i Paesi occidentali la classe media ha subito un processo di dimagrimento. In Italia la classe media non è più quel largo e solido cuscino tra i pochi veramente ricchi e i pochi veramente poveri. La classe media comincia a essere per troppi un privilegio. E questo è un paradosso stridente, visto che la sua condizione mediana si è affermata proprio contro i privilegi di classe e per garantire al più gran numero di persone, con il lavoro e la professione, quella solidità di vita materiale e di riconoscimento sociale che nell’antico regime era solo di pochissimi. Essere classe media ha per questo significato fare da spina dorsale alla cittadinanza moderna.
Va da sé che il maggior nemico del governo democratico è una società nella quale la ricchezza è accumulata in una porzione ristretta della popolazione mentre la maggioranza, o quasi, è composta da chi vive nella povertà effettiva o nel timore di diventare povero. La classe media non è solo una categoria economica, dunque, ma una condizione psicologica e politica: basata sulla “tranquillità dell’animo” o l’essere certi che si può non soltanto vivere decentemente oggi, ma programmare un futuro altrettanto sicuro. È questa condizione di progetto che si è negli anni assottigliata e, in alcuni Paesi, come l’Italia, in maniera davvero consistente.
Se si calcola la classe media solo in base al reddito, non si coglie questo malessere effettivo, sociale, morale e psicologico. Che invece viene registrato da tutti i sondaggi sulle aspettative per il futuro e le preoccupazioni associate alla stabilità della condizione lavorativa propria e dei propri figli. Per cui possedere una casa può comportare un rischio di povertà perché i salari e gli stipendi si erodono o scompaiono e, in aggiunta, perché i servizi sociali sono sempre meno sostenuti dalle politiche pubbliche. Quel che resta della classe media è quindi, per molti, il benessere della classe media di ieri. Viviamo sulle spalle dei nostri vecchi o di chi ci ha preceduto. Con le nostre fatiche non costruiamo più ma sopravviviamo, spesso a malapena.
Una classe media in grande sofferenza, dunque. Alla base della quale vi è un fattore che non viene messo in luce dagli economisti neo liberali: il declino dello stato sociale. Larghe fasce di cittadini devono far fronte al dimagrimento (in alcuni Paesi estremo) dei servizi sociali e al trasferimento sul reddito del costo di prestazione di base: la sanità, la scuola, l’assistenza ai bambini e agli anziani. Dalla capacità a far fronte a queste che sono necessità, non opzioni, si misura l’insufficienza di una definizione della classe media che non presta attenzione alla condizione socio-economica generale e che ispira politiche sociali inefficaci quando non distruttive (si veda la riforma Gelmini). Ecco perché la classe media diventa un vero e proprio indicatore del funzionamento delle democrazie e della fiducia dei cittadini verso le politiche dei loro governi.
Quello che i neo liberali non dicono è che la classe media è stata definita presumendo quel che non c’è più, cioè uno Stato che si prendeva cura di molte delle funzioni necessarie che oggi gravano direttamente sul reddito. La classe media presumeva un’economia socialdemocratica. Nulla di che sorprendersi, perché le democrazie sono rinate nel dopoguerra sulla promessa della piena occupazione in cambio del contributo fiscale per finanziare le condizioni sociali della cittadinanza, come la scuola, la sanità e l’assistenza. Su questi pilastri si è consolidata sia la classe media sia la democrazia; sul loro sgretolamento si gioca l’intero ordine delle cose.
Il destino della classe media coincide con quello della democrazia sociale. Per questo, una politica democratica non può non aiutare la solidità della classe media con politiche sociali. È irragionevole non vedere questo problema nella sua magnitudine, non comprendere che il malessere sociale si farà sempre meno sporadico e tollerabile.

La Repubblica 20.10.13