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“Per rilanciare gli investimenti”, di Silvano Andriani

L’Accordo definitivo a Genova fra COnfindustria e Sindacati rappresenta un evento eccezionale anche se non improvviso. Eccezionale non solo in quanto esplicita una convergenza che non riguarda un singolo aspetto della politica economica o del sistema contrattuale, ma l’intera visio- ne della fuoriuscita dalla crisi dell’Italia, ed anche perché realizza una sorta di concertazione dal basso in mancanza di una iniziativa del governo.
Viene naturale confrontare questa realtà con l’unica esperienza di programmazione concertata tentata all’inizio degli anni Sessanta in Italia e la differenza salta agli occhi. Allora l’iniziativa di convocare le parti sociali fu del governo e quell’esperienza fu preceduta – basta ricordare il «Piano del lavoro» della Cgil ed il «Piano Vanoni» – ed accompagnata da un intenso ed elevato dibattito che coinvolse l’intero mondo politico: la relazione di Aldo Moro al congresso di Napoli della Dc, la nota aggiuntiva al Bilancio dello Stato di Ugo La Malfa, le elaborazioni sulle riforme di struttura di Riccardo Lombardi per citare alcuni momenti salienti. Quell’iniziativa andò incontro alla sostanziale diffidenza della Confindustria rispetto all’idea stessa della programmazione economica ed alle critiche della Cgil che riteneva il piano conclusivo troppo macroeconomico e scarsamente proiettato a cambiare la struttura economica ed a rendere più egualitaria la distribuzione del reddito. Oggi l’iniziativa non viene dalla politica, ma dalle parti sociali nella mancanza di dibattito della politica sul futuro del Paese e di adeguata attenzione da parte della stampa.

La graduale convergenza fra sindacati e Confindustria è in atto da anni, come risulta anche dalla linea generale del giornale della Confindustria Sole 24Ore e dalle elaborazioni del Centro Studi della Confindustria, e riguarda la valutazione della crisi, la critica della risposta europea, le misure per uscirne. Nessun governo finora ha pensato di usare tale convergenza come una leva formidabile per uscire dalla crisi: non lo ha fatto il governo Monti, tanto meno lo ha fatto il governo Berlusconi tutto impegnato a dividere i sindacati, non lo ha fatto finora l’attuale governo. Letta ha fatto bene a rispondere subito positivamente all’iniziativa delle parti sociali ora si tratta di vedere se questa sarà la linea del governo in quanto il complesso delle proposte contenute nel «Patto», che questo giornale ha già illustrato, puntano su di un rilancio dell’economia trainato dagli investimenti, come proposto due anni fa dal Coordinamento economico della Cgil, che non è esattamente la linea seguita finora dal governo molto centrata sulla questione Imu.

Il Pdl nel focalizzare l’attenzione del governo sull’eliminazione dell’Imu ha sostenuto che il rilancio dei consumi che ne deriverebbe sarebbe la leva per rilanciare l’economia. Questa linea non solo punta a rilanciare lo stesso modello di sviluppo in crisi, quello trainato dai consumi privati, peraltro distribuiti in modo sempre più sperequato, ma è anche illusoria: aumentare quantitativamente i consumi attraverso il bilancio pubblico è possibile solo se aumenta il deficit pubblico, ma questo non è possibile secondo gli accordi europei, fortunatamente. E invece realistico pensare che sia possibile, attraverso l’adeguata pressione dei Paesi interessati, affermare fino in fondo la «regola d’oro», la deduzione cioè dal computo del deficit delle spese relative ad investimenti fatti per realizzare gli obbiettivi fissati nei grandi progetti dell’Unione accettando magari forme di controllo da parte della Com- missione europea. Una strategia di investimenti può provocare anche un aumento dei consumi nella misura in cui, come è decisamente auspicabile, generi nuova occupazione.
Vi è un’altra leva con cui può essere alimentata questa strategia ed è la mobilitazione di parte delle enormi masse di risparmio esistenti per il finanziamento di investimenti in imprese ed in infrastrutture e si possono inventare nuova forme di partnership pubblico/ privato nel finanziamento degli investimenti. Tutto questo non avverrà semplicemente attraverso misure fiscali; qui arriviamo ad un punto cruciale. L’insuccesso dell’esperienza degli anni 60, che finì per essere accusata di aver prodotto solo un «libro dei sogni», è dovuta in grande misura al fatto che una cosa è scrivere programmi politici altra è dotare lo Stato di una effettiva capacità di programmazione strategica e di elaborare ed implementare strategie di investimento ai vari livelli. Questa capacità lo Stato italiano non l’aveva allora e non la ha oggi. Ed è il punto in discussione anche in altri Paesi che stanno puntando a rilanciare l’intervento pubblico come capacità di orientare il processo di ricollocazione del proprio sistema economico in un contesto mondiale in rapido mutamento.

