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“Il tetto di spesa al caro libri c’è. Peccato sia solo sulla carta”, di Raffaello Masci

Il caro libri non dovrebbe esserci perché il ministero ha preso tutte le misure idonee affinché il fenomeno non si verifichi. Anzi, ha addirittura bloccato i tetti di spesa. Eppure se vi disponete a comprare i libri per i vostri figli, vi accorgete che la batosta è dietro l’angolo e il mercato non sta a sentire prediche di sorta. Cominciamo la storia dall’inizio. Il ministero ha introdotto dei tetti di spesa per l’acquisto dei libri scolastici fin dal 1999, tempi del ministro Luigi Berlinguer: tabelle rigorose fissano le colonne d’Ercole della spesa per tutte le classi, dalla prima media fino all’ultimo anno delle superiori con un margine di tolleranza del 10%. Il tetto può essere adeguato ogni anno all’aumento dell’inflazione, ma il ministro Maria Chiara Carrozza quest’anno l’ha tenuto sui livelli dell’anno scorso. Eppure i prezzi aumentano, perché lo sforamento del tetto è all’ordine del giorno: in parte dovuto ad un sotterfugio, quello dei libri «consigliati» che di fatto diventano obbligatori perché fanno al differenza tra chi ce l’ha e chi no. Ma soprattutto si sfora perché le leggi (molte leggi) sono come le grida manzoniane contro i bravi: ci sono ma nessuno le rispetta, tanto non succede nulla. Il sito Skuola.net ha provato a indagare e ha spulciato nelle liste delle adozioni dei testi. Intanto ha rilevato che mentre per tutto il sistema scolastico esiste un ampio open data (gli iscritti, le scuole, i docenti, la spesa, eccetera), accedere ai dati sulle adozioni è complicato: ogni quattro tentativi il sistema ti butta fuori. Vuoi fare una indagine? Armati di pazienza e rientra ogni volta che ti espellono. «E così – dice Daniele Grassucci direttore del sito – siamo riusciti con grande fatica a monitorare 100 scuole in 10 città e abbiamo rilevato che il 20% ha sforato il tetto, impunemente, e il 30% non è andato oltre il limite tollerato del 10% ma comunque oltre la cifra base prevista».

Possibile? Il ministero fa sapere che le direzione scolastiche regionali sono obbligate a monitorare il fenomeno e stanno lì come il Minosse dantesco che «giudica e manda secondo che avvinghia», ma poi non hanno strumenti sanzionatori, e tanti saluti a chi ha innalzato tetti e cupole (ma non sarebbero più del 5-10% secondo il ministero).

E, in ogni caso – dicono sempre da Roma – esistono i fondi per il diritto allo studio affidati dal governo alle Regioni, per venire incontro alle famiglie che non ce la fanno a comprare i libri e questo fondo è stato incrementato (il decreto è in via di pubblicazione) di 69 milioni. Se c’è il problema, dunque, c’è anche l’aiuto pubblico.

Esiste poi, da tempi immemorabili, l’antico sistema di rivolgersi all’usato. Ma da qualche anno anche quest’arma è spuntata. Nel 2009, infatti, la riforma Gelmini ha cambiato la fisionomia della scuola italiana ed è del tutto logico che ciò che andava bene prima non è più andato bene poi. Il ministro Gelmini si è premurata di porre rimedio imponendo che un libro adottato tale dovesse rimanere per 5 anni (scuola media) o addirittura 6 (scuola superiore) e che dal 2012 sarebbe arrivato il libro digitale a sovvertire tutto il mercato, con sgravi importanti per le famiglie. Francesco Profumo, subentratole al ministero, ha rivisto questa norma: ha rimosso il blocco dei 5 e 6 anni ma ha introdotto l’obbligo – sia pur spostato all’anno scolastico 2014/15 – di libri solo digitali a iniziare dalle prime classi dei vari ordini di scuola (prima media, prima superiore). L’idea era quella di dare prodotti più evoluti e molto meno cari, ma la norma di Profumo è stata impugnata al Tar dagli editori ed è ancora nel Limbo. Non è certo, tuttavia, che possa produrre un abbassamento della spesa, perché se il libro digitale non ha il costo della carta, ha quello dei diritti d’autore dei contenuti digitali e l’Iva che dal 4 passa al 21 per cento. In tutto questo una cosa è certa fin da ora: l’usato potrà tranquillamente andare al macero.

