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“Risorse ridotte per la Cassa in deroga”, di Claudio Tucci

Il fabbisogno stimato dalle Regioni per coprire i sussidi in deroga fino a fine 2013 è di 1,3 miliardi di euro. Ma per ora la coperta è più corta: l’intervento di rifinanziamento che farà il Governo (già forse nel prossimo consiglio dei ministri, ma potrebbe slittare ai primi di settembre) si aggira intorno ai circa 500-600 milioni; anche se la questione non è del tutto chiusa con il pressing del ministero del Lavoro sul ministero dell’Economia per avere più fondi. L’ipotesi di partenza, infatti, era quella di dedicare a cassa e mobilità in deroga circa un ulteriore miliardo di euro; ma, a quanto si apprende, la necessità di reperire risorse per gli altri dossier fiscali caldi (Imu e Iva) e la difficoltà di coprire per intero il miliardo ipotizzato hanno fatto scendere, almeno per il momento e salvo ulteriori colpi di scena, la cifra. Accanto al rifinanziamento dei sussidi in deroga il Governo, attuando quanto previsto nel decreto di maggio Imu-Cig, è pronto a emanare il provvedimento che prevede criteri più restrittivi per concedere questi ammortizzatori, con l’obiettivo quindi di legare i nuovi fondi in arrivo ai nuovi criteri. Secondo le primi indiscrezioni, per quanto riguarda la cassa integrazione in deroga si pensa di introdurre limiti temporali di fruizione del sussidio; dei “tetti” massimi, non rinnovabili (oggi questi trattamenti hanno sostanzialmente pochi paletti, e possono essere concessi anche più volte). Allo studio c’è l’ipotesi di fissare in 8 mesi la durata complessiva della cassa in deroga nell’arco di un anno; fino a salire a 14 mesi nel biennio (dove i due anni inizierebbero a essere conteggiati dal l ° gennaio 2013). Sul fronte invece della mobilità in deroga, sempre secondo quanto si apprende, si sta mettendo a punto una procedura per svuotare gradualmente il bacino dei fruitori a partire da chi, negli anni, ne ha fruito di più (ci sono lavoratori, soprattutto nelle regioni meridionali, sussidiati da ben 8-io anni). In pratica, dal ° gennaio 2014, secondo quanto si apprende, si potranno concedere al massimo ulteriori 3, 6, 9 e 12 mesi di mobilità a seconda del periodo già goduto dell’ammortizzatore (2, 3, 4 anni). Un meccanismo che dovrebbe, nelle intenzioni del Governo, riportare a un uso corretto (e originario) la mobilità in deroga; come appunto un sussidio “in deroga”, cioè di carattere straordinario e temporaneo. La bozza di decreto di riordino dei criteri di concessione dei sussidi in deroga dovrà essere discussa con le Regioni (già dalla settimana prossima si conta di aprire il confronto); e sul provvedimento, poi, si dovranno sentire le parti sociali e passare il vaglio delle competenti commissioni parlamentari. Ci sarà comunque un attento monitoraggio sugli andamenti di spesa: se ne occuperà l’Inps, sulla base dei decreti di concessione inviati telematicamente dal ministero del Lavoro e dalle Regioni (e l’esito delle verifiche andrà comunicato anche al Tesoro). L’eventuale arrivo di ulteriori 500-600 milioni per i sussidi in deroga fa salire la somma già stanziata a circa 2 miliardi. I primi di giugno sono stati sbloccati 780 milioni; altri 550 milioni con il decreto Imu-Cig. «I nuovi fondi in arrivo sono un ulteriore passo in avanti, ma non risolvono il problema. Serve uno sforzo in più da parte del Governo», sottolinea il coordinatore degli assessori regionali al lavoro, Gianfranco Simoncini. Certo, la crisi morde. Ma i dati dicono che c’è anche un problema di utilizzo di questi sussidi in deroga, a macchia di leopardo da Milano a Palermo; e, spesso, anche distorto. Ogni mese l’Inps certifica come il tiraggio (cioè l’effettiva fruizione) non superi mai il 50% delle ore autorizzate; e gli ultimi dati di Italia- Lavoro evidenziano come, dal 2009 al 2012, il numero dipercettori effettivo dei sussidi in deroga sia stato di 825mila persone, di cui 1137% ha fruito di più di un trattamento.

