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“Il Belpaese in bilico”, di Ilvo Diamanti

È senza maggioranze e senza certezze politiche, l’Italia di oggi.
Forse, non solo da oggi. Un Paese “in bilico”, l’ha definito Enrico Letta. A ragione. Perché si muove in equilibrio instabile, non solo di fronte alle tensioni globali. Anche di fronte ai problemi nazionali.
Il sondaggio di Demos, condotto (per la Repubblica) nei giorni scorsi, riproduce in modo fedele questo Stato di Emergenza. Dove le “larghe intese” sono divenute la regola. L’unica soluzione possibile per comporre un elettorato diviso in tre grandi minoranze. Fra loro in-coerenti e poco compatibili. Le stime delle intenzioni di voto, oggi, d’altronde, riproducono fedelmente gli orientamenti emersi alle elezioni politiche di febbraio. Il Pd, con il 28%, circa, supera di poco il Pdl (26%). Segue il M5S, intorno al 21%. L’equilibrio tra i partiti appare, di nuovo, rilevante. E inquietante. Nulla che faccia presagire, in caso di voto anticipato, la vittoria chiara di uno schieramento. D’altronde, oggi sarebbe difficile immaginare anche quali coalizioni si confronterebbero. L’esperienza delle grandi intese (obbligate) ha inciso sulle preferenze degli elettori. Metà dei quali è soddisfatto dell’attuale governo. (E quasi il 60%, secondo l’Ipsos, valuta positivamente Enrico Letta, come leader.) Ma il sostegno al governo cresce sensibilmente fra gli elettori dei partiti della maggioranza. Sale al 60%, nella base elettorale del Pdl, al 74% (cioè 3 elettori su 4) nella base del Pd e all’80% in quella dei partiti di Centro. Peraltro, il governo piace anche a gran parte degli elettori della Lega. Per cui, le uniche componenti insoddisfatte sono costituite da Sel e la Sinistra. (Il cui distacco
dal Pd è, quindi, cresciuto.) E, soprattutto, dagli elettori del M5S. L’80% dei quali esprime un giudizio negativo sul governo. Il M5S, d’altronde, appare tutt’altro che finito. Alle amministrative ha pagato il limitato grado di radicamento e di presenza sul territorio. Ma su base nazionale sembra ancora capace di canalizzare la protesta dei cittadini. Che resta ampia. Come dimostrano, oltre al peso elettorale del partito guidato da Grillo, anche l’incidenza dell’astensione e dell’incertezza. Superiore a un terzo degli elettori.
Enrico Letta, dunque, guida una maggioranza divisa, più che condivisa. Animata da spirito di necessità più che da reciproca fiducia. La decadenza di Berlusconi, su cui si esprimerà la Giunta del Senato mercoledì prossimo, non a caso, è ritenuta conseguenza automatica di una legge, dagli elettori del Pd, del Centro, ma anche di Sel e del M5S. Mentre è considerata il “tentativo di eliminare un avversario politico” dalla quasi totalità degli elettori del Pdl – e della Lega. Tuttavia, anche se Berlusconi venisse sanzionato dalverno
la Giunta, la maggioranza degli elettori sia del Pd che del Pdl vorrebbe proseguire nell’alleanza. Nonostante tutto. Anche se, dal sondaggio di Demos, emerge una larga disponibilità a cercare l’intesa fra Pd e M5S, fra gli elettori dei due partiti. Per formare una nuova e diversa maggioranza. Soprattutto nel caso che il governo cadesse e, come chiede la maggioranza degli italiani, si dovesse procedere a nuove elezioni. Tuttavia, in questo caso, cambierebbe poco, visti gli orientamenti di voto, simili a quelli emersi alle elezioni dello scorso febbraio. Anche se, ovviamente, potrebbero cambiare, in futuro. In seguito al destino di Silvio Berlusconi. E, ancor più, dopo le primarie e la scelta del segretario del Pd.
In questo momento, comunque, il governo, secondo gli italiani, appare destinato a durare. Sicuramente, fino a fine anno (57%). Ma, probabilmente, anche di più. Oltre 6 mesi o perfino un anno (40% circa).
La forza di Enrico Letta, dunque, sembra dipendere, soprattutto, dalla debolezza degli altri soggetti politici. I partiti della maggioranza – compreso il Pd, di cui egli fa parte. Ma anche quelli dell’opposizione. Lo stesso M5S. Abbastanza forte da esercitare pressione fuori e dentro il Parlamento. Ma non al punto di proporre un’alternativa. Anche perché al suo “portavoce”, Beppe Grillo, non interessa. Non intende promuovere – o partecipare ad – alleanze diverse. Mentre i suoi elettori, in maggioranza (40%), pensano che il successo del M5S dipenda principalmente dalla protesta contro tutti i partiti. Dunque, meglio lasciare ad altri il compito di affrontare i rischi e i costi dell’impopolarità, che derivano dall’impegno di governare. Per questo Enrico Letta può proseguire la sua opera fra molte difficoltà, ma anche con molte possibilità di resistere. Perché le elezioni non sembrano dietro l’angolo. Nessuno, degli alleati, pare disposto ad affrontare le conseguenze di una crisi di governo. In piena emergenza economica. In uno scenario internazionale attraversato da venti di guerra.
L’unico che potrebbe avere interesse a voltare pagina, in effetti, è Matteo Renzi. Compagno (si fa per dire…) di partito di Letta. Un terzo degli elettori, infatti, lo vorrebbe futuro premier. Primo, fra i candidati proposti dal sondaggio agli intervistati. Supera di molto Enrico Letta (17%, al secondo posto, per numero di preferenze). A maggior ragione gli altri. Tuttavia, essere indicato da un terzo degli italiani costituisce un risultato significativo, ma non un plebiscito. Anche perché Renzi è largamente superato da Berlusconi (ma anche da Alfano), fra gli elettori del Pdl. E da Monti, fra quelli del Centro. Mentre è nettamente primo, con circa metà delle preferenze, nella base del Pd (dove, tuttavia, Letta ottiene quasi il 29%). Ma anche fra gli elettori del M5S. Con oltre il 40% delle indicazioni. Quasi il doppio rispetto a Beppe Grillo. Il quale, evidentemente, appare, ai più, un interprete straordinario della protesta contro i partiti e le istituzioni rappresentative. Ma pochi, perfino fra i suoi elettori, si azzarderebbero ad affidargli la guida del Paese. Del “nostro” Paese eccezionale. Che, ormai da anni, è governato da tecnici o da maggioranze divise, a cui partecipano partiti, fra loro, alternativi. “Costretti” a stare insieme per emergenza, ma non per volontà. Da ciò un sospetto. Un dubbio. Che, contrariamente a quanto recita la retorica antipolitica del nostro tempo, i partiti e il Parlamento, non rappresentino il “peggio”, ma un riassunto attendibile del Paese. Siano, cioè, lo specchio fedele degli italiani. Di questo Paese in-deciso a tutto.