La Stampa 05.09.13

“Rappresentanza, il diritto di sciopero non si può toccare”, di Luigi Mariucci

Il tema di una disciplina legislativa della rappresentanza sindacale sta tornando di attualità, ma non nel modo corretto, almeno a leggere alcuni commenti. La questione, che si trascina da oltre mezzo secolo, viene infatti rilanciata a seguito della decisione della Fiat di applicare -finalmente- la sentenza della Corte costituzionale e di reintegrare la Fiom nel diritto alla rappresentanza nei luoghi di lavoro. La Fiat tuttavia ha corredato questo adempimento obbligato con un oscuro avvertimento: si minaccia per l’ennesima volta di abbandonare la produzione in Italia se non verrà stabilita una regolamentazione di legge della azione sindacale. Il punto naturalmente è: quale regolazione? Non è mancato chi si è affrettato a dichiarare che una attuazione dell’art. 39 cost., sulla libertà sindacale e sulla contrattazione collettiva, sarebbe inutile se non si introducesse anche una parallela limitazione del diritto di sciopero, di cui all’art.40 cost., con l’obiettivo dichiarato di stabilire l’illegittimità tout court degli scioperi effettuati dopo la stipulazione di un contratto collettivo. Viene in mente quanto accadde nei primi anni ’50 con il disegno di legge Rubinacci. A quel tempo la Cgil era favorevole ad una attuazione dell’art.39, che avrebbe assicurato la primazia contrattuale del sindacato maggioritario, ma contraria alla limitazione del diritto di sciopero, considerato non solo un diritto individuale indisponibile, ma, ancora di più, un diritto di natura politica, in quanto strumento di emancipazione della classe lavoratrice. La Cisl al contrario era favorevole a un intervento legislativo in materia di sciopero, in specie con riferimento ai servizi pubblici, ma contrarissima a una attuazione dell’art.39, in nome del principio della autonomia sindacale ma soprattutto per più pratiche ragioni di segno, ovviamente, opposto a quelle che muovevano la Cgil. In tale contesto la maggioranza governativa del tempo ebbe quindi la brillante idea di presentare un disegno di legge organicistico e iperrestrittivo, appunto il d.d.l.Rubinacci, in cui si affrontavano entrambi i temi con il risultato di sommare i dissensi di segno diverso. Non se ne fece quindi nulla, anche perché premevano altre urgenze: erano i tempi della legge truffa, molto più democratica -sia detto per inciso- dell’attuale Porcellum. Sul tema calò quindi un lungo sipario. Si consolidò quello che i giuristi hanno definito “ordinamento sindacale di fatto”, privo di regole di legge, che ha ben funzionato finchè ha retto l’unità tra le maggiori confederazioni ed è andato in crisi nelle fasi di divisione sindacale, ai tempi della rottura sulla scala mobile, del “Patto per l’Italia” del 2002 e, più di recente, degli accordi separati in tema di sistema contrattuale e nella vicenda Fiat. Di alcune, chiare e limitate regole di legge in materia di procedimento di stipulazione e di efficacia dei contratti collettivi c’è bisogno. Queste devono essere ispirate al principio di fondo stabilito dall’art.39. Non a caso le “rappresentanze sindacali unitarie” sono lo strumento essenziale, assieme ai criteri con cui misurare la rappresentatività dei sindacati e alle procedure negoziali, in un mix di strumenti di democrazia rappresentativa e democrazia diretta, previsto dagli accordi tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 2011 e del 2013. A questi accordi, con le dovute cautele, può darsi forza di legge. Ma attenzione. In quegli accordi non a caso è scritto che eventuali limitazioni nell’esercizio del diritto di sciopero (le clausole di tregua) valgono per le organizzazioni sindacali e non per i singoli lavoratori. Infatti il diritto di sciopero resta un diritto individuale ad esercizio collettivo, come ha affermato la migliore cultura giuslavorista, e non può quindi essere limitato salvo che ai fini di garanzia di beni costituzionalmente prevalenti, come nel caso dei servizi pubblici essenziali e di ragioni di sicurezza. Evitiamo quindi di farci prendere da velleitarie smanie organiciste à la Rubinacci, destinate a macinare acqua nel mortaio o addirittura a produrre danni, come accadde alla famosa gattina frettolosa.