Se il governo deciderà di convocare le parti sociali non dovrebbe limitarsi a registrare le proposte del Patto, ma dovrebbe allargare il confronto, coinvolgendo il Parlamento e le forze politiche, sull’architettura istituzionale e gli strumenti finanziari necessari a sorreggere un nuovo sviluppo trainato dal rilancio degli investimenti.

L’Unità 06.09.13

“Paola, morta per difendere lo Stato”, di Marco Bucciantini

Adesso si valutano i problemi, si cercano soluzioni. Si riuniscono i responsabili del governo e della polizia. Entrano in campo le maiuscole. Adesso succede. Come se un motore invisibile avesse cominciato a girare. Adesso che Paola è morta ammazzata, ventotto coltellate conficcate su questa madre sacrificata in una guerra quotidiana, difficile, silenziosa, fondamentale per la tenuta di un territorio, per dare senso a quell’espressione di comunità che non si mantiene da sola, non cresce spontanea come i capperi sui muri.
Va coltivata, ovunque. Paola Labriola era una di questi contadini che seminano il nostro Paese. Faceva un lavoro di frontiera, perché si misurava con i margini dell’umanità, con i limiti dell’umanità. Cercava – con i colleghi – di «includere» in questa comunità anche chi vive ammorbato dai disagi psichici, chi si è chiamato fuori dalla vita, chi la confonde e la imbroglia con le droghe. Ogni giorno, ogni ora, ogni momento Paola lavorava un passo di qua dalla sottile linea rossa, nella struttura che accoglieva il disagio psichico e sociale.
Com’è finita è cronaca dell’altroieri: un uomo adulto, rovinato, senza calore, le ha chiesto soldi per la droga, i soldi per qualcosa, o solo per chiedere, per avere un pretesto mentre lei, con educazione e sorridendo si scusava per averlo fatto aspettare, occupata da un altro paziente. Poi le coltellate. Le parole disperate dei colleghi, rabbiose, fuori dal camice: «Avevamo chiesto la vigilanza privata, qui entra chiunque». Le più pericolose sono le persone in astinenza, potenzialmente violenti. È un problema di centinaia di strutture per la salute mentale, di altrettanti Sert (gli avamposti di servizio per le tossicodipendenze). Paola era consapevole e sconfortata, sembra che avesse considerato anche la possibilità di un trasferimento, tanto era preoccupata dalle frequentazioni della struttura, e dall’assenza di protezione. Questi ambulatori sono posti necessari per una comunità, sono reti di protezione, sono – addirittura – la «nobilitazione della politica», intesa come governo di un territorio e per questo è per forza più importante dov’è più difficile da curare. Per dirla con un po’ di imbarazzante utilitarismo, senza queste strutture le nostre vie sarebbero più insicure.
I dottori del centro di igiene mentale di Bari dove Paola lavorava (in un quartiere complicato e dal nome bellissimo: Libertà) avevano dunque chiesto un sostegno. «Bastava un agente». Non serviva l’esercito: bastava un agente che controllasse gli accessi, che intervenisse nei casi di improvvise aggressioni. Forse non avrebbe salvato Paola, forse sì. Ma non è questo il punto. La solitudine di questi lavoratori: questo è il punto. «Non ci sono soldi per i vigilantes», fu la risposta. Motivata: «Dal vostro centro abbiamo avuto solo una segnalazione di situazione pericolosa». Mercoledì è arrivata la seconda segnalazione, irreparabile. Poi sono arrivate le parole di chi non aveva quei soldi, o non credeva a quel pericolo. «Paola è martire della città», ha detto il sindaco Michele Emiliano, che ha proclamato il lutto cittadino e ha avuto almeno il merito di parole gravi, che marcassero questo fatto e non lo disperdessero nella cronaca nera. E tutti hanno detto che «è una morte sul lavoro», altro posto fondante e simbolico di questo Paese, altro luogo dove si abbassa la guardia, dove si muore, sui cantieri e negli ambulatori.
Un’indagine di Cittadinanzattiva da anni aveva rivelato lo stato di inadeguatezza («d’illegalità») in cui operavano «i servizi territoriali per la salute mentale e per le dipendenze patologiche, per la loro collocazione, per scarsità di spazi e di personale, per la riduzione a prestazioni per lo più ambulatoriali…». Quello che un tempo hanno fatto le associazioni, oggi diventa priorità di governo, si legge sulle agenzie: «si è riunito nella prefettura di Bari il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica… per affrontare il tema della sicurezza davanti ai luoghi dove operano i centri di salute mentale e di cura delle tossicodipendenze…». Bisogna dare risposte ai cittadini, così colpiti da questa brutalità, ha detto qualcuno dei protagonisti del comitato. Fornendo subito alcune risposte, come gli «accorpamenti e potenziamenti per i 45 centri della regione». E adesso salteranno fuori anche i soldi per assicurare una minima vigilanza, una guardia, due telecamere. Adesso.
Non serviranno a scriverla in un altro modo, questa triste storia, che racconta la crisi economica e morale di un Paese più di mille numeri: Paola questo lo aveva capito. Altri, no.

