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“La stanchezza dell’America”, di Timothy Garton Ash

Si è mai visto nella storia americana un discorso alla nazione più insolito di questo ultimo? Il presidente Obama ha informato gli americani che il voto del Congresso sull’intervento militare in
Siria è rinviato. Con il tono maestoso e solenne adeguato ad una dichiarazione di guerra, Obama ha motivato la sua decisione con il fatto che la Russia sta portando avanti un’iniziativa diplomatica che potrebbe — il condizionale è d’obbligo — porre le armi chimiche siriane sotto il controllo della comunità internazionale. Non è stato esattamente un discorso a livello di quello di Lincoln a Gettysburg. La via di Damasco sarà ancora costellata di svolte ma le vicende politiche delle ultime settimane dopo l’uso criminale di armi chimiche in Siria il 21 agosto sono già molto rivelatrici. Innanzitutto ci dicono quello che lo stesso Obama ha riconosciuto nel suo discorso in tv, citando le parole di un veterano che gli ha scritto: “Questa nazione è stanca e nauseata dalla guerra”.
È vero, negli Stati Uniti, come in Europa, sul dibattito circa l’intervento in Siria pesa l’ombra dell’imbroglio di Colin Powell (nientemeno), quello dei falsi rapporti di intelligence sull’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Ma per la maggioranza degli americani non è quello il problema. Stando ad un recentissimo sondaggio targato New York Times/Cbs,
il 75% degli americani è dell’opinione che il governo siriano probabilmente abbia fatto uso di armi chimiche contro i civili — e ciò nonostante resta prevalentemente contraria alla reazione militare di cui Obama è fautore. Ho visto in tv innumerevoli interviste ai membri del Congresso e tutti, repubblicani e democratici, favorevoli o contrari all’intervento, sono consapevoli di questa realtà. Su almeno un migliaio di elettori solo “tre o quattro” si sono detti favorevoli all’azione militare, comunica Elijah Cummings, parlamentare democratico nonché sostenitore di Obama. Il senatore Rand Paul (figlio di Ron), astro nascente del partito repubblicano, afferma che in base ai suoi sondaggi telefonici solo un intervistato su 100 è favorevole all’intervento.
Gli americani sono “stanchi e nauseati” e non pensano che l’intervento armato abbia avuto effetti positivi in Medio Oriente. È costato migliaia di miliardi mentre la gente in America ha perso il posto di lavoro e la casa, si arrabatta per campare, vede il degrado di ospedali e scuole. E, paradossalmente, questo è proprio il ritornello di Obama. È lui il presidente che ha assunto l’incarico per porre fine a “un decennio di guerra” (sua tipica espressione, utilizzata nuovamente nell’ultimo discorso) e concentrarsi sul “nation- building in patria”. Quindi Obama è stato specchio di questo sentimento popolare e lo ha rafforzato. E, paradosso su paradosso, se il miglior nemico di Obama, il presidente russo Vladimir Putin, non fosse giunto in soccorso all’ultimo minuto, interessatamente, quello stesso sentimento avrebbe probabilmente inferto un colpo destruente alla presidenza Obama. Sembrava che il presidente americano fosse di fronte a una sconfitta, se non nel voto al Senato, quanto meno alla camera dei rappresentanti.
L’atteggiamento che ultimamente vede accomunati democratici e repubblicani viene definito, con scarsa fantasia, “isolazionismo”. È vero che gli Usa in passato si sono ritirati in una ampia indifferenza continentale, come dopo la Prima guerra mondiale. Ma
stavolta è diverso. Seppure l’attuale tendenza a ripiegare senza dubbio attinga a qualche fonte tradizionale, percorre un paese che non si sta affacciando baldanzoso al palcoscenico mondiale, ma è timoroso e consapevole del proprio relativo declino.
Negli anni Venti gli americani non erano angosciati all’idea che una Cina in ascesa potesse togliergli l’hamburger di bocca e comprarsi poi tutto il chiosco. Ora lo sono.
Vale la pena di citare ancora qualche ingrediente tipico di questa classica torta di mele americana. Uno è Israele. Difficile sovrastimare l’impatto della considerazione di Israele sulla politica estera americana in generale e quella mediorientale in particolare. Alcune delle analisi più agghiaccianti che ho letto nelle ultime settimane individuano una realpolitik israeliana secondo cui il male minore per Israele è che i due schieramenti dei suoi arcinemici, l’Iran e il regime di Assad sostenuto da Hezbollah e i ribelli sempre più composti da estremisti islamisti sunniti e parzialmente filo Al-Qaeda, si ammazzino tra loro. “Per noi il ‘migliore dei casi’ è che continuino a combattersi l’un l’altro senza badare a noi”, scrive un anonimo funzionario di intelligence su buzzfeed. com.
“Lasciamo che si dissanguino: è questo il pensiero strategico qui”, dice Alon Pinkas, ex console generale di Israele a New York. Machiavelli a confronto sembra il Mahatma Gandhi. Poi ci sono i falchi interventisti, come John McCain e Paul Wolfowitz, convinti che sia opportuna un’azione più risoluta da parte degli Usa, così da permettere ai ribelli più moderati di rovesciare Assad. Non saranno affatto soddisfatti di una soluzione che si limiti a contenere le armi chimiche grazie ad un accordo con Assad mediato dalla Russia. Accanto a loro abbiamo i politici repubblicani incurabilmente di parte, ai quali preme di più umiliare Obama che fermare Assad. E ci sono poi i cosiddetti strateghi — tantissimi a dire la verità, non da ultimo membri delle forze armate statunitensi o ad esse collegati — che riflettono sulle conseguenze strategiche per gli Stati Uniti e la regione. Nella stragrande maggioranza dei casi raccomandano
cautela.
Non da ultimo c’è ancora chi appoggia l’intervento su basi progressiste e umanitarie, stile anni Novanta, alla luce delle esperienze in Bosnia, Rwanda e Kosovo. Obama ha nominato ambasciatrice alle Nazioni Unite una sorta di icona di questo orientamento, Samantha Power, autrice nel 2002 di un libro intitolato
Voci dall’inferno, l’America e l’era del genocidio.
Il titolo originale inglese è A Problem from Hell: America and the Age of Genocide.
Beh, la Siria è davvero un problema infernale. Questi interventisti progressisti e umanitari non sono la voce predominante in una amministrazione caratterizzata da un cauto pragmatismo, che mette la sicurezza al primo posto, ma esistono comunque.
È da pochi giorni passato il dodicesimo anniversario degli attacchi terroristici dell’11 settembre che diedero il via al famoso decennio di guerra — giustificabile, quanto alla immediata reazione contro Al Qaeda in Afghanistan, ingiustificabile e disastroso in Iraq. Quella di oggi è un’America molto diversa. Forse, dopo qualche anno trascorso a mettere in ordine in casa propria, tornerà ad essere — nonostante le molte pecche e ipocrisie — l’indispensabile punto di riferimento di un qualche ordine internazionale liberale. Ma in considerazione non solo dei suoi problemi interni strutturali, ma soprattutto del mutare del panorama del potere globale al suo esterno, in qualche modo dubito che sia così. Ai tanti critici e nemici giurati dell’America, in Europa e nel mondo dico solo questo: se non vi piace il vecchio mondo in cui gli Stati Uniti intervenivano regolarmente, guardate un po’ se vi piace quello nuovo, in cui non lo fanno.
(Traduzione di Emilia Benghi)

La Repubblica 14.09.13