La Repubblica 16.09.13

«Controllo e possesso di lei. Così nasce il femminicidio», di Jolanda Buffalini

Linda Laura Sabbadini ha ricevuto, ieri, nel teatro settecentesco di Montalcino, il premio internazionale Casato Prime donne 2013 per «l’azione concreta contro la violenza sulle donne». Linda Laura Sabbadini è direttore del dipartimento di statistiche sociali e ambientali dell’Istat ed è stata lei, insieme ad un gruppo di ricercatrici, dell’Istat a mettere a punto la metodologia statistica che ha fatto emergere i dati choc sulla violenza che si consuma dentro e fuori le mura domestiche e che, nella stragrande maggioranza dei casi (96,3%), non viene denunciata. Secondo l’indagine realizzata nel 2006 sono 6,7 milioni le donne che in Italia hanno subito violenza fisica o sessuale, si arriva a 10 milioni se si aggiungono le violenze psicologiche. Linda Sabbadini ha portato la sua esperienza alle Nazioni Unite, dove sono state elaborate, le linee guida mondiali.

Come siete riusciti a far emergere un fenomeno nascosto di tale portata?
Ci sono voluti 4 anni di sperimentazioni. La cosa più importante, che abbiamo compreso è come fare le domande. La violenza non è riconosciuta come tale, solo il 7% denuncia e solo il 18% considera reato ciò che ha subito. Non si puo chiedere ad una donna se ha subito violenza, perché potrebbe dire di no anche se l’ha subita. Molte donne non riconoscono la violenza. Si deve allora descrivere la violenza subita, ha ricevuto, schiaffi, ha ricevuto calci, è stata costretta ad avere rapporti sessuali contro la sua volontà’ e così via»

L’Europa non fa indagini sulla violenza contro le donne?
«La violenza è fin troppo sottovalutata. Per rilevare il Pil o l’inflazione, ci sono delle linee guida con norme vincolate, e, se un Paese non le applica incorre in una procedura di infrazione. La violenza, invece, è un optional. L’Istat ha potuto fare l’inchiesta grazie al finanziamento del ministero delle Pari opportunità e anche adesso la sta rifacendo perche il ministero e’ riuscito a trovare i fondi,ma, in queste condizioni, può restare un episodio, mentre per sapere se il fenomeno cresce o decresce, si dovrebbe ripetere La rilevazione con sistematicità. È fondamentale che un istituto pubblico come l’Istat – con il suo rigore metodologico – svolga questo tipo di ricerca periodicamente».