L’Unità 05.09.13

«Franceschini con Matteo? Non capisco perché», di Osvaldo Sabato

«Prima di prendere il treno vorrei sapere qual è la destinazione» osserva l’onorevole del Pd Cesare Damiano. Il presidente della Commissione Lavoro della Camera usa questa metafora per chiarire che «scegliere adesso i candidati senza sapere quali sono i loro programmi è una scelta sbagliata». Il riferimento è all’endorsement del ministro Dario Franceschini a favore di Matteo Renzi. Quanto sembrano lontani i tempi in cui il sindaco di Firenze definiva lo stesso Franceschini «vice disastro». Ormai è acqua passata.

L’attualità racconta di un asse fra il ministro dei rapporti con il Parlamento e il rottamatore per spingerlo verso la segreteria nazionale del Pd. «Non condivido questa scelta di Franceschini» precisa Damiano «la trovo prematura».

Presidente, perché dice che è prematura?
«Io per scegliere un leader, come sempre, privilegio i contenuti, vorrei sapere qual è il suo programma. Vale per Civati, Cuperlo, Pittella e quindi anche per Renzi».
Perché secondo lei Franceschini ha annunciato in anticipo il suo sostegno a Renzi?

«Questo, naturalmente bisogna chiederlo a lui. Io penso che sia una scelta intempestiva, che fa ancora una volta precipitare la discussione sul leader e sul con chi stai, non come la pensi. Così si corre il rischio di fare un congresso di schieramento e non di programma. Non a caso insieme a Chiti, Folena e Lucà abbiamo presentato la “Costituente delle idee”, che vorremmo sottoporre alla valutazione dei candidati, abbiamo scritto a tutti e quattro, abbiamo avuto una risposta positiva di Cuperlo, Pittella e Civati, aspettiamo quella di Renzi, per un confronto di merito».

Franceschini fa sapere di appoggiare il sindaco di Firenze, Letta invece è cauto, anzi vuole stare fuori dai giochi congressuali perché al governo serve un Pd compatto.

«Io osservo che il congresso potrebbe essere condizionato da quanto potrebbe capitare nei prossimi giorni, soprattutto se il Pdl continuerà con i suoi ricatti e con l’alzare continuamente la posta, dopo aver incassato un risultato sull’Imu, ora cerca di incassarne un altro sulla decadenza di Berlusconi. Questo non è accettabile, perché non siamo di fronte ad un presunto colpevole, ma ad una sentenza definitiva, quindi dobbiamo assolutamente vota- re per la decadenza di Berlusconi». Anche se Il Pdl minaccia la crisi di governo?

«È chiaro che in caso di crisi, il quadro politico e la questione del nostro congresso subirebbero nuovi cambiamenti e nuove accelerazioni e io ritengo che il Pd debba andare a vedere il bluff del centro destra. Penso in ogni caso, che non ci saranno automaticamente elezioni anticipate».

Se la situazione dovesse precipitare il congresso dovrebbe essere congelato? «Sicuramente ci sarebbe un riflesso sul congresso, anche se ribadisco che non vedo nuove elezioni alle porte, perché la prima domanda sarebbe: il candidato alla segreteria è il candidato premier? Oppure teniamo distinte le due cariche, come io ritengo. Oggi questa distinzione è netta, in caso di crisi accelerata lo sarebbe molto meno, anche temporalmente. Ma io insisto, noi parliamo sempre di regole e di leader, i famosi contenuti li abbiamo dimenticati? Vorrei sapere qual è il profilo del futuro Pd».