L’Unità 06.09.13

“Battaglia finale”, di Massimo Giannini

Prima o poi doveva succedere. Il bipolarismo propiziato dal ventennio berlusconiano ha assunto un profilo “psichico” più che politico. Destabilizzato dalla condanna in Cassazione e dalla mancata “pacificazione”, per lui unico movente che giustifica le Larghe Intese, il Cavaliere alterna i giorni dell’ira a quelli della paura. La sera siede a tavola con la pitonessa Santanchè e annuncia la crisi. La mattina siede sul divano con il barboncino Dudù e si rimangia tutto. Così non si può andare avanti. E dunque, a tre giorni da un 9 settembre italiano che la destra tinge con i colori dell’Apocalisse, è fatale che il presidente della Repubblica sia costretto a riscendere in campo. Per presidiare ancora una volta le istituzioni. E per inchiodare Berlusconi alle sue responsabilità. Non solo verso il governo, ma verso il Paese. a nota diffusa da Giorgio Napolitano è un tentativo estremo, forse l’ultimo, per evitare una rottura finora solo possibile, ma a questo punto sempre più probabile. Il fatto stesso che il Capo dello Stato abbia dovuto compiere un atto politicamente così impegnativo conferma che stavolta l’allarme è eccezionale, perché la minaccia è reale. Il piano inclinato sul quale scivola il voto della Giunta del Senato (da lunedì prossimo convocata per dibattere sulla decadenza dell’ex premier) porta dritto alla caduta del governo. I segnali che filtrano, tra Arcore e Palazzo Grazioli, evocano scenari dirompenti. Come sempre, quando c’è da salvare il soldato Silvio.
Ministri del Pdl usati come scudi umani, che si dimettono o si autosospendono. Video-messaggi usati come armi improprie, che riecheggiano ed esasperano il grido di battaglia del 1994. Un clima di guerra, verrebbe da dire, se non suonasse blasfemo l’uso di una parola purtroppo più adatta alla tragedia siriana che non alla tragicommedia italiana. Eppure, proprio nelle ore in cui a San Pietroburgo il premier Letta è impegnato a decidere con Obama e Putin i destini del Medioriente, a Villa San Martino l’ex premier Berlusconi è impegnato a cannoneggiare l’esecutivo e a sabotare la maggioranza. Un enorme danno d’immagine per l’Italia.
Il Quirinale ribadisce e rilancia tre messaggi-chiave. Riflette un principio di necessità: a questo governo non c’è alternativa, è forte anche solo per questo e per questo il Colle non prende neanche in esame altre subordinate, né il Letta bis né un governo istituzionale con un’altra maggioranza né, meno che mai, le elezioni anticipate. Riflette il principio di realtà: aprire una crisi adesso precipiterebbe il Paese «in gravissimi rischi», come hanno ampiamente dimostrato le reazioni nervose dei mercati e degli organismi internazionali di
fronte alla nostra instabilità interna. Riflette il principio di responsabilità: il Cavaliere ha subito una condanna definitiva, le sentenze vanno non solo rispettate ma anche eseguite, la giustizia deve fare il suo corso senza che le altre istituzioni subiscano “ritorsioni” per questo. Dunque è inutile continuare a scaricare su altri la responsabilità di quanto accade. È inutile continuare a pretendere che la presidenza della Repubblica compia d’ufficio un impensabile gesto di clemenza. È inutile continuare ad esigere un salvacondotto dal Parlamento, addossando sul Pd la colpa eventuale di averlo negato, e per questo di aver “ucciso” il governo.