I quotidiani raccontano molti casi di femminicidio. Sono aumentati o c’è una maggiore attenzione?
«C’è una maggiore attenzione ma c’è anche da notare che, mentre gli omicidi degli uomini sugli uomini spesso maturati nell’ambito della criminalità organizzata, sono crollati, gli omicidi degli uomini sulle donne sono sostanzialmente inchiodati, e in gran parte opera di partner o ex partner».

Delitti senza movente?

«Il movente si annida nello squilibrio nelle relazioni fra i sessi , nel desiderio di controllo, dominio, possesso del maschile sul femminile. Siamo di fronte a un fenomeno strutturale, difficile da intaccare perché collegato a stereotipi culturali profondi. Per ottenere risultati ci vuole molto lavoro, politiche e investimenti continui e permanenti, aldila’ dei singoli governi,sostegno forte ai centri antiviolenza, integrazione del l’azione di diversi ministeri. Il femminicidio è la punta di un iceberg a fronte di 10 milioni di donne che hanno subito diversi tipi di violenze».

Il termine femminicidio ha sempre suscitato molte polemiche, molti sostengono che un delitto resta tale, che sia contro un uomo o contro una donna.

«Invece si tratta di delitti di una particolare natura. C’è un aspetto che riguarda l’immaginario: se a compiere la violenza è un italiano si parla di follia, di raptus. Quando è un immigrato si dice, invece, che è barbarie. È barbarie sempre, desiderio di dominio che si esprime quando cresce l’autonomia femminile. E c’è sempre una escalation violenta. Per questo è importante la comunicazione ed è importante il lavoro dei centri antiviolenza». Cosa bisogna far sapere?

«Bisogna preoccuparsi sin dal primo episodio perché ci sarà l’escalation di violenze combinate, psicologiche, fisiche, sessuali. Il 20 % delle intervistate ha detto di avere avuto paura per la propria vita. Una percezione del rischio molto alta, ma non hanno denunciato in maggioranza. Molte donne subiscono per non danneggiare i figli. Non sanno di fare ai figli un danno più grave. Ricerche internazionali hanno dimostrato che un figlio maschio che assiste alla violenza della madre ha una probabilita’ molto piu’ alta di diventare a sua volta un violento. E le figlie femmine di subirla a loro volta». Quali sono i gruppi sociali più colpiti? «Non ci sono eccezioni, italiane e straniere, ricche e povere, istruite e non istruite. È un fatto sociale e culturale prima che individuale. Cresce il numero delle straniere che denuncia, sono circa il 32% del totale. Però potrebbe essere la spia di un fenomeno sommerso molto vasto, poiché è più difficile denunciare soprattutto un proprio connazionale ».

L’Unità 15.09.13

“I cambiamenti necessari”, di Claudio Sardo

Il Governo Letta ha molte zavorre: è frenato dai ricatti del Pdl (come quello sull’Imu), è trattato con freddezza da parte del popolo di centrosinistra, ha margini esigui di manovra nel bilancio dello Stato, è condizionato dalla precarietà che Berlusconi ha imposto dopo la condanna. Eppure il governo Letta ha nel dna importanti obiettivi di cambiamento: o sarà in grado di realizzarli, o morirà.
I cambiamenti connaturati alla missione del governo sono tre. Il primo: agganciare la ripresa europea, apportando le prime correzioni di rotta alle politiche economiche perseguite in questi anni scellerati. Non ci sarà vera ripresa – almeno sul piano sociale – finché non tornerà a crescere l’occupazione. Non basterà qualche decimale di punto del Pil. E non basterà neppure giocare la partita interna sulla legge di Stabilità. L’impegno di rispettare il vincolo del deficit al 3%, come spiega Paolo Guerrieri nel suo articolo di oggi, ha senso solo se è accompagnato da investimenti strutturali per lo sviluppo e per il lavoro, concordati con l’Unione europea e svincolati dai parametri di Maastricht. Solo così potremo tornare a respirare e progettare. Solo così si può sperare di tenere insieme competitività e redistribuzione. Senza queste basi, anche domani, una più efficace e radicale politica di cambiamento rischia di diventare impossibile.

Il secondo cambiamento necessario (all’Italia e alla sopravvivenza del governo Letta) riguarda le riforme istituzionali ed elettorali. È chiaro a tutti che tornare alle urne con le regole attuali – il Porcellum e il bicameralismo paritario – rischia di provocare un disastro. Il Paese non può sopportare un’altra elezione nulla. Stavolta potrebbe collassare l’intero impianto istituzionale, aprendo le porte a un commissariamento esterno o ad altre soluzioni autoritarie. Il governo Letta ha bisogno, appunto, del 2014 per condurre a termine l’impresa, come ha bisogno del semestre di presidenza italiana dell’Unione europea per incidere sulle politi- che di bilancio e portare a casa dei risultati significativi.