Nel vostro documento la “Costituente delle idee” voi fate delle proposte.
«Noi parliamo della centralità dei lavori, che non devono essere precari, della centralità dello stato sociale e della correzione del sistema pensionistico della Fornero, diciamo di essere anti liberisti e contro il presidenzialismo. Su questi punti vorremmo avere delle risposte e che il prossimo congresso fosse un confronto di idee. Quindi su tutto ciò incalzeremo i candidati».

Lei si è fatto un’idea su che tipo di Pd ha in mente Renzi?
«Francamente non lo so, aspetto delle indicazioni programmatiche. Ricordo però alcune scelte che Renzi indicò durante le scorse primarie contro Bersani, che mi indussero a non votarlo. Sul lavoro scelse le teorie di Ichino e non quelle di Damiano, non è un fatto personale, ma politico, e sostenne la riforma Fornero. Mi auguro che su questi temi, per noi fondamentali, Renzi abbia cambiato opinione».

L’Unità 05.09.13

Rossi Doria: “servono più risorse, altrimenti penalizziamo gli alunni deboli”, di Alessandro Giuliani

Per il sottosegretario all’Istruzione il rischio è di ritrovarci con una scuola dei talenti da una parte e una degli ‘sfigati’ dall’altra: grazie invece a maggiori finanziamenti, gli insegnanti si organizzerebbero in autonomia, rispondendo direttamente ai ragazzi e ottenendo risultati, sia in termini di riduzione delle bocciature sia accompagnando chi è in difficoltà. È difficile, però, che questo Governo possa fornire certe risposte.
Dare più risorse alla scuola, per superare il problema dell’appiattimento formativo. Che penalizza, certamente, i ragazzi più svantaggiati e provenienti da famiglie culturalmente meno dotate. A farne richiesta è uno dei rappresentanti più alti del ministero dell’Istruzione, il sottosegretario Marco Rossi Doria.
“Nella scuola oggi – ha detto intervistato dal programma ‘Tutta la città ne parla’ di Rai Radio3 – c’è un problema di equità, la nostra scuola è troppo standardizzata: una scuola equa non dà la stessa cosa a tutti, ma dà di più a chi parte con meno, come diceva don Milani. Fa scoprire le parti nascoste di ciascuno studente e ne stimola i lati più forti. Se non si procede così, ci ritroveremo con una scuola dei talenti da una parte e una scuola degli ‘sfigati’ dall’altra, ma questo sistema non funziona”.
Rossi Doria, che è stato confermato nello stesso ruolo dopo averlo già ricoperto con l’ex ministro Profumo, è convinto che “equità non significa uguaglianza astratta, ma saper riconoscere i diversi contesti familiari e sociali di provenienza e colmare gli svantaggi con dei programmi integrati e razionali: gli insegnanti italiani hanno gli strumenti per fare tutto questo?”.
La questione, a suo avviso, è anche economica: “bisogna investire più risorse. Negli ultimi anni sono stati sottratti 8,4 miliardi all’istruzione. Laddove ci sono risorse e gli insegnanti si organizzano in autonomia, rispondendo direttamente ai ragazzi, si ottengono grandi risultati sia in termini di riduzione delle bocciature sia nel settore difficile dell’accompagnamento di chi è in difficoltà. Mancano le risorse, non gli strumenti culturali e didattici”.
Al sottosegretario è stato anche chiesto il parere sulla posizione espressa di recente dal ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, a proposito della quale la bocciatura deve essere adottata solo come “scelta estrema“. Secondo Rossi Doria, che è anche maestro di ‘strada’, “bisogna essere onesti coi ragazzi: fargli capire quello che sanno e quello che non sanno, certo non regalargli la promozione perché significherebbe negare la loro dignità, e poi accompagnarli nel superamento delle difficoltà”.
Il messaggio è chiaro. Anche ai colleghi di partito del Partito Democratico. Ma il Governo, di tipo bipartisan e con una crisi forse irreversibile sullo sfondo, sarà in grado di recepirlo? Il triste epilogo della questione dei ‘Quota96’ rappresenta un esempio di come la volontà di voler approvare determinati provvedimenti, anche a favore degli alunni, oltre che dei dipendenti, si scontri con la cronica scarsità di fondi statali. Come dire: in questo momento ha probabilmente più potere la Ragioneria generale dello Stato che il presidente del Consiglio coadiuvato da tutti i suoi ministri.

