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“Il leader Pdl ha firmato i referendum radicali”, di Mattia Feltri

Se ci fosse un filo conduttore, sarebbe un groviglio. Se fossero due punti, Silvio Berlusconi e Marco Pannella sarebbero uniti da un arabesco. Se c’è uno schema logico per raccontare i rapporti fra i due, non è ancora stato scoperto: lo si può forse rappresentare come il tracciato di un elettrocardiogramma, ma di un paziente malmesso. Appaiati da due pazzie completamente diverse, Silvio e Marco si prendono e si lasciano, secondo un’antica simpatia e secondo i calcoli di rispettiva convenienza, ma soprattutto secondo un’incomunicabilità irrimediabile. Si mettevano lì, venti anni fa, quando il leader radicale ancora credeva (come mezza Italia) che il collega di centrodestra avesse l’intenzione e la forza di inventare qualcosa di rivoluzionariamente liberale. Si mettevano lì e Marco cominciava con Ernesto Rossi, con Gaetano Salvemini, il cattolicesimo liberale di Romolo Murri, e andava avanti per ore e quell’altro, che ha una capacità d’attenzione pari alla durata di uno spot televisivo – e forse aveva qualche amica che lo aspettava o forse cominciava il Milan – cadeva disperato in narcolessia. E nemmeno poteva liquidare l’interlocutore, poiché non è di quelli che gli danno ragione e lo chiamano dottore, ma piuttosto dei pochissimi che lo mandano bellamente al diavolo, o anche altrove.
Fu in quelle condizioni che nacque l’intesa del 1994. Preceduta da qualche incontro qua e là, quando Berlusconi arrivava in via degli Uffici del Vicario, al gruppo radicale, e se c’erano i giornalisti si incipriava in ascensore. E soprattutto da un episodio che avrebbe dovuto far intuire come sarebbero andate le cose. A fine ’93 i radicali si radunarono sotto la sede della stampa estera (dove Berlusconi doveva parlare ai giornalisti) per protestare contro il suo appoggio al «clerico-fascista» Gianfranco Fini contro il laico-progressista Francesco Rutelli nella gara al Campidoglio. Si risolse tutto a baci e abbracci, naturalmente, perché Silvio ignorò i consigli della scorta, andò verso Marco passando in mezzo ai militanti, e queste cose, si sa, al Grande Capo Bianco piacciono da morire. Il problema per entrambi è che le cose finiscono lì. A un’affezione istintiva, nata ai tempi in cui Bettino Craxi teneva le fila del gruppo. Per il resto stop. Uno si tiene le sue idee, quell’altro si tiene i suoi voti, in una relazione clamorosamente infeconda. Una diceria spiega bene – che sia vera o no – il concetto: nel ’94 pare che Pannella chiedesse per sé il ministero della Giustizia; Berlusconi, che alla Giustizia voleva piazzare Cesare Previti, e poi non ci riuscì per l’opposizione di Oscar Luigi Scalfaro, rilanciò col ministero degli Esteri, anche da girare a Emma Bonino. Ma Pannella rifiutò. Ecco, sono trascorsi diciannove anni abbondanti, la Bonino è agli Esteri e, al culmine di una clamorosa serie di fallimenti, in tema di giustizia Silvio torna da Marco (e dai suoi referendum).
Valutato come sono andate le cose, sarebbe stato bello vedere se Pannella alla Giustizia avrebbe cambiato la storia del Paese. E come sarebbe cambiata se, nel 1994, Berlusconi avesse seguito il consiglio del suo ministro Giuliano Ferrara e nominato commissario europeo Giorgio Napolitano. Pochi mesi prima, a Montecitorio, il premier di Forza Italia aveva lasciato i banchi del governo per raggiungere il capogruppo del Pds, reduce da un discorso duro ma sincero, e stringergli la mano; doveva essere l’inizio della pacificazione, già allora. Quando per Napolitano in Europa sembrava tutto fatto, piombò Pannella che seppellì Berlusconi sotto una montagna di parole. Dopo qualche ora, il presidente del Consiglio cedette per sfinimento: che sia la Bonino. Andandosene, Pannella passò davanti all’ufficio di Ferrara e lo salutò col gesto dell’ombrello.
A un certo punto Berlusconi si stancò. Le trattative per l’alleanza alle elezioni del 1996, durate le classiche sette ore, si chiusero bruscamente. Scocciato, Pannella mollò il consesso. Fu Rocco Buttiglione a inseguirlo. Lo cercò fino a notte, ristorante dopo ristorante, e infine lo trovò: «Marco, scusa, hai preso il mio cappotto».

La Stampa 01.09.13