Napolitano si rivolge direttamente ed esclusivamente a Berlusconi. È lui, ormai, l’unico che deve prendere atto dell’epilogo, per quanto amaro e doloroso, della sua «Storia italiana». È lui, ormai, l’unico che deve saper scindere i suoi destini personali da quelli del governo, della destra e perfino del Paese. È lui, ormai, l’unico che deve accettare i fatti e rinunciare ai ricatti, rompendo una volta per tutte il legame incestuoso tra vicenda
processuale e interesse nazionale. È lui, infine, che deve dimostrarsi almeno per una volta coerente, rinunciando a staccare la spina a un esecutivo che ha più volte detto di aver voluto e di aver fatto nascere. Se non lo farà, sarà a lui e non ad altri che i cittadini-elettori chiederanno conto, di fronte a una crisi al buio che può portare l’Italia all’ingovernabilità e lo spread a quota 500.
Il Capo dello Stato fa un ultimo sforzo per far ragionare lo Statista di Arcore. «Conserva fiducia» nelle ripetute dichiarazioni di Berlusconi a sostegno della Grande Coalizione. Una formula ardita, viste le prove rovinose fornite dal Cavaliere in quasi vent’anni di avventurismo politico, imprenditoriale e persino esistenziale. Infatti le prime risposte che arrivano dalla corte di Arcore sono purtroppo disarmanti, e al tempo stesso inquietanti. Basta leggere Sandro Bondi, per rendersene conto. Il bardo della corte di Arcore ricalca per filo e per segno il testo di Napolitano, per sbattergli in faccia il guanto di sfida al quale la destra sembra ormai ineluttabilmente votata. Il Pdl non solo non accoglie gli inviti del Capo dello Stato, ma «confida» a sua volta in lui perché «non ignori la drammaticità della situazione, e prenda seriamente in esame un provvedimento esaustivo che le sue prerogative gli consentono di assumere nell’interesse dell’Italia». Un provvedimento «che scongiuri gli effetti di una sentenza allucinante».
Siamo, ancora una volta, al “berlusconismo da combattimento”, che non si limita a respingere l’appello del Quirinale. Glielo ritorce contro, chiedendo ancora una volta al presidente della Repubblica di osare l’inosabile. Di violare la Costituzione e i suoi principi. Di rinunciare alla forza del diritto in nome di un impensabile “diritto della forza”. È una “grazia tombale”, che il Cavaliere esige ancora dal Capo dello Stato. Che lo mondi da tutti i suoi reati, e lo restituisca integro a un sistema politico e giuridico “violentato” e snaturato per sempre. Se questi sono i presupposti sui quali si combatterà la battaglia finale, è fin troppo facile prevederne i prossimi sviluppi. Si profila un conflitto istituzionale senza precedenti, che vede il Cavaliere e le sue truppe all’attacco forsennato e disperato di Napolitano. Un attacco che inizia oggi, visto che nella mente distorta di Berlusconi c’è ancora incistata l’idea folle di un “motu proprio” del Colle sulla grazia. E che proseguirà domani, visto che se si apre una crisi il Cavaliere userà qualunque arma possibile per estorcere al Colle lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato.
È uno scenario da incubo. Un finale da Caimano. Ma per questo è preziosa la resistenza del Quirinale. E lo sarà anche quella del Pd. La posta in gioco è troppo alta, e va ben al di là della banale contesa tra garantismo e giustizialismo, o tra riformismo e anti-berlusconismo. Un Lodo Violante. ammesso che esista o sia mai esistito, fa presto a diventare un altro Lodo Alfano. Quel tempo è passato. Non può e non deve tornare.