Il terzo cambiamento – implicito anche se non dichiarato – comporta la trasformazione degli attori politici oggi sulla scena. L’intero nostro sistema non funziona più e il successo elettorale ottenuto da Grillo, con gli esiti paralizzanti che ha prodotto, ne è solo l’ultima prova. Se il governo Letta giungerà alla fine del 2014, inevitabilmente, avremo un nuovo centrosinistra e un nuovo centro- destra. Con nuovi leader e nuovi profili. Speriamo con altre forze disposte a chiamarsi «partito». In ogni caso, anche se l’innovazione o la capacità progettuale fosse carente, la ruota dovrà girare. È una necessità vitale, oggettiva, a cui nessuno può resistere. Il congresso del Pd è avviato: solo una crisi di governo e la fine repentina della legislatura può bloccarlo. Segnerà un passaggio generazionale, e non solo. Ma anche nel campo di Berlusconi un’era si chiude. È vero che il Cavaliere è ancora il solo «campione» elettorale della destra, tuttavia la decadenza da parlamentare e l’interdizione da ogni funzione pubblica impone un passaggio di testimone che non potrà ridursi ad un semplice cambio di maschera.

Berlusconi può interrompere questo processo ribellandosi alla (inevitabile) decadenza da senatore. Può far saltare il governo Letta, tentando di contrapporre il proprio consenso popolare alla sovranità della legge. Legittimazione contro legalità. Ma se concederà il nulla osta al governo per il 2014 – magari compiendo il solo gesto razionale di un uomo politico: le dimissioni da senatore, anticipando ogni voto di giunta e aula – il centrodestra non potrà non assumere una nuova fisionomia. Il dilemma di Berlusconi è esattamente questo: andare da leader all’ultimo assalto – stavolta sarebbe anche una guerra istituzionale – oppure favorire l’avvento di un nuovo sistema politico.

Qualcuno potrebbe dire: ma siamo sicuri che, in un contesto così incerto e conflittuale, il governo riuscirà a conseguire questi tre risultati? Perché non dovrebbe anch’esso fallire? Domande sensate, visti peraltro i precedenti di questo ventennio, in cui si è gridato vanamente all’inciucio e, in realtà, non è stato mai realizzato un compromesso politico degno di questo nome.

Ma il punto è che il governo Letta non riuscirà ad andare avanti, se rinuncerà o mancherà anche solo uno dei tre obiettivi. Il governo cadrà se le riforme istituzionali ed elettorali dovessero saltare. Il governo cadrà senza, almeno, una sensibile correzione di rotta sulle politiche economiche: il ricatto del Pdl sull’Imu è talmente insensato e autolesionista che, se non verrà depotenziato e/o riequilibrato sul piano sociale, renderà impossibile una chiusura positiva della legge di Stabilità. Infine il governo cadrà se Berlusconi non cederà il passo e non consentirà un centrodestra libero dalla sua impronta patrimoniale. Può darsi che Berlusconi provocherà la crisi proprio per impedire questi cambiamenti. Speriamo che il centrosinistra lavori invece – senza concedere sponde a Berlusconi sulla crisi – per costruire le pre-condizioni necessarie del cambiamento di domani. Il congresso del Pd deve mettere in campo una proposta forte per l’Italia di domani. Ma guai a fermarsi ai nomi dei leader. Guai a far prevalere la tattica, immaginando che una leadership più efficace possa prevalere in elezioni immediate e possa com- pensare da sola i limiti del sistema. Il cambiamento che serve all’Italia deve fondarsi su basi più solide delle macerie di oggi.

L’Unità 15.09.13

Riva, i PM contro l’azienda: “non c’è divieto d’uso dei beni”, di Laura Matteucci

Una nota della Procura di Taranto sconfessa la posizione del gruppo Domani mobilitazione unitaria. La serrata costa almeno 2,4 miliardi. Mentre i sindacati spingono per il commissariamento del gruppo e per un decreto, chiedendo la riapertura degli stabilimenti, la Procura di Taranto fornisce la propria chiave di lettura su quello che sta accadendo al gruppo Riva Acciai. Il provvedimento di sequestro nei confronti di 13 società collegate al gruppo, eseguito dalla Guardia di Finanza di Taranto mercoledì scorso, «non prevede alcun divieto di uso» dei beni aziendali sequestrati – dice una nota del procuratore Franco Sebastio. In altre parole, i sequestri «non pregiudicano l’attività produttiva», e peraltro «il custode-amministratore » nominato dall’autorità giudiziaria «è autorizzato ex lege a gestire eventuali necessità di ordine finanziario ». Una risposta che rimanda ufficialmente al mittente, cioè ai vertici di Riva, le accuse di aver causato la fermata degli impianti, come fosse un atto dovuto dopo il provvedimento giudiziario. Se il gruppo ha deciso di chiudere sette forni elettrici dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto (nelle province di Cuneo, Lecco, Brescia, Varese e Verona, parecchio lontani dall’impianto che avvelena la città pugliese) e «mettere in libertà» 1.400 dipendenti, insomma, il sequestro dei beni non c’entra nulla: il re è nudo e di fatto, come rileva anche il ministro allo Sviluppo Flavio Zanonato, si può continuare a produrre. «Questo è quello che ci interessa – dice – che l’azienda possa continuare a produrre».