Il Sole 24 Ore 27.08.13

“L’America indispensabile”, di Lucio Caracciolo

Riprendere la misura di se stessi non è facile, specie dopo aver tanto creduto, con ottime ragioni, nella propria superiore potenza. Eppure è questo il filo rosso con cui Barack Obama ha finora tessuto la sua politica estera, nella consapevolezza che l’età aurea del presunto “mondo unipolare” è trascorsa. Obiettivo: districare gli Stati Uniti dalle disastrose guerre di Bush figlio. Guerre che nell’illusione di cambiare la faccia del Medio Oriente con un paio di passeggiate militari avevano sprofondato il prestigio dell’America a un grado intollerabile per chi si considera Numero Uno. Di qui il disingaggio dall’Iraq (completato) e dall’Afghanistan (in corso). E la parola d’ordine del “perno asiatico” – occupiamoci del vero rivale, la Cina, per il resto non abbiamo tempo né denaro.
Tutto molto logico. Quasi cartesiano. Troppo, per il disordinato mondo di oggi. Il Medio Oriente, che Obama voleva cacciare dalla porta, rientra dalla finestra. Continuare a ignorarlo, o a subappaltarne le convulsioni ai velleitari alleati europei e a non disinteressati attori locali che usano il disimpegno americano per fini propri, si sta rivelando un boomerang. Dopo aver benedetto alternativamente – in spregio del principio di non contraddizione – tutti i vincitori di turno in Egitto, offerto malvolentieri una mano all’avventura franco-inglese in Libia e aver delimitato il perimetro della “guerra al terrorismo” concentrandola su droni, intelligence e operazioni mirate, l’emergenza Siria pone Obama con le spalle al muro. Può continuare l’America a declassare a ciclone in transito lo tsunami che da due anni e mezzo agita l’universo arabo e musulmano, in nome delle priorità domestiche e dell’attenzione privilegiata all’Asia-Pacifico? Se no, che cosa fare?
Dopo centomila morti passati in cavalleria, quasi fossero una calamità naturale, oggi in Siria la Casa Bianca fa i conti con l’ambiguità della propria retorica. Quella che costringe Obama, in nome dell’idea degli Stati Uniti “nazione indispensabile”, cui nessun leader americano può abdicare senza rinnegare la propria missione, a conciliare l’inconciliabile: l’intima prudenza e la consapevolezza delle scarse risorse a disposizione – i politologi lo chiamano realismo – con l’inno alla grandezza e alle responsabilità della superpotenza benevola – il costitutivo idealismo della repubblica a stelle e strisce. È a questa forse irrinunciabile doppiezza del proprio approccio al mondo che Obama si piegò quando avvertì il regime di Damasco che l’uso di armi chimiche avrebbe significato varcare la soglia oltre la quale Washington avrebbe dovuto fare qualcosa. Già, ma che cosa?
Non sapremo mai con assoluta certezza chi ha impiegato agenti neurotossici contro civili inermi, se il macellaio di Damasco o i suoi nemici più feroci, afferenti alle cellule jihadiste che hanno stravolto i caratteri originari (immaginari?) della rivolta siriana. O forse entrambi, come sosteneva mesi fa Carla Del Ponte. Poco importa. Obama ha deciso che la responsabilità di tanto orrore è comunque del regime.
Ieri sera il segretario di Stato John Kerry ha preparato il pubblico americano alla rappresaglia. Al Pentagono si rivedono i dettagli degli attacchi “chirurgici” contro il clan degli al-Asad, pianificati da tempo. Si evoca il “modello Kosovo”, quasi si potesse replicare nel cuore del Medio Oriente in fiamme la non brillante operazione aerea contro Milosevic, senza estendere il conflitto.
In Kosovo la Nato fu l’aviazione dei ribelli kosovaro-albanesi, riabilitati d’un colpo da terroristi a combattenti per la libertà onde legittimarli ai compiti di fanteria che le potenze atlantiche volevano risparmiare ai propri soldati. Stavolta gli americani e alcuni alleati – i tedeschi paiono al solito sfilarsi, su noi italiani non abbiamo certezze – potrebbero limitarsi a una pioggia di missili e alle incursioni dei droni. E poi? Se non bastassero ad abbattere il dittatore, dovremmo trattare con lui, come con Milosevic? E se bastassero, dovremmo applaudire il tagliagole jihadista che ne prendesse il posto, o assistere alla resa dei conti fra le fazioni che si scannano in ciò che resta della Siria, acconciandoci a formalizzarne la spartizione in stile balcanico? Oppure americani e altri occidentali, fors’anche musulmani, dovrebbero mettere gli stivali per terra, finendo risucchiati nell’epicentro siriano della guerra civile islamica che oppone Iran e Arabia Saudita, con i rispettivi satelliti? E Israele starà a guardare, o vorrà profittarne per assestare un serio colpo agli ayatollah? Quanto a Teheran, si adatterà a perdere il suo sbocco sul Mediterraneo?
Non è dunque chiaro – probabilmente nemmeno a Obama – quale strategia sottenda la rappresaglia che dovrebbe colpire Damasco. In ogni caso, quale che sia l’esito dell’azione militare americana e/o internazionale, niente e nessuno potrà poi risparmiarci la fatica di un arduo compromesso che coinvolga le parti in conflitto, siriane o meno. O la vergognosa ma almeno sincera ammissione di non saper come imporre la fine del massacro.
Quando evocò la “linea rossa” delle armi chimiche, Obama diede un ultimatum a se stesso. Oggi forse non lo rifarebbe. Le incertezze di questi giorni, fra accenni minacciosi e assicurazioni che nulla è deciso, segnalano la sua sofferenza anche personale. Ora, sotto la pressione del “bisogna fare qualcosa”, il presidente inclina verso un’operazione militare limitata. Per salvare la faccia, non per imporre una soluzione politica di cui non ha le chiavi. Così confermando quanto poco può l’America per sedare l’incendio mediorientale. E rischiando di porla presto di fronte a uno scomodo bivio: escalation o ritirata.
Quanto a noi europei, forse un giorno scopriremo che l’“armiamoci e partite” – specialità francese per cui si va alla guerra (vedi Libia) perché tanto la vinceremo grazie agli americani – è gioco troppo pericoloso se praticato nel cortile di casa. E se l’America non vuole, non sa o non può andare fino in fondo.