La Repubblica 06.09.13

“Ciò che il Cav vuole fermare ad ogni costo”, di Michele Prospero

Legittimità contro legalità è questa l’ultima battaglia che Berlusconi intende affrontare per non soccombere, riconoscendo una buona volta il fatto compiuto. La storia politica moderna è del resto piena di un contrasto, ora soltanto ac- cennato altre volte più esplicito e irri- ducibile, tra le forme e la sostanza, tra i poteri separati e la potenza effet- tuale che si sprigiona nello scontro
tra gli attori della società.È racchiuso in questa inesauribile polarità tra il legale e il legittimo il cuore del politico, esplorato a fondo con la lente di Machiavelli.
Se il Cavaliere ritiene che le forze fedeli di cui ancora dispone siano in possesso di una soverchiante superiorità strategica, allora il suo sfrontato tentativo di rompere la prigionia delle forme può avere persino un senso. Tentare l’operazione di forza può essere un rischio calcolato quando le risorse del numero e le fortezze rimaste amiche assistono il prode condottiero. Se però le truppe della legittimazione, che dovrebbero garantirgli la meglio sulla tirannia della forma, sono sfiancate ed esauste, assai meglio sarebbe per Berlusconi rinunciare all’attacco frontale e scendere a più miti consigli. Proprio Machiavelli sosteneva che anche il Principe deve rispettare la legge che egli stesso produce.
La legalità, in condizioni normali del sistema politico, ha più forza della legittimità, regina dell’eccezione, delle svolte. Finché l’ordine legale dura, anche il politico più esuberante deve stare alle sue dipendenze. È infatti un atto di estremo irrealismo politico quello di sfidare la legalità senza avere in mano la carta cruda e inequivocabile per imporre il fatto di una diversa legittimazione dei poteri. Berlusconi, che la legge non intende accettare, non ha però la forza necessaria per rompere le trame sottili della legalità. E quindi la sua sfida, che minaccia di sovvertire ogni ordine costituito, è da ritenersi in gran parte velleitaria. Mettere a repentaglio gli averi, far precipitare l’azienda in una condizione di insicurezza e di precarietà estrema, non è proprio un buon partito che si addica a un Berlusconi che pare a corto di sostegno e terribilmente isolato tra gli stessi poteri forti un tempo assai compiacenti. Tra la borsa e la vita, il Cavaliere sceglierà sempre la borsa. La salvezza dell’azienda rimane per lui la salute più preziosa e la stella polare fondamentale dell’agire politico. E quindi precipitare in un vuoto di potere, con l’assalto prevedibile di potenze arcane che lo tallonano e lo ricattano sul piano avido dei beni, non sembra una allettante prospettiva.
Ciò non significa che la sorte di un governo che stenta a dotarsi di una ragionevole missione minima (accodarsi alla ripresa europea, aggiustare il governo parlamentare, rivedere la legge elettorale) sia ben assicurata. Molteplici fattori centrifughi strattonano un esecutivo che naviga a vista e potrebbe all’improvviso urtare contro il primo scoglio non percepito lungo la rotta. Ma l’accelerazione della crisi non rasserena certo le prospettive politiche di Berlusconi, che restano anzi segnate e prive di ogni possibile resurrezione.
Il Cavaliere è spacciato. Appare stretto in un drammatico circolo vizioso. Se riesce a evitare la decadenza, con manovre dilatorie o anticipando il ricorso alle urne, rimane comunque per lui ben ferma la sciagura della incandidabilità. Tutti i suoi ricatti non cambiano la situazione angosciosa che lo obbliga a stare forzatamente fuori dal gioco stritolato tra decadenza, incandidabilità e interdizione dai pubblici uffici.
Con la sua ostinazione, Berlusconi sta diventando un punto di debolezza per la destra italiana. Che esiste, è ancora forte e non sembra affatto disponibile a lasciarsi sedurre dalle leggere narrazioni di chi crede che basta ripetere ogni volta che con lui si vince per sfondare davvero nell’universo moderato. Ad una destra non residuale ma sprovvista di una leadership, Berlusconi ora mette una forte ipoteca che ne pregiudica le capacità competitive.
Con le sue armate in ritiro ma ancora consistenti, con le schiere compatte dei suoi intellettuali organici, con le infinite risorse materiali e simboliche, il Cavaliere è ancora in grado di giocare un ruolo cruciale nella politica italiana. Ma a condurre le danze, e ad accedere nelle sale del potere, non può più presentarsi lui, con sul petto ben impressi i galloni del comando. Tra una destra normale (forse impossibile in Italia) e un partito azienda che non intende smobilitare, a Berlusconi rimane la opportunità di approfittare dei mesi di tregua concessi in nome della stabilità per progettare un partito ibrido, per metà aziendale e per metà politico. Condannato dopo vent’anni a volare senza di lui.