CONTINUANO LE PROTESTE La palla passa di nuovo alla famiglia Riva. E la partita è assai delicata. Domani il presidente del gruppo Bruno Ferrante incontrerà Zanonato, e avvierà le procedure per la richiesta di cassa integrazione straordinaria per i lavoratori (che verrà poi discussa dal ministro al Lavoro Enrico Giovannini giovedì 19), proprio mentre sarà in corso la mobilitazione unitaria organizzata da Fim, Fiom e Uilm. Le proteste, comunque, in questi giorni non si sono mai fermate, con cortei e presidi nelle città sedi degli stabilimenti. Ma la vicenda, se gli impianti siderurgici non verranno riattivati a breve, rischia di avere effetti ancora più drammatici, coinvolgendo a cascata l’intera filiera dell’acciaio, e mettendo a rischio anche gli stabilimenti del gruppo all’estero (sette acciaierie, una ventina di siti). Il costo della chiusura, già di per sè, raggiunge i 2,4 miliardi, ma non tiene conto del rischio di perdita di ordini e commesse che potrebbero venire dirottati nel giro di poche settimane verso la concorrenza. Il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi l’allarme l’ha già lanciato: «Ho ricevuto molte telefonate da parte di imprenditori che lanciavano un appello drammatico perché gli stock di acciaio forniti dal gruppo Riva iniziano ad esaurirsi con danni incalcolabili sia sul piano produttivo sia sul versante occupazionale », ha detto al Sole 240re. Siamo appesi a un filo, è stato il suo ragionamento, e rischiamo di uscire da settori strategici come l’acciaio, la meccanica, la componentistica. Con un appello alla politica perché fornisca «un quadro di certezze giuridiche in cui operare». Forte la preoccupazione anche tra i sindacati. Per la leader della Cgil Susanna Camusso «l’equilibrio tra i provvedimenti giudiziari e la tenuta occupazionale di Riva Acciaio può risolversi con un apposito decreto». L’obiettivo è scongiurare la chiusura dei sette stabilimenti: «Occorre una norma – spiega Camusso – che garantisca continuità produttiva, rapporto con i fornitori, attività lavorativa. Bisogna farlo rapidamente prima che questo blocco determini la perdita del lavoro con la chiusura degli stabilimenti. C’è il rischio del declino delle fabbriche e questo mette in difficoltà un sistema produttivo che deve rivolgersi al mercato ». Un coro unanime, cui si unisce anche il leader di Sel Nichi Vendola. Il segretario della Fiom Maurizio Landini parla della cassa integrazione chiesta dall’azienda come di una «prospettiva importante ma non sufficiente». Quello che serve davvero, dice, è il commissariamento, altrimenti «il vero rischio è una drastica riduzione del gruppo», e su questo è d’accordo anche la Fim. «La Cig è importante – spiega Landini – perché la messa in libertà dei dipendenti era stata una drammatizzazione insopportabile, considerando anche il mancato pagamento degli stipendi; utilizzare la cig vuol dire tornare almeno alla normalità. Ma il vero problema è far lavorare quei lavoratori, la questione è la ripresa produttiva». A partire dal fatto che per Landini la responsabilità principale della situazione «è dell’azienda e della proprietà, che non ha fatto investimenti e ha violato leggi: ci sono responsabilità precise che vanno affrontate. Poi – continua – ci sono anche ritardi ed errori, dei governi e anche, non lo nascondo, dei sindacati».