La Repubblica 27.08.13

“Stop al precariato nel pubblico impiego”, di Massimo Franchi

Due ore di Consiglio dei ministri per mettere a punto le norme sulla Pubblica amministrazione, un decreto e un disegno di legge per dare «efficienza» al sistema. E fissare un principio: basta precariato di Stato. È direttamente Enrico Letta ad annunciarlo: «Abbiamo deciso di dare una soluzione strutturale al tema del precariato», «tipizzando e riducendo le forme di lavoro flessibile, mettendo una barriera per evitare scorciatoie, come nelle assunzioni nel- le aziende partecipate»: il contratto a tempo determinato sarà quello «prevalente». Al contempo si avvia un «percorso di parziale inserimento di precari» che saranno stabilizzati «previa procedura altamente selettiva, come prescrive la Costituzione». E con l’obbligo per le amministrazioni pubbliche di assumere i vincitori di concorso.

Se il principio è chiaro, molto meno lo sono i numeri. E ancora meno i tempi della stabilizzazione. Dei 150mila precari stimati dai sindacati, l’unica platea su cui ci siano notizie è quella dei lavoratori della sanità. Proprio mentre il ministro Giampiero D’Alia specificava come siano «oltre 30mila precari i contratti a termine nel com- parto», un comunicato della collega titolare della Salute Beatrice Lorenzin parlava della stabilizzazione di 35mila lavoratori. Ma la «disciplina» sarà affidata «alla Conferenza Stato Regioni» che «stabilirà i criteri per le discipline selettive».

Le reazione dei sindacati, che alla vigilia del Consiglio dei ministri avevano chiesto espressamente l’introduzione di una quota di stabilizzazioni anche per i precari co.co.co, sono improntate alla prudenza. D’altronde lo stesso Enrico Letta ha parlato di stabilizzazione e «prove selettive per chi ha avuto alme- no tre anni di contratti nell’ultimo cinquennio» e dunque si è limitato a citare i tempi determinati. I sindacati di categoria si pronunceranno solo oggi, dopo aver studiato il testo, mentre la Cgil, per bocca del segretario confederale Ni- cola Nicolosi, parla di «un primo passo, una risposta parziale non ancora sufficiente per dare una soluzione complessiva al tema della precarietà nella Pa».

L’altro grande tema è quello dei Fondi europei per i sette anni 2014-2020. E la creazione, per decreto, di un’agenzia ad hoc che sarà gestito dal ministro per la Coesione Carlo Trigiglia e accorpato alla Presidenza dei ministri. Il tutto con l’obiettivo, precisa Letta, di «essere più europei» e con 120 assunzioni di personale specializzato.

Dal Consiglio dei ministri arriva poi un «ulteriore taglio del 20% delle auto blu di tutte le amministrazioni pubbliche» con l’obiettivo di proseguire «sulla strada virtuosa» che è stata intrapresa, annota il premier. I risparmi sono quantificati dal ministro D’Alia: «Ì dati in nostro possesso sul 70 per cento delle amministrazioni pubbliche parlano di un costo di un miliardo», mentre un miliardo e duecento milioni costano le consulenze esterne su cui arriva un’altra stretta, visto che i dirigenti saranno chiamati a rispondere («li paga di tasca sua», precisa D’Alia) di ogni spesa fuori dai tagli previsti dal decreto.

Altro capitolo importante riguarda la tracciabilità dei rifiuti, il sistema dall’acronimo Sistri. «Abbiamo deciso una semplificazione e finalmente si parte, gradualmente, ma si parte: l’Italia avrà un sistema di tracciabilità ma non lo farà gravare sulle imprese», annuncia il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando. «Abbiamo scelto di circoscrivere la platea del primo step: solo i produttori e i gestori di rifiuti pericolosi saranno direttamente coinvolti. La platea passerà da 40mila a 17mila. Il secondo step – aggiunge Orlando – resta a marzo ma con l’inversione dell’onere. Si parte, se le semplificazioni ci sono state. Il secondo step riguarda anche i trasportatori dei pericolosi ma solo se prima di marzo sarà intervenuta la semplificazione che abbiamo previsto». Orlando spiega che caso a parte sarà «la Regione Campania che avrà una platea più ampia e riguarderà anche i rifiuti solido urbani».

Sempre i tema di assunzioni, lo stesso Enrico Letta ha annunciato che l’aumento di organico dei Vigili del fuoco, gravemente carente per i tagli degli anni scorsi. «Mille nuovi Vigili del fuoco sono segno di attenzione profonda verso il territorio», ha detto.

Si passa poi al capitolo ricerca. Qui arrivano «due norme importanti: nel decreto legge – ha spiegato il ministro dell’Istruzione, Annamaria Carrozza – c’è la norma in favore dell’autonomia degli enti che consente, nell’ambito del piano triennale, l’immissione in ruolo dei ricercatori» mentre nel disegno di legge c’è una norma che riguarda l’Istituto di Geofisica e Vulcanologia, che «consente, in prospettiva, l’immissione in ruolo dei ricercatori precari».

Rimangono fuori dal decreto e dal disegno di legge l’annunciata norma per prepensionare 7-8 mila lavoratori statali. E lo stralcio ha avuto conseguenze sulle mancate stime sugli ingressi dei precari.