La Tecnica della Scuola 05.09.13

“L’infernale illusione delle armi”, di Adonis*

L’intervento americano in Siria nasce nell’illusione di una “guerra lampo”, di “colpi limitati, chirurgici, mirati”. Rischia invece di sfuggire di mano, di aizzare il conflitto e di ripetere il peccato mortale in cui sono scivolati sia l’opposizione armata sia il regime siriano. Potrebbe involontariamente trasformarsi in una forma di sterminio simile a quello dei nativi del
continente nordamericano.
Continente chiamato ora “Stati Uniti d’America ». O allo sterminio perpetrato dalla Turchia all’inizio del ventesimo secolo contro il popolo armeno e le altre minoranze storiche di cristiani, siriaci, caldei ed assiri. Infatti, l’operazione militare avviene in un contesto complesso, confuso, anzi, cieco.
1. Se si trattasse davvero di una questione umanitaria e di difesa dei diritti fondamentali degli arabi, il mandato di chi se ne fa carico dovrebbe estendersi al di là della sola Siria. L’America dovrebbe fare i conti con la violazione di quei diritti, sia da parte degli Stati arabi alleati, sia da parte del suo principale alleato Israele.
2. Il conflitto siriano si consuma in un clima caotico, ambiguo, ingarbugliato. È indispensabile considerarne la dimensione religiosa, prima di un intervento militare. Gli Stati Uniti conoscono il significato delle guerre di religione oggi ed è evidente che non entrano nel conflitto come arbitri imparziali, bensì come partecipanti. Schierarsi a tal punto serve forse al progresso o all’uomo e ai suoi diritti? Serve alla pace e alla libertà?
In realtà, l’America, con questo intervento, viola i diritti umani in nome della loro difesa. Qui non si tratta di difendere il regime che, ho detto e ribadisco, deve cambiare, ma di difendere la Siria dell’Alfabeto, della Storia antica, del popolo siriano e dei grandi principi umani.
3. Ricordiamoci che gli Stati Uniti nel 2003 hanno dichiarato guerra all’Iraq. Quali sono state le conseguenze per lo Stato iracheno? Che ne è delle centinaia di migliaia di vittime innocenti, dell’avvelenamento ambientale? E dove sono le armi di distruzione di massa? È probabile che molti dei perseguitati da Saddam Hussein ora rimpiangano il regime che non c’è più. Naturalmente quel regime doveva finire, ma con altri mezzi.
Gli Stati Uniti sanno (o forse no) che la storia arabo-islamica è intrisa di sangue fin dal primo Stato islamico. La maggior parte delle pagine di questa storia sono state scritte dai conflitti confessionali mescolati alla lotta per il potere. Alimentare questo conflitto e entrare a farne parte serve forse alla pace, alla giustizia, alla libertà e ai diritti umani?
Chi conosce la storia sa che le più lunghe mediazioni sono più corte di qualsiasi guerra. Parlare di una guerra lampo e di colpi limitati “chirurgici, mirati” è un’illusione fuorviante. Quando comincia una guerra, il campo, le sue trasformazioni, le sue sorprese ne decidono le sorti.
4. Gli Stati Uniti continuano a ignorare gli oppositori democratici pacifici siriani, nonostante questi siano numerosi sia dentro, sia fuori dalla Siria. L’America ascolta i gruppi che parlano di violenza e non ascolta gli esponenti dell’opposizione pacifica neppure per scoprire quel che hanno da dire, per capirne il punto di vista. Chissà: potrebbero avere soluzioni più umane e quindi più efficaci a causare meno vittime e distruzioni.
Il rifiuto di trattare con l’opposizione pacifica è sorprendente, e io chiedo al presidente Obama, non come presidente ma come uomo di pensiero, se egli rispetta davvero una rivominare
luzione nazionale i cui leader – come nel caso dell’opposizione all’estero sostenuta dall’America – chiedono un intervento militare di forze straniere per colpire il proprio Paese e consegnarlo
loro.
Fin dall’antichità, il pensiero e i valori attinenti alla guerra e al combattimento– cioè uccidere – non si sono evoluti. La guerra è ancora considerata una pozione magica per risolvere i problemi e registrare gesta eroiche. La guerra si combatte e così si uccide anche per la pace. Uccidere! Questa è la cura magica per tutti.
Come è assetata di sangue la pace!
L’antica saggezza araba dice “curami con ciò che ha causato il male”: è una saggezza fatale in guerra. Ma com’è contorta una logica che scivola verso quella attrazione demoniaca: la guerra! Forse diremo anche: com’è assetata di sangue la giustizia.