L’Unità 15.09.13

“Un piano per il lavoro o non ci sarà ripresa”, di Fluvio Fammoni

La notizia del superamento del numero di novemilioni di persone che vivono nell’area del disagio e della sofferenza occupazionale, frutto di una recente ricerca dell’Associazione Bruno Trentin, per un giorno ha bucato l’indifferenza sulla condizione del lavoro. Non poteva purtroppo essere altrimenti poiché si tratta di un dato gravissimo che conferma la drammaticità del problema lavoro e ribadisce, nonostante l’ottimismo di maniera che inizia a circolare, come la crisi stia ancora producendo effetti fortemente negativi. Ma poi tutta l’attenzione è sparita, inghiottita dalla vicenda di Berlusconi, secondo una «gerarchia della notizia» assolutamente non condivisibile ma seguita ormai da gran parte del sistema di informazione italiano. Altri aspetti della ricerca, meno pubblicizzati ma non meno importanti, dimostrano il progressivo deterioramento del mercato del lavoro italiano. Per il quinto anno consecutivo la Cassa integrazione supererà il miliardo di ore autorizzate (complessivamente si tratta circa della stessa quantità di ore autorizzata nei 20 anni precedenti alla crisi) e contemporaneamente crescono le richieste di indennità di disoccupazione; ma molte persone, finito il periodo di durata dell’indennità (la disoccupazione di lunga durata è adesso più della metà del totale) non ritrovano lavoro e quindi non possono più farne richiesta, restando senza alcuna tutela. Di quanto si supererà, nel 2013, la cifra dei miliardo di ore lo sapremo solo quando le domande di cassa in deroga, ferme da mesi alle regioni per mancanza di fondi, saranno sbloccate. La crescita della disoccupazione è generale e riguarda tutti i settori e tutte e tre le ripartizioni territoriali del paese, ma nel Mezzogiorno ha superato il 20%. Se al tasso medio di disoccupazione nel Sud si somma l’inattività e la vastissima area di lavoro nero, il risultato è davvero insostenibile. Per questo il Mezzogiorno rappresenta una vera e propria emergenza nazionale. Anche fra i lavoratori stranieri cresce il non impiego, contrariamente a quanto afferma una propaganda puramente xenofoba, e la disoccupazione, già superiore alla media nazionale, continua a crescere. Aumenta poi il dramma dei giovani disoccupati che ormai riguarda 4 persone su 10 della classe di età fino ai 25 anni, ma che è in forte crescita anche fino ai 35 anni di età. A questo si aggiunge la precarietà: fra i giovani che riescono a lavorare, ben il 52,9% (dato tratto dalle comunicazioni obbligatorie e quasi raddoppiato rispetto al 2000) è precario. Si tratta, per la grandissima maggioranza, di una forma di lavoro subita e non scelta, al contrario di quello che ancora una certa propaganda cerca di raccontare. Potrei purtroppo continuare con altri esempi, ma quanto fin qui detto basta e avanza per motivare una considerazione e una proposta. Al di là di ogni opinione di parte la realtà inoppugnabile è che manca il lavoro e non se ne crea di nuovo. La teoria secondo cui per aumentare l’occupazione occorra maggiore flessibilità non solo è sbagliata ma è fallita, lo dimostrano i fatti e i dati. Dal 2012 le nuove assunzioni sono per l’80% di carattere temporaneo ma i contratti precari che cessano sono più numerosi di quelli attivati. È per questo che il numero totale dei precari non cresce nele statistiche ufficiali come invece dovrebbe, con percentuali così alte nelle nuove assunzioni. Molti adesso «preannunciano» la ripresa ma avanzano contemporaneamente la preoccupazione di uno sviuppo che non generi un aumento occupazionale. Certo, se nel 2014 il Pil secondo le più ottimistiche previsioni, crescerà in Italia fra lo 0.4% e lo 0.7% non si genererà nuovo lavoro stabile; si attenuerà ma non si fermerà l’emorragia di posti di lavoro. E allora? Non ci servono previsioni, occorre ribaltare questa prospettiva che ormai è diventata non solo un problema economico e sociale ma un vero e proprio problema democratico. Occorrono coraggio e scelte conseguenti. Quello che serve è uno sviluppo orientato a creare lavoro e l’innesco immediato di questo meccanismo, l’inversione di tendenza rispetto alla situazione attuale, può essere rappresentata solo dalla scelta della creazione di lavoro utile ma stabie. Sono le proposte del Piano per il lavoro avanzato dalla Cgil, ad oggi l’unica idea credibile in campo.
Fulvio Fammoni – Presidente Fondazione G.Di Vittorio

