attualità, cultura, politica italiana, università | ricerca

“Le università non sono aziende”, di Nadia Urbinati

Andando alla ricerca di un’aula di seminario agibile e sicura, il collega francese mi fece fare il giro dell’isolato spiegandomi che la Sorbona, gloriosa madre degli studi, si trova in uno stato pietoso poiché il governo ha da anni adottato una politica di “razionalizzazione” ovvero di tagli funzionali delle risorse agli atenei. Il risultato è che un’ala del palazzo storico della Sorbona è inagibile. La destinazione funzionale dei finanziamenti segue questa direzione: dall’Università alle “Grandes Ecoles”, le quali si consolidano nel patrimonio e nelle dotazioni alla ricerca con l’obiettivo di riconfermarsi il fiore all’occhiello della Francia, quell’immagine di eccellenza che il Paese porta nel mondo come carta d’identità.
Tutto si fa per le istituzioni di eccellenza, mentre le università, quel reticolo di ricerca e di educazione che ha il compito di selezionare e formare, tra l’altro, anche i cervelli che dovrebbero poi concorrere all’accesso nelle grandi scuole. Questa storia non è per nulla eccezionale. È uno spaccato di quel che sta succedendo un poco dovunque in Europa (con le dovute proporzioni dettate dai budget nazionali che non sono come sappiamo gli stessi in tutti i Paesi). Gli effetti sono deprimenti anche perché nel nostro continente vige generalmente un sistema universitario statale che però viene gradualmente gestito secondo criteri privati. Le università sono trattate come aziende che producono scarpe o abbigliamento e devono poter immettere sul mercato prodotti competitivi a prezzi concorrenziali. I prodotti che circolano sui banchi dei supermercati portano etichette con descrizioni standardizzate di quel che contengono, in modo che da Pechino a Varsavia gli acquirenti possano comprendere quel che scelgono e quindi scegliere senza sforzo. E se il mercato stabilisce che un genere o una marca non incontra più i favori del pubblico, l’azienda chiude o si ricicla per produrre altro. Il criterio della competizione di mercato è diventato un metodo universale di giudizio e di semplificazione delle decisioni, esteso anche al campo della ricerca e dell’educazione. Se si tratta di un sistema statale di formazione, il Paese come un’azienda cerca di piazzare i suoi prodotti sul mercato e lo fa mettendo in mostra i suoi gioielli, quelle eccellenze che diventano quindi il bene principale a cui dedicarsi, e per il quale si devono spendere risorse, tralasciando il grosso del sistema, quella moltitudine di atenei che pare diventino una ragione di spreco. Le eccellenze sono investimento mentre le università che coprono il
territorio nazionale sono una palla al piede.
Scriveva opportunamente Marino Regini sul
Corriere della Sera
di qualche settimana fa che non esiste un campionato internazionale di università, non solo perché i criteri di valutazione sono così diversi e complessi da rendere impossibile trovarne uno che sia semplice abbastanza da valere per tutte le discipline e in tutto il mondo, ma prima ancora perché il compito degli atenei non è quello di vincere gare ma di formare “capitale umano” e trasmettere un patrimonio di conoscenze che si consolida sul territorio e per mezzo della comunicazione internazionale.
Ma non sembra che questa sia la linea vincente, se non altro a partire dalla riforma Gelmini che ha recepito l’idea di trasformare la direzione degli atenei in consigli di amministrazione composti solo in parte da personale docente e operanti secondo criteri di valutazione e decisione cosiddetti “all’americana” (ma che non esistono nelle università americane, dove la reputazione degli atenei si forma secondo criteri non burocratici e centralizzati, primo fra tutti il piazzamento dei diplomati sul mercato del lavoro). Comunque sia, la mentalità del
prodotto d’eccellenza che deve risplendere su tutti per dare lustro al Paese (come la Ferrari o le firme dell’alta moda) è diventata moneta corrente, conquistando le nuove leve di politici che a questa opinione si adattano senza ombra di dubbio.
Molto significativa la riflessione proposta pochi giorni fa dall’aspirante primo ministro Matteo Renzi in un’intervista a “8 e mezzo”. Raccogliendo in poche battute ad effetto il senso dell’opinione generale corrente, ha sostenuto che gli atenei eccellenti italiani dovrebbero essere cinque al massimo, il resto non merita. «Ma come sarebbe bello se riuscissimo a fare cinque hub della ricerca, cosa vuol dire? Cinque realtà anziché avere tutte le università in mano ai baroni, tutte le università spezzettatine, dove c’è quello, il professore, poi ha la sede distaccata di trenta chilometri dove magari ci va l’amico a insegnare, cinque grandi centri universitari su cui investiamo… le sembra possibile che il primo ateneo che abbiamo in Italia nella classifica mondiale sia al centottantatreesimo posto? Io vorrei che noi portassimo i primi cinque gruppi, poli di ricerca universitari nei vertici mondiali».
Certo, ci sono i casi delle sedi distaccate generate per creare posti di lavoro (i governi della prima Repubblica hanno abusato delle risorse pubbliche per create posti di lavoro assistiti, alle poste come all’università). Ma le “université” che come un reticolo coprono il territorio nazionale (e formano bravi studenti apprezzati in tutti i Paesi dove vanno, numerosi, a cercare lavoro) non sono uno spezzatino che fa velo all’eccellenza; sono al contrario un laboratorio di energie da dove, inoltre, prendono linfa i centri d’eccellenza. Ma il problema è un altro ancora: i centri d’eccellenza sono finanziati con denaro pubblico e dovrebbero quindi essere finalizzati a raccogliere il meglio anche di quel che il sistema pubblico forma. Gli “hub della ricerca” non si contrappongono alle università dunque, ma sono o dovrebbero essere un loro traguardo naturale. La competizione dovrebbe servire a far emergere verso l’alto il più gran numero non a deprimerlo per procacciare la vittoria di pochi eletti in un campionato che, in effetti, non esiste. È auspicabile che avvenga quanto richiesto dalle organizzazioni universitarie e promesso dal ministro Carrozza, ovvero che non si ascoltino soltanto quelle voci che propongono di smantellare l’Università statale e adottano una definizione dura (ma povera) di alta formazione come mercato delle poche eccellenze in un deserto di risorse e ricerca.

La Repubblica 24.09.13