L’Unità 27.08.13

“La flessibilità danneggia lavoratori, sindacati e Paese”, di Paolo Leon

Supponendo che anche l’Italia sia vicina alla ripresa, e vi sono ragioni per dubitarne, molti esperti ritengono che la riduzione dalla disoccupazione sarà ritardata e che, nell’attesa, aumenterà ancora. Nel passato, il ritardo era di un anno circa rispetto alla crescita, e poiché la crisi di oggi è più severa di quelle del passato, il ritardo, si pensa, sarà più lungo. Da qui nasce la preoccupazione che, nel frattempo, gli italiani non ne possano più e che si prospetti un periodo di ribellioni sociali. Il pericolo c’è, e abbiamo già sperimentato che si trova sempre qualcuno capace di provocarne l’esplosione con le opportune demagogie. L’Italia è ormai diventata un Paese nel quale è massima la precarietà della forza lavoro; perfino il provvedimento per consentire la riproduzione dei contratti a tempo determinato – per evitare altri licenziamenti – dimostra che ci si è rassegnati alla precarietà come una struttura permanente e pervasivi. Non solo le imprese ma anche parti politiche e perfino sindacali, ritengono che se l’occupazione deve aumentare, allora la precarietà – che per pudore si chiama flessibilità – è necessario diventi regola e non più eccezione. La precarietà/flessibilità, però, altera profondamente sia le istituzioni del mercato della forza lavoro sia la cultura del lavoro. Il precario è immerso in un universo concorrenziale per posti di lavoro che sono «probabilisticamente» alla sua portata, ed è spinto a ritenere che, se trova un posto, è merito suo, non certo del sindacato o delle leggi in vigore. Di conseguenza, i lavoratori a tempo determinato, i cocopro, le partite Iva, perfino i professionisti, trovano insopportabile che esista una parte dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, che non subiscono la concorrenza degli altri lavoratori, che non devono sottostare al potere dell’impresa e, perciò, possono difendere la loro dignità. Il nuovo occupato flessibile è così diventato tanto più individualista quanto più è lontano da un posto di lavoro stabile, e ciò lo rende culturalmente simile al suo datore di lavoro, anch’egli in concorrenza: non penso si tratti della sindrome di Stoccolma, perché il precario può sempre andarsene e, per quanto difficile, trovare un altro lavoro precario; certo, aspirerà sempre ad un lavoro a tempo indeterminato, ma per molti questa aspettativa è ormai sparita dalle probabilità e, in qualche caso, anche dai desideri. Negli Stati Uniti, dopo Reagan, il mercato della forza lavoro ha queste caratteristiche, anche nelle professioni qualificate: ma il partito democratico ha il suo fondamento nella politica per la piena occupazione, che riduce il rischio della flessibiltà, e «occupy Wall Street» non ha retto al miglioramento dovuto alla politica di Obama. La soluzione che da tanti anni ci viene proposta, anche a sinistra, è la flexicurity, adottata in alcuni paesi nordici: mercato flessibile ma reddito protetto. Non so se si intende quanto retriva sia questa politica, perché il generoso sussidio (che deve essere tale da mantenere lo standard di vita del lavoratore flessibile – è un reddito «medio» e non minimo) non deve nulla al sindacato, che così diventa irrilevante, perché perde iscritti e non ha più la forza per strappare un’occupazione stabile per tutti. La flexicurity ha, poi, senso solo se l’economia è vicina alla piena occupazione; se, invece, è in crisi o stagna, la disoccupazione del precario diventa lunga e il peso del sussidio sulla finanza pubblica insostenibile, riducendo questa politica ad un mero sussidio di disoccupazione Il nocciolo della questione è dunque la piena occupazione e il pieno utilizzo della forza lavoro o, se si vuole, un’economia che cresce così da assicurare l’una e l’altro: il patto del lavoro, quando il mercato è flessibile, consiste proprio nel dare massima priorità all’occupazione, che fa prevalere le dimissioni sui licenziamenti, ricostruisce il potere contrattuale del sindacato e, come conseguenza, migliora le condizioni di lavoro – compresa la riduzione della stessa precarietà. Così, fino a che non ci daremo un assetto politico capace di muovere il Paese verso la piena occupazione, vivremo con la precarietà; ma è proprio questa che ci impedirà di raggiungere quell’assetto politico, per mancanza di consenso. La strada, in assenza di un partito del lavoro e con l’attuale riformismo esangue, sembra senza uscita. L’unico beneficio di un mercato precario, è che il ritardo tra occupazione e crescita si riduce, rispetto al passato, perché le imprese sanno di poter licenziare nel caso la ripresa non sia così promettente come anticipato. Meglio che niente? Non penso basti alla maggioranza degli italiani.

L’Unità 27.08.13

“La funzione educativa dimenticata”, di Alessandro D’Avenia

Per fare una splendida lezione scolastica non serve avere una vita morale altrettanto splendida. Ma se si scopre un professore ad approfittare del suo fascino per mescolarsi a studentesse minorenni c’è materia a sufficienza per riempire le nostre orecchie assetate di scandali e i nostri cuori affamati di capri espiatori.
La notizia fa ancora più notizia proprio perché si tratta di un professore e la sua professione è di quelle in cui pubblico e privato tendono a coincidere, come tutte le professioni grazie alle quali delle vite «in formazione» sono affidate ad altri. Vale tanto per il politico a cui ne sono affidate migliaia quanto per l’insegnante a cui ne sono affidate alcune decine. Ma non per questo vale la pena parlarne, niente di nuovo sotto il sole.