L’Unità 15.09.13

“Il grande crac Lehman non ha insegnato nulla”, di Federico Rampini

Che fine ha fatto Richard Fuld? Sta bene, grazie. The Gorilla, così lo chiamavano per la sua aggressività. Dopo essere stato un simbolo dell’arroganza di Wall Street, cinque anni fa il chief executive di Lehman Brothers fu costretto a dichiarare bancarotta. Lunedì 15 settembre 2008 resta «una data segnata dall’infamia», come Roosevelt definì Pearl Harbor. Davvero una Pearl Harbor economica: cinque anni fa si mise in moto la concatenazione di catastrofi che hanno sprofondato l’America e l’Europa nella più grave crisi dopo la Grande Depressione. Se qualcuno pensa che Fuld abbia pagato personalmente, deve ricredersi. L’ex numero uno di Lehman continua a fare affari a Wall Street. A capo della sua società Matrix Advisors, guadagna laute commissioni dando agli investitori i suoi consigli sulle strategie per arricchirsi, e perfino sulla «gestione del rischio». Le scene dei dipendenti di Lehman che cinque anni fa uscivano mestamente dal palazzo della banca, con gli scatoloni di cartone in cui avevano messo in fretta e furia gli effetti personali, illustrano il destino dei bancari, non dei banchieri. In decine di migliaia persero il posto a Wall Street, ma i capi anche quando hanno dovuto lasciare il posto hanno avuto trattamenti di riguardo: super-liquidazioni coi «paracaduti d’oro» multi-milionari.
C’è perfino chi ha guadagnato tanto dai crac finanziari. John Paulson, capo di uno hedge fund, ha comprato degli attivi di Lehman durante la procedura fallimentare, dai quali ha già ricavato un miliardo di dollari di profitti.
Non è andata così per la stragrande maggioranza degli americani.
Un rapporto del Dipartimento del Tesoro, fa il bilancio definitivo di quella crisi: 8,8 milioni di posti di lavoro perduti, 19.200 miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie distrutta. Un sondaggio Gallup dà la misura del trauma anche psicologico: la maggioranza degli americani sono convinti che un’Apocalisse finanziaria di quelle dimensioni può ripetersi e distruggere i loro risparmi prima che loro raggiungano l’età della pensione. Il magazine Time celebra il quinto anniversario con una copertina terribile: il Toro della Borsa è in festa, il titolo dice «Come Wall Street ha vinto», il sottotitolo è «cinque anni dopo il crac, tutto potrebbe succedere un’altra volta». Perfino il Wall Street Journal, giornale conservatore, dedica la sua attenzione ai perdenti. In prima pagina c’è una grande inchiesta sulla Lost Generation. Non solo in Europa, anche in America i ventenni sono una Generazione Perduta. Malgrado il tasso di disoccupazione giovanile sia solo un terzo o la metà rispetto ai paesi più colpiti dell’eurozona come Spagna Grecia e Italia, il
Wall Street Journal osserva che i ventenni americani con un lavoro sono spesso confinati su «un binario di serie B, senza prospettive di carriera, e vedono sfumare per sempre la possibilità di avvicinarsi in futuro ai livelli di benessere dei genitori».
Un’intera generazione, rivela l’inchiesta, «sta rinunciando o rinviando sine die tutti i riti dell’età adulta: il matrimonio, l’acquisto della casa, la nascita di un figlio».
Per capire la copertina di Time, «come Wall Street ha vinto», bisogna risalire proprio al crac Lehman. Che sprofondò l’establishment in un terrore da «contagio sistemico». E fu seguito da una svolta repentina. Lo stesso ministro del Tesoro Hank Paulson (Amministrazione Bush) che aveva lasciato fallire la banca di Fuld, 24 ore dopo decise un salvataggio da 85 miliardi di dollari per il colosso assicurativo Aig. Nasceva così la dottrina «too big to fail»: ci sono colossi finanziari troppo grandi perché li si possa lasciare fallire (con il corollario del «too big to jail», nessun megabanchiere è finito in carcere). 600 miliardi finirono nel fondo Tarp per i salvataggi bancari. L’aspetto più pernicioso del «too big to fail», è l’incentivo implicito che offre ai banchieri perché ricomincino ad assumere rischi eccessivi. Tanto, se finisce male sarà il contribuente a pagare il conto.
Dopo il Tarp, ebbe inizio l’èra segnata da uno straordinario protagonismo delle banche centrali, con l’esperimento estremo di politica monetaria condotto dalla regina fra loro: la Federal Reserve americana. Un esperimento fatto di massicci acquisti di bond sui mercati, per azzerare il costo del credito e inondare di liquidità l’economia. I rialzi poderosi delle Borse mondiali, Wall Street in testa, sono strettamente legati a questa terapia d’urto.
Che potrebbe finire questo mercoledì, con l’atteso annuncio del ridimensionamento graduale degli acquisti della Fed. Quell’annuncio sancirebbe la conclusione ufficiale di un quinquennio drammatico. Ma riaprirà la battaglia sulle lezioni che bisogna imparare dalla crisi. L’appuntamento cruciale è la nomina del successore di Ben Bernanke alla guida della Fed. Le polemiche furiose — e inusuali — sui due candidati di Barack Obama, vanno al cuore del dibattito sulla crisi. Chi si oppone a Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, lo fa perché ricorda il suo ruolo nella deregulation finanziaria. Chi appoggia Janet Yellen non è mosso solo da «femminismo », ma vuole una donna che ha mostrato di non essere complice né succube dei grandi vincitori di questo quinquennio: i banchieri.