L’Unità 06.09.13

“America ferma i tuoi missili, sarebbe un inferno”, di Adolfo Pérez Esquivel

Pubblichiamo la lettera aperta del premio Nobel per la Pace al presidente degli Usa Barack Obama
La situazione in Siria è preoccupante e ancora una volta gli Stati Uniti si vogliono erigere a poliziotti del mondo, pretendendo bombardare la Siria in nome della “Libertà e dei Diritti Umani”. Il tuo predecessore George W. Bush nella sua follia messianica seppe strumentalizzare il fondamentalismo religioso per portare avanti la guerra in Afghanistan e Iraq. Lui dichiarava di parlare con Dio che gli diceva di attaccare l’Iraq per esportare la libertà nel mondo. Per la celebrazione del cinquantesimo anniversario di Martin Luther King, anche lui Premio Nobel per la Pace, hai detto che è necessario
realizzare il «sogno» della «mensa condivisa » che fu una delle espressioni più significativa della lotta per i diritti civili contro il razzismo nella prima democrazia schiavista del mondo. Luther King fu un uomo che diede la propria vita per donare la vita agli altri e per questo è un martire del nostro tempo. Lo uccisero dopo la Marcia su Washington perché denunciava, attraverso la disobbedienza civile, il governo americano per la guerra imperialista contro il popolo vietnamita. Realmente credi che attaccare ed invadere militarmente un altro popolo è un modo per contribuire a realizzare quel sogno?
Armare i ribelli per poi autorizzare la Nato non è una cosa nuova per il tuo Paese e i tuoi alleati. È vecchio anche il discorso sul dover invadere alcuni Paesi dopo averli accusati di possedere armi di distruzioni
di massa. Ricordo che alla fine in Iraq risultò essere falso. Il tuo Paese ha appoggiato il regime di Saddam Hussein che utilizzò le armi chimiche per annientare la popolazione curda e per combattere la Rivoluzione iraniana. In questo caso gli Stati Uniti non fecero nulla per sanzionarlo perché in quel momento eravate suoi alleati. Però ora pretendono di bombardare la Siria senza neanche attendere i risultati degli ispettori dell’Onu. L’uso delle armi chimiche è immorale e condannabile ma il tuo governo non ha nessuna autorità morale per giustificare il proprio intervento.
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha dichiarato che un attacco militare in Siria potrebbe aggravare il conflitto. Papa Francesco ha chiesto a tutti di «globalizzare la pace» e ha lanciato
un appello per una giornata di digiuno e una veglia di preghiera, alla quale aderisco. Persino il tuo storico alleato, la Gran Bretagna, si è rifiutato (al meno per il momento) di participare al bombardamento.
Il tuo Paese sta trasformando la “Primavera araba” nell’inferno della Nato, provocando guerre nel Medio Oriente e scatenando il saccheggio delle corporazioni internazionali. Qual è l’obiettivo? L’acuto analista Robert Fisk ha dichiarato che gli obiettivi veri in realtà sono l’Iran e il rinvio del riconoscimento di uno Stato palestinese. Non si tratta dell’indignazione per la morte di centinaia di bambini siriani che vi spinge ad intervenire militarmente. Volete intervenire proprio ora che in Iran un governo moderato ha vinto le elezioni e che si potrebbe provare a dialogare? Questa politica è suicida per te e per il tuo Paese.
La Siria ha bisogno di una soluzione politica, non militare. Il popolo siriano, come qualsiasi altro, ha il diritto alla propria autodeterminazione e a costruire il proprio processo democratico. Obama, il tuo Paese non ha nessuna autorità morale per bombardare. Ancora meno dopo aver assassinato 220.000 persone in Giappone lanciando delle bombe di distruzione di massa. Obama non dimenticare mai che raccogliamo sempre ciò che seminiamo. Ogni essere umano dovrebbe seminare pace e umanità, ancor più un Premio Nobel per la Pace. Mi auguro che non finirai trasformando il “sogno di fratellanza” che anelava Martin Luther King in un incubo per i popoli e l’umanità.
Ti mando un saluto di Pace e Bene.
(Traduzione di Grazia Tuzi)