Colpevole o no dei fatti di cui è incriminato (e non voglio entrare nel merito perché non sta a me giudicare) la credibilità professionale del docente è finita. Perché?

Perché per essere un bravo docente non basta saper spiegare Dante e Manzoni magnificamente tanto da non farli odiare. Capisco la bellissima lettera dei professori che difendono il loro collega, perché ogni insegnante sa quanto a scuola si muoia di solitudine, di invidie, di dicerie. Ma il piano emotivo deve lasciare lo spazio ad un ragionamento più ampio e stingente allo stesso tempo.

La professione del docente è una professione che ha il suo centro nella relazione educativa: che senso ha stare nella stessa aula a imparare insieme qualcosa? Potremmo caricare le lezioni su youtube e fruirne quando pare e piace, risparmiandoci alunni annoiati o riottosi e burn-out. Basterà poi stilare un calendario di compiti in classe e interrogazioni. Ma sarebbe ancora scuola?

No. Nell’era del virtuale la scuola rimane reale, perché la relazione educativa ha bisogno di presenza, scambio reciproco (non univoco), carne (non carnalità). Benché la relazione sia impalpabile come l’aria, essa è ciò in cui a scuola si è immersi e di cui si respira. Ce ne si accorge solo quando l’aria è inquinata, come in questo caso. Dalla qualità della relazione dipende la crescita degli alunni, non dalla mera bravura e passione del docente nello spiegare.

Ogni relazione è qualcosa che trascende gli attori della relazione, è fatta sì dalle persone ma dà alle persone che ne sono i poli qualcosa che supera entrambi.

Nella relazione educativa il bene relazionale in gioco è la crescita dello studente in autonomia e spirito critico e la crescita del docente in capacità di ascolto e adattamento. Se invece la relazione diventa di controllo, fosse anche per il fascino esercitato dal carisma, quella relazione non è una buona relazione, perché non dà spazio all’allievo per crescere, ma lo rende dipendente, ipnotizzato, emotivo. E rende il docente narciso, controllore, fino ad abusare (anche fisicamente) del suo ruolo.

Le relazioni sono tali perché superano gli individui. Non basta essere buoni individui per avere una socialità e una società buona. I figli non sono a immagine dei genitori presi singolarmente (solo fisicamente), ma sono a immagine della qualità della relazione che esiste fra i genitori. E anni di insegnamento mi offrono tanti esempi quanti alunni ho avuto.

Il docente in questione sarà pure un ottimo conferenziere, ma è un pessimo professore. Affascinante, appassionato, capace di afferrare il cuore e la mente dei suoi studenti, ma incapace di stabilire una relazione educativa equilibrata ed asimmetrica. Non basta riempire di belle cose una testa per essere bravi insegnanti, lo si è se si instaura una relazione che fa crescere e rende autonomi. È un pessimo professore, non semplicemente per etica professionale e età delle alunne che magari se ne sono anche innamorate, ma perché la relazione educativa non crea un bene né per lui né per l’alunna (anche se il loro sentimento fosse sincero).

Dopo anni di insegnamento mi sono reso conto di quanto sia bello acquisire un ruolo di vera paternità nei confronti dei propri allievi: vederli crescere liberi e non soggiogati, capaci di criticarti e di pensare autonomamente, poter parlare con loro a tu per tu, ma sempre sotto gli occhi di altri, per non abusare mai di quell’inevitabile vicinanza che la relazione educativa crea con i suoi momenti di sfogo, di debolezza, di bisogno di aiuto. Che triste beffa invece vederli al guinzaglio del proprio fascino, marionette del proprio narcisismo, incapaci di muovere un passo da soli.

Un ottimo professionista non è detto che sia un buon marito, un buon padre, un buon amico, un buon collega. In una cultura individualista innalziamo le qualità del singolo, dimenticando la specificità delle relazioni e la loro centralità in contesti che ne sono intessuti.

Ridare peso alle relazioni e a ciò che esse significano è l’unico modo di riscoprire il fondamento della vera socialità e società: famiglia e scuola ne sono i nuclei originari. Se non fosse così non avremmo nulla da incolpare ad un docente carismatico che finisce a letto con le alunne.

La Stampa 27.08.13

Zagrebelsky: “Nessun compromesso la legge è uguale per tutti anche per Berlusconi”, di Liana Milella