La Repubblica 15.09.13

“L’incubo del franco tiratore”, di Goffredo De Marchis

Rendere palese il voto segreto. Non con una nuova legge e la modifica dei regolamenti ma con un trucco. Bastano una mano, la sinistra; un dito, l’indice e un gruppo di fotografi compiacenti. UÒ essere questa la strada scelta dal Partito democratico per affrontare il giorno chiave della legislatura, quando la decadenza di Silvio Berlusconi arriverà nell’aula del Senato e ci sarà il voto decisivo per espellerlo dal Parlamento. L’appuntamento è lontano, preceduto dal voto della giunta mercoledì. Intorno al 10 ottobre secondo i calcoli degli esperti, ma il Pd ha cominciato a discuterne. Perché il clima nelle feste democratiche sparse per l’Italia è «brutto, brutto davvero », rivela Miguel Gotor, ex spin doctor di Bersani e senatore alla prima legislatura. Pesa la maledizione dei 101 franchi tiratori che affossarono Prodi. Un peccato mortale che i militanti non perdonano. Continuano a chiedere ai dirigenti del Pdl i nomi, la testa dei traditori. E temono che la catastrofe possa ripetersi, in termini ancora più drammatici visto che in ballo c’è la sorte dell’avversario ventennale. Il “trucco dell’indice” perciò racconta
la drammaticità del passaggio. Per il Pdl e anche per il Pd.
Sembra un modo per controllare i senatori, una mancanza di fiducia preventiva. Ma la vera paura di Largo del Nazareno non è quella delle serpi in seno. Il gruppo di Palazzo Madama appare compatto. Lo dice anche Felice Casson, ex magistrato, considerato il giustizialista della compagnia. «Mai visti i miei colleghi così uniti — garantisce — . Non spunteranno traditori, la pensiamo tutti allo stesso modo». La legge Severino dice che il condannato decade e la legge va rispettata. No, la grande paura è che Beppe Grillo voglia far saltare il pentolone Pd, suggerendo ai suoi senatori o a una parte di essi di votare a favore del Cavaliere. Nel segreto del voto. Per dare la colpa al partito di Letta e Epifani. «Io lo proporrò all’assemblea dei miei colleghi — annuncia Gotor — . I 108 senatori del Pd devono mettere nella buca dello scranno solo l’indice della mano sinistra. In quel modo è fisicamente impossibile esprimere un voto diverso dal “sì”. Ci mettiamo d’accordo con alcuni fotografi che riprendono la scena, postiamo tutto sui social network ed evitiamo guai». È uno stratagemma già usato dal gruppo alla Camera durante la votazione per l’arresto di Alfonso Papa. Il presidente dei deputati era Dario Franceschini. «Sapevamo che la Lega avrebbe votato contro il carcere per poi addossare la responsabilità a noi. Fummo costretti», ricorda adesso il ministro dei Rapporti con il Parlamento. “Processarono” i democratici per aver violato il segreto, si convocarono riunioni su riunioni. Ma l’onore era salvo, la base soddisfatta.
La replica potrebbe andare in scena a metà ottobre.
È iniziata una guerra dei nervi tra il Pd, pilastro delle larghe intese, e il Movimento 5stelle. La richiesta del voto palese e di una modifica dei regolamenti avanzata dal grillino Morra è il primo atto del conflitto. «Sono sicuro che Grillo dirà a 20 dei suoi di votare per Berlusconi. Vuole sputtanarci, farci esplodere. La Lega fece lo stesso per l’arresto di Craxi. Agitavano il cappio ma organizzarono i voti che salvarono il segretario socialista — spiega Gotor —. La Seconda repubblica crollò e giunse l’ora di Bossi ». Venti senatori non bastano a evitare la decadenza. Ne servono almeno 43. Un numero enorme, difficile da organizzare. Ma sarebbero sufficienti a gettare nel panico il mondo dei democratici. Anche Casson e il capogruppo Luigi Zanda si aspettano le provocazioni dei grillini. Mettono invece la mano sul fuoco per i colleghi Pd. «Qualche scantonamento è fisiologico, anche tra i nostri — dice Casson —. Nulla di decisivo, però. Temo invece i grillini e la Lega». E con i 101 di Prodi, come la mettiamo? «Il Pd al Senato ha già votato l’arresto di Lusi…», risponde Casson.
Zanda para l’affondo dei 5stelle, chiedendo anche lui il voto palese. «Ma basterà la richiesta di 20 del Pdl e verrà autorizzata la votazione segreta. Per cambiare il regolamento ci vogliono mesi, i grillini non sanno di cosa parlano». Eppure con il blog si può creare un alone di sospetto sul Pd. Per questo alcuni, come Gotor, pensano alle misure drastiche, ad aggirare l’ostacolo. Sempre che non sia Berlusconi a farsi da parte prima evitando le forche caudine di Palazzo Madama. «Il timore del Cavaliere — dice un senatore democratico — sono i franchi tiratori della sua parte, quelli che non vogliono mollare la poltrona. Il Pdl sta bollendo da mesi. Berlusconi farebbe bene a guardarsi dai suoi».

La Repubblica 15.09.13