La Repubblica 06.09.13

Un eroe normale

Sembra incredibile che siano già passati tre anni dalla scomparsa di Angelo Vassallo, del “Sindaco pescatore”. Ed è grave che a tre anni di distanza i suoi assassini siano ancora impuniti. Non vorrei però che Angelo fosse ricordato solo per come è morto, per il suo impegno per la legalità e per l’ambiente. Angelo era innanzitutto un bravo politico, un ottimo amministratore. Aveva la fantasia e la dote di saper trasformare buone idee e buoni ideali in buona economia. E sapeva che il cuore di questa buona economia è l’ambiente, la qualità, l’amore per la propria terra. Realizzazioni concrete e visione erano in Angelo sempre assieme.

Penso al completamento degli impianti di depurazione, alla realizzazione del porto di Acciaroli, fondamentale per i pescatori e per lo sviluppo turistico di quel territorio, alla raccolta differenziata vicina all’80%, ai progetti sulle fonti rinnovabili, alla difesa del territorio dalle speculazioni. Sempre assieme alle iniziative sociali e culturali e ad un grande patriottismo locale. Quando non bastavano i fatti a promuovere una terra, che non era di per sé destinata al successo, arrivava la sua creatività.

E’ merito di Angelo e del Parco del Cilento se la dieta mediterranea è stata riconosciuta come patrimonio dell’Unesco. E ovviamente per Angelo era Pollica la capitale naturale di questa dieta perché aveva ospitato Ancel Keys, inventore della famosa “razione K” dei soldati americani nella seconda guerra mondiale e studioso della dieta mediterranea. E, per amore di Pollica, qualche volta forzava anche la storia. Eravamo amici e ci siamo incontrati pochi giorni prima che venisse assassinato.

Abbiamo parlato di tante cose, compresa la politica del PD. Ricordo che mi colpì l’entusiasmo con cui mi parlò di uno dei suoi ultimi parti. L’idea di valorizzare la storia, o la leggenda, secondo cui Hemingway, che era stato in quei territori come corrispondente di guerra a seguito dell’esercito americano, avesse scritto “Il vecchio e il mare” a partire dal racconto di un pescatore di Acciaroli, Antonio Masorone, “U vecchiu”.