I no — «chiari e tondi» — si sarebbero dovuti dire nella fin troppo lunga stagione delle leggi ad personam. Adesso, purtroppo, «rischia di essere tardi». A farne le spese saranno le istituzioni. È pessimista, il professor Gustavo Zagrebelsky, sull’affaire Berlusconi. Giudica «umiliante» che, per un leader di partito, si discuta di carcere, di domiciliari, di rieducazione sociale. E a chi sbandiera la tesi della sua agibilità politica, Zagrebelsky contrappone la necessità, da tanti avvertita, che «la politica sia protetta dall’illegalità». Per questo il Senato dovrebbe «prendere atto» della condanna del Cavaliere e rispettare la legge Severino. Il ricorso alla Consulta «è possibile» ma, ironizza il professore, cosa potrebbe negare un Parlamento che ha consentito di far passare la tesi di Ruby nipote di Mubarak? Infine la grazia: Zagrebelsky ne ragiona con la freddezza di chi ci vede «un nuovo elemento divisivo» che potrebbe solo «intaccare» la figura del capo dello Stato.
Da un mese il dibattito politico è paralizzato. Berlusconi e il Pdl, perfino con il ministro dell’Interno Alfano, chiedono una cosa sola: cancellare quella condanna. Quanto è anomala e pericolosa la situazione che si vive in Italia?
«Una cosa è da dire, innanzitutto: era tutto prevedibile. Per anni si è creduto di tenere sotto controllo un conflitto che, alla fine, si dimostra non componibile con un compromesso. Non è componibile, perché sono in gioco non interessi politici tra cui può esserci mediazione, ma principi ultimi che o si rispettano o si violano. Nel momento in cui è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, è venuto il momento del redde rationem: o la forza della legge o certe aspettative della politica. Per anni si è andati avanti con stratagemmi più o meno scaltri: rinvii, leggine personali mascherate da generali, impedimenti e furbizie varie, tollerate colpevolmente a tutti i livelli, politici e istituzionali, nella vana speranza che il conflitto si potesse controllare politicamente e che, alla fine, si spegnesse da sé. Se una lezione è da trarre, a futura memoria, è che i piccoli cedimenti iniziali sono destinati ad aprire la strada ad altri, e che, cedimento su cedimento, si forma una massa che non si riesce più a fermare. Il rigore istituzionale implica il dovere e la forza di dire dei “no” chiari e tondi, soprattutto all’inizio, quando è più facile».
Il neologismo “agibilità politica” può diventare una categoria per giustificare un trattamento speciale per Berlusconi? O la legge non sarebbe più, a quel punto, “uguale per tutti”?
«Effettivamente, che il capo d’un partito che raccoglie molti voti e che ha governato per molti anni sia in carcere o, più facilmente, “ai domiciliari” o, peggio, lo si debba rieducare con opere di bene “ai servizi sociali”, è una prospettiva umiliante: non (solo) per lui, ma (soprattutto) per tutti noi. S’invoca il diritto dei tanti elettori che l’hanno votato di poter sperare ancora nell’attività politica del loro leader. Ciò è comprensibile, ma non può essere senza limiti. Ritorniamo al rapporto legge-politica. Siamo in una democrazia, ma anche in uno Stato di diritto. La “agibilità politica” che la democrazia richiede a favore di tutti non cede forse di fronte all’esigenza dello Stato di diritto che la politica non sia o non cada nelle mani di chi è stato riconosciuto colpevole di gravi reati contro la cosa pubblica? La politica, più di ogni altra attività sociale, non deve essere protetta dall’illegalità? Dal punto di vista dell’agibilità politica, un condannato per gravi reati è “meno uguale” di chi non lo è stato. L’art. 48, terzo comma, della Costituzione prevede infatti la più classica delle limitazioni alla “agibilità politica”, cioè l’ineleggibilità per effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».
Questo suo ultimo argomento, però, pare a molti, formalistico: Berlusconi, per i suoi sostenitori, non è uno come tanti altri, è un unicum e quindi merita una particolare considerazione.
«Sì, si dice così. L’uguaglianza di fronte alla legge varrebbe per gli uomini comuni, come siamo tutti noi. Lui, però, è un megantropo. Applicargli la legge comune sarebbe come chiudere ipocritamente gli occhi di fronte alla realtà. Ma, dicendo così, si finisce per denunciare una stortura ancor più grave: l’aver lasciato crescere nella democrazia un corpo estraneo: un’aggregazione di potere economico, comunicativo e politico in una sola persona, dove il potere acquisito in un campo serve ad alimentare il potere negli altri campi. Questo è un disequilibrio assai grave, che denominiamo
impropriamente “conflitto d’interessi”, mentre dovremmo chiamarlo accumulo d’interessi (e di potere)».
Il Parlamento ha varato la legge contro la corruzione e, al suo interno, il decreto sull’incandidabilità dei condannati fino a due anni. Anche il Pdl ha detto sì. Berlusconi rientra nei casi previsti dalla legge. Lei vede una via d’uscita dalla sua decadenza dal Senato e dalla sua impossibilità a ricandidarsi?
«Il Senato, pacificamente, è chiamato a prendere atto della sentenza e delle sue conseguenze e, per questo, ci sarà un voto. Trattandosi d’una presa d’atto, l’esito dovrebbe essere scontato, non potendo implicare una valutazione nel merito della sentenza di condanna. Però, nessuno può sapere che cosa accadrà. Se ci fosse un rifiuto, si aprirebbe un conflitto costituzionale di grande portata. Di nuovo: politica contro giustizia. Siamo sempre lì».
Il Senato — la giunta per le immunità prima, l’aula in seconda battuta — possono rivolgersi alla Consulta?
«Certo che “possono”! Chi potrebbe impedirglielo? Se, però, “potere” significa “essere lecito”, per rispondere dovrei entrare in argomenti strettamente giuridici. Preferisco non rispondere. Troppe sono le cose dette dai giuristi e troppo diverse tra loro. Crediamo forse che le forze politiche si orienteranno secondo l’argomento migliore, quando una maggioranza ha votato senza battere ciglio che una ragazza di nome Ruby è nipote d’un presidente egiziano? La realtà è che, in queste questioni, ciò che conta non è la forza degli argomenti, ma la forza dei numeri. Agli argomenti dei giuristi ci si appiglia solo come a pretesti. Sarebbe bene che, per l’onorabilità nostra e della nostra disciplina, in questa circostanza ci si astenesse dal fornire, per l’appunto, pretesti. In attesa di tempi migliori per il diritto».
La grazia. Napolitano si è espresso in proposito. Berlusconi deve chiederla ed essa non coprirebbe comunque le pene accessorie. Ma nella situazione penale di Berlusconi — un’altra condanna in primo grado e altri processi in corso — una grazia è possibile? Soprattutto: è eticamente accettabile?
«Quando, nel 2006, la Corte costituzionale ha definito i caratteri del potere di grazia, l’ha sottratto al Governo, poiché il Governo esprime per sua natura orientamenti di parte, mentre la grazia deve prescinderne. Per questo, è stata assegnata al potere esclusivo del Presidente della Repubblica, rappresentante dell’unità nazionale. Ora, a parte le altre questioni, cui lei accenna nella domanda, le pare che in questo caso la grazia sarebbe un atto di unità? Non fomenterebbe, invece, profonde reazioni — come si dice — divisive, che intaccherebbero la figura stessa del Capo dello Stato?».
Una situazione come quella di questi giorni e la prospettiva della crisi di governo farà saltare la scommessa di una nuova legge elettorale. Rischiamo di tornare alle urne con il Porcellum oppure lei vede vie d’uscita?
«Una proposta meritevole d’attenzione c’è: sistema proporzionale con premio di maggioranza dato a chi prevale con una certa percentuale di voti oppure, in mancanza, assegnato con ballottaggio. Le idee non mancano. Ciò che manca è una convergenza d’interessi su una proposta. Se c’è una materia su cui, più che su ogni altra, si giocano gli interessi immediati delle forze politiche, e le ragioni di principio, cioè le visioni di giustizia, sono recessive, è proprio la materia elettorale. Gli interessi non si sommano ma si elidono. Per questo, c’è poco da essere ottimisti. Un’occasione s’è persa quando la Corte costituzionale ha bloccato un referendum per il ritorno alla legge precedente, imperfetta ma certo migliore dell’attuale. Perciò, è assai probabile che si ritorni a votare con la legge attuale, da tutti deprecata per il suo marcato carattere oligarchico, per la possibile abnormità del premio di maggioranza e per l’incoerenza degli esiti, tra Camera e Senato: tre ragioni d’incostituzionalità. Ora, che si possa essere chiamati a votare con una legge che la Corte costituzionale, di passaggio in una sentenza di qualche anno fa, ha bollato come incostituzionale, è una delle non ultime ragioni della malattia che sfianca la democrazia nel nostro Paese».

