attualità, cultura, politica italiana

“Le parole della democrazia”, di Michele Ciliberto

Esiste, come è noto, quella che si potrebbe chiamare una superstizione delle parole. Delio Cantimori, uno dei maggiori storici italiani, parlava addirittura di un «bonapartismo» delle parole, per indicare l’uso eccessivo e improprio di termini che hanno senso solo se sono usati nel loro ambito di riferimento.

In questo caso intendo però alludere alla moda, oggi diffusissima, di usare alcune parole come una sorta di totem, quasi «figure» religiose rispetto alle quali l’unico atteggiamento possibile è quello dell’accettazione incondizionata e della condivisione reverente. È una sorta di monolinguismo autoritario, accentuato e propagandato dai media, su cui varrebbe la pena di fare una riflessione perché ha a che fare con la democrazia, come sempre accade quando si tratta di questioni di parole, di linguaggio.

Fino a poco tempo fa la parola-totem era «necessità», quando si parlava della situazione italiana e del governo di «larghe intese». In Italia non erano possibili altre strade: questo e solo questo richiedeva la crisi, questo e solo questo richiedeva l’Europa. Aprire il campo ad altre opzioni sarebbe stato solo segno di irresponsabilità e mancanza di senso della realtà.

Mai dire, poi, che Berlusconi si era deciso a sostenere questo tipo di governo perché aveva perso le elezioni e, soprattutto, per questioni puramente personali, non essendo mai stato animato da alcun interesse per il bene pubblico che non coincidesse con i suoi affari privati: un «fatto», non una «opinione», testimoniato da tanti anni di governo, e dalle innumerevoli leggi ad personam da lui varate a suo esclusivo vantaggio. Certo, Berlusconi era Berlusconi, chi poteva negarlo? Ci sarebbe stato perciò qualche prevedibile scarto, qualche sorpresa, ma era un rischio calcolato, che bisognava correre: le cose si sarebbero aggiustate. È un primo paradosso su cui vorrei richiamare l’attenzione: in una curiosa sarabanda, in Italia più si è accentuata la crisi, più si è affermata una sorta di provvidenzialismo icasticamente rappresentato dalle parole-totem più diffuse: «necessità», «responsabilità», «unità»…

Le cose sono andate diversamente, come vediamo anche in questi giorni: Berlusconi non è riuscito, come contava, a evitare la condanna e sta facendo ballare il Paese e il governo per trovare una via di fuga, mostrando a tutti, anche ai più esperti, quali erano i suoi obiettivi concreti quando è nato il gabinetto Letta. E per riuscire a salvare se stesso e il patrimonio ha iniziato una vera e propria azione di guerriglia, delle cui conseguenze dovrà assumersi la responsabilità se arriverà fino al punto di far cadere il governo.

In questa situazione si è verificata una vera e propria conversione linguistica: alla paro- la-totem «necessità» si è affiancata, fino a sopraffarla, la parola-totem «stabilità». Dovunque – in tv come sui giornali più autorevoli e più convinti della propria missione pedagogica – risuona come una sorta di refrain la stessa musica inserita nella medesima costellazione linguistica: l’Italia ha bisogno di stabilità; senza stabilità il Paese va a fondo…

«Stabilità» è una parola neutra: cosa signifi- ca oggi, concretamente, fare l’apologia della «stabilità»? Che rapporto effettivo può esserci fra una crisi sociale come quella che attraversiamo e la stabilità? Nessuno, penso, se ci si mette dal punto di vista di quelle che una volta si chiamavano le «classi subalterne». Ma posto pure che fossimo in una situazione ordinaria e di relativo equilibrio sociale, dove è mai scritto che la «stabilità», la quiete, è indice di una con- dizione positiva per uno Stato, una società? Certo, per le ideologie di carattere conservatore la «stabilità» è il principale pilastro di riferimento. Nei primi decenni del Seicento, per fare un esempio, parole come «mutamento» erano una bestemmia ed erano espulse dal vocabolario politico; mentre il lemma e il concetto di «stabilità» campeggiava in varie forme nei trattati sulla Ragion di Stato. Ma questo si capisce: la «stabilità» è l’obiettivo primario quando si tratta di ideologie conservatrici.

Come stanno invece le cose per una prospettiva e un pensiero democratico, anche in una condizione di emergenza come quella che stiamo vivendo? Vorrei partire da una affermazione fatta da un grande Papa a proposito di una nobile parola. Pace, spiegò una volta Papa Montini, non significa quiete, staticità, stagnazione: ha senso se implica movimento, trasformazione, dinamicità. È una posizione che coincide con i momenti più alti del pensiero laico e democratico: la «stabilità» e la «quiete» generano stagnazione, corruzione e infine decadenza. Gli Stati, come le chiese, non si sviluppano e progrediscono attraverso la «stabilità»: hanno bisogno di trasformazione, di mutamenti; il contrario di quello che pensano i teorici della Ragion di Stato tornati oggi di moda.

Certo, nel pieno della tempesta la «stabilità» può essere un obiettivo da conseguire e il governo Letta sta svolgendo un lavoro assai serio, specie a livello internazionale, che va difeso e sostenuto. Ma qui sto ponendo un altro problema, di ordine strategico: per una cultura politica democratica la stabilità deve restare un mezzo, non può essere trasformata in un fine come rischia di accadere in questo periodo in Italia, in nome della Realpolitik.

C’è qualcosa, oggi, che turba e inquieta e su cui occorre riflettere: si stanno imponendo ideologie che privilegiano l’esistente, il presente, inteso come spazio uniforme e unilineare, senza alternative che non siano quelle dettate da parole-totem come «necessità» e «stabilità» alle quali si rischia di sacrificare molte cose importanti, compreso il rispetto delle norme e delle regole che sono l’anima della democrazia. Si diffondono sensi comuni che tendono a escludere il «mutamento» dall’orizzonte delle possibilità, proprio mentre la società italiana, nel profondo, ribolle e chiede in modi inequivocabili mutamenti radicali e trasformazioni. Con la conseguenza di approfondire ulteriormente il divario, già assai ampio, tra mondo delle istituzioni e della politica e i cerchi sempre più complessi e sofferenti della vita sociale, con il rischio di potenziare i movimenti che si escludono volutamente dalla ordinaria vita parlamentare. Simmetricamente, si diffonde un lessico che toglie spazio alla dimensione del mutamento, della trasformazione, della libertà individuale e collettiva.
Uno dei pochi che oggi, rispetto a tutto questo, ha scelto di muoversi in controtendenza con nettezza e intransigenza è il nuovo Papa che sta mostrando a tutti i livelli – compresa la politica internazionale – come si possa avere un differente punto di vista sulla realtà e ottenere risultati concreti. E lo fa utilizzando un nuovo lessico imperniato sulla critica dell’esistente e sull’apertura alla speranza, rigettando i totem della «necessità» e della «stabilità».

È un fatto importante e positivo, che dà alla Chiesa cattolica una nuova voce. Ma il pensiero laico e democratico, e il partito che si è dato questo nome, non dovrebbero anche loro dire una parola su questa ideologia della «stabilità», cercando di ricostituire un nesso – tanto essenziale quanto precario – fra democrazia e linguaggio? Sarebbe bene ricordarsene ogni tanto: quella degli uomini, almeno fino ad ora, è stata una storia materiale di mutamenti e di trasformazioni da cui sono nate, faticosamente, le nostre libertà. E di questa «storia delle libertà» il linguaggio è stato e resta, oltre che un indice importante, uno strumento decisivo

L’Unità 14.09.13