Anche questo è stato fatto, purtroppo dopo la sua morte. Abbiamo ora un modo soprattutto per rispettare la memoria del “sindaco pescatore”: continuare la sua azione. Come stanno facendo Stefano Pisani, attuale sindaco di Pollica, e le persone che hanno lavorato con lui. Si è parlato spesso dell’art. 54 della Costituzione: conosco però poche persone che, come Angelo Vassallo, abbiamo adempiuto alla funzione pubblica con altrettanta “disciplina ed onore”. Ciao Angelo.

Ermete Realacci

www.partitodemocratico.it

“Un ricatto irresponsabile”, di Pietro Spataro

E’ umiliante che mentre nelle altre capitali si discute e ci si divide sulla guerra e sulla pace e sul futuro del mondo, a Roma un uomo solo allo sbando costringa governo e Parlamento a misurarsi con i suoi ricatti. Il destino personale di uno contro gli interessi di tutti, la sua salvezza giudiziaria contro la vita del governo. Minacce che vengono portate avanti a qualunque prezzo: lo spread che riprende quota, la Borsa che precipita portandosi dietro tutti i listini, l’azione economica dell’esecutivo appesa a capricci indecenti. Siamo qui, fermi da più di un mese.

Tra falchi e colombe che si scambiano i ruoli e volteggiano sulla vita difficile degli italiani. Eppure le cose sono chiare sin dall’inizio: Berlusconi è stato condannato in modo definitivo per frode fiscale, dunque nulla o nessuno potrà sottrarlo agli effetti della sentenza. Decadenza e interdizione comprese. Nessuna democrazia può accettare il baratto tra i principi dello Stato e della legalità e quelli individuali di un suo cittadino, chiunque esso sia. Proprio per questo non si può continuare impunemente a terremotare il Paese e il suo governo con la speranza infondata di un qualche salvacondotto. Non si può giocare con la crisi accusando il Pd di essere il responsabile di un’eventuale caduta di Letta perché non accetta (e ci mancherebbe altro) uno scambio impossibile. Quella di Berlusconi è una minaccia diretta all’Italia, alle sue possibilità di riprendersi, alle sue capacità di reagire alla crisi. Se il Cavaliere e il Pdl non si fermeranno, il ventennio berlusconiano rischia di chiudersi con un disastro ancora più grave di quelli prodotti dai governi del centrodestra. E in quel disastro può finirci il Paese e le sue istituzioni democratiche.

Quindi, non si può accettare che questa guerra vada oltre. Non si può continuare a ragionare come se fossimo in una realtà capovolta, nella quale il condannato diventa innocente e l’innocente viene mandato al patibolo. Il Pd ha pronunciato parole chiare che non hanno nulla a che vedere con gli «spiriti giustizialisti»: sulle leggi nessuna trattativa è possibile, la decadenza è un atto dovuto. Lo sanno anche i suoi: tra decadenza e interdizione l’uomo di Arcore non potrà più svolgere alcun ruolo di pubblico ufficio. Ne deve prendere atto, lui che è stato tre volte premier, e trarne le conseguenze facendosi da parte prima di qualsiasi temeraria disputa sulle procedure. Sarebbe, questo sì, un gesto da vero leader, come accade in ogni Paese del mondo.

Chi ha a cuore la Costituzione, le leggi e la democrazia deve impedire che si compia uno scempio. Ma chi decidesse di compierlo deve assumersene, personalmente e fino in fondo, ogni responsabilità. Se Berlusconi vuole togliere il sostegno al governo Letta lo faccia. Si presenti in tv, davanti agli italiani, e spieghi loro perché dovranno mettersi sulle spalle il fardello pesante di una crisi senza soluzioni e di nuove tutele europee e poi rinunciare a quel che questo governo di servizio sta cercando di fare con fatica. Spieghi loro perché la legge è uguale per tutti tranne che per lui, perché gli affari personali contano più del destino collettivo di un Paese, perché lui vale più di loro. Gli italiani capiranno ancora meglio da che parte sta il senso di irresponsabilità, il disprezzo per le istituzioni, per le leggi e per i cittadini. Non è detto che a quel punto non si trovi il coraggio – e lo scatto d’orgoglio – per impedire che lo scempio si compia. E non è detto che non si trovi persino in questo centrodestra disorientato e confuso.

L’Unità 05.09.13