La Repubblica 27.08.13

“Al via le “misure di accompagnamento” per le Indicazioni per il primo ciclo”, di Giancarlo Cerini

Ad un anno ormai dall’approvazione definitiva delle Indicazioni nazionali per il primo ciclo (DM 254/2012) sono in fase di decollo le “misure di accompagnamento”, che dovrebbero garantirne una attuazione informata e partecipata da parte dei docenti e delle scuole. Troppo spesso nella nostra scuola innovazioni importanti (ed i “programmi” relativi all’intero primi ciclo dovrebbero esserlo) sono state preannunciate nei documenti ufficiali, ma poi abbandonate al loro destino senza adeguati supporti informativi e formativi per il personale. Sono sotto gli occhi di tutti la scarsa attenzione che negli ultimi anni è stata data alla formazione permanente degli insegnanti e l’esiguità delle risorse ad essa destinata. Quindi sono da salutare come segno positivo, ed in controtendenza, le circolari ed il relativo documento di accompagnamento(1) che avviano per il prossimo a.s. 2013-2014 un progetto di formazione rivolto alle scuole, associate in rete, con proposte -si spera- di carattere innovativo. C’è solo da sperare che l’azione possa usufruire di risorse più consistenti di quelle per ora messe a disposizione e che l’iniziativa possa protrarsi per alcuni anni, per produrre effetti di una qualche consistenza.
D’altra parte il ritardo nell’uscita del piano, ”atteso” dalla scuola, si spiega con il difficile momento per la finanza pubblica che produce contraccolpi anche sulla scuola, e con alcuni passaggi tecnici che vanno ricordati:
-il testo definitivo delle Indicazioni è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale solo il 5 febbraio 2013 (anche se nel frattempo il MIUR ha fatto pervenire una copia delle Indicazioni a tutti gli insegnanti);
-la decorrenza nell’attuazione è fissata al 1° settembre 2013 (anche se per le parti già previste dai POF la stessa decorre dall’a.s. 2012-13, anche per ricordare che il testo non è radicalmente “nuovo”, ma una sostanziosa “revisione” delle stesure precedenti;
-l’apposito comitato scientifico nazionale (CSN), che deve sovrintendere alle azioni formativo (oltre che occuparsi del monitoraggio e della verifica dell’impatto delle Indicazioni) è stato istituito solo nel mese di marzo 2013(2) .
Ora tutte queste condizioni si sono positivamente realizzate, e siamo anche in presenza di uno specifico impegno politico del neo-ministro all’istruzione M.C.Carrozza, che nei suoi interventi programmatici di fronte alle Camere (3), ha individuato nelle Indicazioni per il curricolo e nel relativo incremento delle dotazioni finanziarie per la formazione dei docenti, uno degli assi portanti della sua politica.
Vediamo allora, in sintesi, quali sono gli aspetti più qualificanti delle misure di accompagnamento con le quali le scuole dovranno misurarsi nei prossimi mesi di settembre e ottobre (a livello di progettazione).