Per esempio, il presidente Obama, nonostante le sue buone intenzioni, è riuscito a controllare
l’uso delle armi in America? Le armi sono diventate parte della tradizione americana moderna.
Infatti, come dice un nostro adagio, “la gente segue la religione del suo re”. Uccidere non è forse diventato un “mito” dei nostri tempi (innanzitutto in America), non soltanto nei film, ma nella vita quotidiana?
5. Sembra quindi che il pensiero umano riguardo alla soluzione dei conflitti non si sia evoluto. Annientare le parti in lotta è ancora la via concretamente seguita per spianare i contrasti. Non v’è stato alcun progresso, tranne lo sviluppo delle armi e la loro capacità sempre maggiore di distruggere e avvelenare il pianeta Terra, nostra unica casa. Le armi si sono enormemente evolute. Ancora le definizioni di eroismo più raffinate e onorevoli hanno nomi riferiti all’uccisione e al combattimento, non alla saggezza e alla virtù del dialogo, alla creazione di soluzioni pacifiche e alla salvezza degli uomini e della loro sacra Terra.
Più un guerriero è “campione” nelle arti di uccidere, più è coperto di gloria e di medaglie e entra nella storia.
L’America ricordi, e lo ricordino i suoi alleati, che ha dichiarato guerra all’Iraq per eli-
il presidente baathista e la sua squadra al governo: ma, così facendo, ha fomentato il conflitto confessionale (che ancora provoca morti quotidianamente), conflitto che ha sconvolto gli equilibri e le intese religiose in una direzione che fa comodo al suo nuovo antagonista (l’Iran) e che contraddice gli interessi degli alleati. I calcoli della guerra spesso non producono i risultati voluti da chi la dichiara.
Ricordi l’America, e lo ricordi il presidente venuto in nome della pace e della concordia, che la guerra che non uccide innocenti non esiste nella storia. Quanti innocenti hanno ucciso quei colpi limitati, programmati, chirurgici inferti in Iraq o contro al Qaida in Afghanistan?
Il discorso utopistico non cambia la realtà infernale.
6. Quindi domando al presidente Obama “ambasciatore” di esperienze storiche amare, non soltanto vittoriose, portatore di promesse a favore dei diseredati, come farà a combattere in nome della giustizia e della pace in Siria senza vedere, allo stesso tempo, l’aggressione storica quotidiana contro i palestinesi, la terra palestinese e contro le leggi e il diritto internazionale? Non vede Obama la violazione dei diritti umani nei Paesi suoi alleati?
Preferire un’azione militare contro la Siria anziché un negoziato politico a Ginevra favorisce una soluzione di forza e fa cadere il principio che dovrebbe essere adottato, in base alle regole delle Nazioni Unite, tramite il Consiglio di sicurezza. Anzi, è l’affermazione del principio delle soluzioni militari.
L’opzione bellica è il peccato mortale in cui sono scivolati sia l’opposizione armata, sia il regime siriano.
La verità è che i grandi Stati, e per primi gli Stati Uniti, benedicono e promuovono la scelta militare, ignorano l’esistenza dell’opposizione democratica pacifica siriana o non la prendono neppure in considerazione, mentre sostenendo l’opposizione armata si invischiano in un ginepraio militare.
7. È comprensibile che l’America difenda alcuni regimi arabi, in quanto Paesi di importanza vitale per le risorse energetiche. Però, come comprendere che la grande nazione americana accetti, e faccia propri, i progetti di regimi tribali, familiari, sempre pronti a combattere con le armi chiunque sia considerato un nemico? Come può l’America accettare di essere a fianco di questi regimi nelle loro guerre?
Così facendo l’America apparirà parte del gioco politico, tribale, confessionale in Medio Oriente: complice fondamentale nell’ostacolarne la liberazione, nell’impedire la costruzione di una società moderna, di un uomo moderno, di una cultura moderna. In altre parole, la più importante forza mondiale verrà considerata come il paese che fonda e difende tirannia e schiavitù, intento a proteggere i regimi che su tirannia e schiavitù si reggono, a cominciare dai regimi arabi islamici. Se non ne prendono coscienza, gli Stati Uniti diventeranno uno strumento al servizio dei tiranni in Medio
Oriente.
*L’autore, considerato il massimo poeta arabo contemporaneo, è candidato al Nobel. Vive a Parigi, esule dalla Siria dagli Anni Cinquanta (traduzione dall’arabo di Fawzi Al Delmi

La Repubblica 05.09.13

“L’analisi del voto che nel Pd nessuno ha fatto”, di Antonio Funiciello

L’entità della sconfitta del Pd e del centrosinistra alle elezioni politiche di fine febbraio, pur essendo di primo acchito parecchio manifesta, assume dimensione storico-politica solo dopo un’attenta, ancorché in casa Pd sinora mancata, analisi del voto. È accaduto, anzitutto, che per la prima volta una regola peculiarissima dell’alternanza democratica nella sedicente Seconda repubblica sia stata violata.

Dopo le elezioni del 1994, tutti i turni elettorali successivi (1996, 2001, 2006, 2008) sono stati appannaggio della coalizione politica che, al voto immediatamente precedente, era uscita sconfitta. Nel 2013, viceversa, il fenomeno non si è ripetuto. La politica, si sa, non ha leggi, ma solo regole, con eccezioni che accorrono zelanti a confermarle.

Nel mondo occidentale la regola dell’incumbency advantage è, da molto, caso di scuola e, da prima, retaggio consolidato dell’esperienza elettorale. Nelle democrazie avanzate dell’alternanza, l’incumbent, colui che detiene la carica oggetto della contesa elettorale, gode di un vantaggio oggettivo sul suo sfidante, il challenger, che si compone di una serie di elementi: a) più alti indici di popolarità; b) benefici che derivano per via diretta dalla detenzione della carica; c) vantaggio sull’avversario nelle campagne di fund-raising.

Se l’incumbency advantage non è un’espressione del paradosso di Zenone, perché in politica accade che il challenger batta l’incumbent laddove Achille non raggiunge mai la tartaruga, è certo una delle regole meno disdette che circolino in politica.

Ebbene, in Italia, patria delle anomalie, da quando il sistema politico ha conosciuto l’alternanza democratica, la regola che l’ha contraddistinta è stata quella dell’incumbency disadvantage: chi – soggetto e/o coalizione – ha in mano le redini del governo, le perde immancabilmente in favore dell’avversario alle elezioni succcessive. Dal 1996 al 2008, un originalissimo incumbency disadvantage ha dettato legge per quattro turni elettorali di fila, diversamente da quanto abitualmente avviene altrove. Per motivazioni, ogni volta, certo peculiari, ma anche in virtù di una regola al contrario che esprime, forse meglio di altre, la cifra del fallimento della prima stagione del bipolarismo italiano.

Nel 2013, l’inattesa eccezione: l’alleanza di centrosinistra, destinata alla vittoria, non è riuscita a portare il proprio candidato premier a palazzo Chigi. Per ottenere (o non ottenere) ciò, la coalizione di centrosinistra, e il suo maggiore partito, hanno fatto registrare in voti reali il risultato peggiore della storia della Seconda repubblica: 10.047.808 di voti effettivi per la coalizione, 8.644.523 per il Pd. Rispetto al 2008: 3.641.552 voti in meno per la coalizione, 3.450.783 voti in meno per il suo maggior partito.

Rispetto al 2006, quando già alla camera era schierata la lista proto-Pd, Uniti nell’Ulivo: 8.954.790 voti in meno per la coalizione, 3.286.460 voti in meno per il maggior partito. Rispetto al 2001 – per il quale, con una legge elettorale diversa, il confronto è possibile se si considerano, per l’alleanza, il dato complessivo dei voti conquistati dal centrosinistra nei collegi uninominali e, per il partito, la somma dei voti di Ds e Margherita nella preferenza per la quota del 25 per cento di seggi da attribuire proporzionalmente – i voti in meno sono stati 5.971.580 per la coalizione e 2.898.458 nel confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma di Ds e Margherita. Rispetto al 1996, seguendo i criteri di cui sopra, 4.399.740 voti in meno per la coalizione e 1.803.667 voti in meno nel confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma di Pds e Ppi.

Rispetto al 1994, accertando che è impossibile avere un confronto tra le coalizioni del centrosinistra, perché nel ’94 non era presente un’alleanza di questo tipo, e limitando quindi il confronto tra i voti del Pd 2013 e la somma dei voti del Pds e del Ppi, contiamo 3.524.295 voti in meno. I numeri appena messi in fila indicano, meglio di come potrebbe farlo il solo riferimento al voto del 2008, come al centrosinistra sia potuta riuscire l’impresa di smentire la regola dell’incumbency disadvantage, che nei quattro turni elettorali precedenti l’aveva fatta da padrone.

Le cause di una sconfitta tanto eclatante non possono essere meramente ricondotte a una campagna elettorale opaca. Non si produce il peggiore risultato della storia del centrosinistra italiano bipolare sbagliando semplicemente la campagna elettorale. Il record negativo di consensi raccolti ha radici più profonde nelle irrisolte contraddizioni identitarie del Partito democratico.

*estratto da Antonio Funiciello, Sulle macerie di questo Pd, il Mulino, n. 4/2013

da Europa QUotidiano 04.09.13

“Domanda di grazia”, di Massimo Gramellini

E così vorreste condannarlo ai domiciliari. Costringerlo a trascorrere un anno sul divano della trisnonna, intrappolato fra pareti color salmone, al lume fioco di una lampada a forma di fungo atomico, tra le braccia di una giovane donna che lo soffoca con promesse di amore eterno, quando lui chiede soltanto libertà. Fanatici senza cuore, ma non vi tormenta il destino di quest’essere incolpevole che una serie inaudita di coincidenze ha trascinato negli abissi domestici documentati dalla foto? Abbiate il coraggio di guardarlo, tremate davanti al suo smarrimento, date sfogo all’imbarazzo e al rimorso che vi suscita il suo atteggiamento di resa. Dove sono l’antica fierezza, la passione per gli ambienti promiscui e la spregiudicatezza che gli consentiva di oltrepassare ogni porta socchiusa, infischiandosene di regole e divieti?

Neanche un mostro merita di finire così. E lui non è un mostro. Chiunque abbia lo sguardo puro di un Bondi lo troverà bellissimo. È solo troppo orgoglioso per chiedere la grazia. E allora la chiediamo noi: libertà per il cagnolino Dudù.

La Stampa 04.09.13