Le caratteristiche del “piano”

Il progetto di accompagnamento ha una sua sobrietà. Non è più tempo di imponenti piani pluriennali di aggiornamento (come quelli che caratterizzarono gli anni ’80), sia perché le risorse non lo consentono, sia perché sta cambiando l’idea di formazione in servizio (dalla frequenza più o meno passiva di corsi/lezioni di aggiornamento alla partecipazione a momenti di studio, di ricerca, di confronto e di applicazione, con la guida di un tutor piuttosto che di un c.d. “esperto” della materia). L’idea, dunque, è quella di un “laboratorio di formazione” che si fa apprezzare per il carattere operativo, pratico, esemplificativo, delle esperienze vissute attivamente dai corsisti. Questo implica l’abbandono dei grandi numeri in favore della formazione di piccoli gruppi “elettivi” (che scelgono volontariamente di partecipare), fidando in una successiva ricaduta tra i colleghi delle scuole di appartenenza.
Il modello deve poi tenere conto del nuovo contesto dell’autonomia delle scuole, favorendone l’aggregazione in rete, piuttosto che l’autosufficienza.
Le misure di accompagnamento sono affidate alle scuole, e alle loro reti, in coerenza con il concetto di Indicazioni PER il curricolo (DM 254/2012), e non di Programmi, che rimanda alla centralità delle scelte e dell’iniziativa degli operatori scolastici. Alla scuola viene richiesto non di applicare pedissequamente un programma didattico stabilito centralmente, ma di elaborare – attraverso il POF – un proprio curricolo, cioè una proposta formativa che rispetti gli essenziali elementi di prescrittività fissati dalle Indicazioni (riferiti in primo luogo ai traguardi di competenza) e li contestualizzi sui bisogni rilevati e sulle reali condizioni del fare scuola.
Il piano di formazione ha un suo sviluppo pluriennale, ma al momento sono certe solo le risorse reperite per il 2013 (che ammontano a 1,6 milioni di euro), largamente insufficienti per un’azione di respiro, come quella prospettata nel documento del comitato scientifico nazionale (CSN). Dunque è prevedibile che in una prima fase, solo il 15-20% delle scuole possa vedere soddisfatta la propria richiesta di partecipazione (e di finanziamento).
Tuttavia, le misure di accompagnamento non si esauriscono nel semplice allestimento di corsi di formazione, sia pure in una ottica laboratoriale, ma comprendono una pluralità di azioni:
a) informazione e prima conoscenza del testo;
b) formazione, confronto, approfondimenti;
c) attivazione di gruppi di ricerca didattica;
d) azioni di monitoraggio e verifica;
e) documentazione degli esiti e disseminazione di buone pratiche.

Cosa potrebbe accadere nella mia scuola?

E’ prevista una fase (obbligatoria) di informazione e formazione di primo livello, da realizzare per tutti i docenti come attività ordinaria di istituto e con le normali risorse umane e finanziarie a disposizione. In effetti, le Indicazioni sono elemento ordinatore delle molteplici azioni che una scuola deve mettere in atto per la definizione del proprio curricolo. Non si tratta dunque di una attività puramente formale.
Questo livello-base si gioca molto sulla capacità di leadership del dirigente scolastico, sulla piena attivazione del suo staff e di figure intermedie ad hoc, sulla valorizzazione dell’iniziativa dei docenti e sulle buone pratiche già presenti in molte realtà.
L’attività vera e propria di formazione si gioca, invece, a livello territoriale e scaturisce dal basso, infatti:
a) le scuole si aggregano spontaneamente in rete e presentano istanze di finanziamento (coinvolgendo istituti di diverso grado);
b) con i fondi si danno vita a laboratori di ricerca-formazione (4/5 laboratori per ogni rete, coinvolgenti ciascuno dai 15 ai 20 docenti, provenienti dalle scuole associatesi);
c) partecipano volontariamente docenti motivati, che poi si impegnano a svolgere un ruolo attivo nelle scuole di appartenenza;
d) la scelta dei temi di ricerca-formazione avviene a cura delle scuole, su un “paniere” che si riferisce ad aspetti disciplinari e/o trasversali necessariamente da intrecciare;
e) l’attività formativa comprende obbligatoriamente piccole sperimentazioni didattiche che gli insegnanti conducono nelle proprie classi (e che poi verificano e confrontano).
Ogni rete che si candida alla formazione costituisce un gruppo di progetto, rappresentativo delle diverse componenti professionali, che elabora e supervisiona i percorsi formativi. La scelta dei formatori è affidata alle reti stesse. Gli USR possono mettere a disposizione elenchi di formatori/tutor/animatori segnalati da associazioni e/o operanti in progett formativi nazionali e/o locali.
Per ogni docente partecipante si può ipotizzare un impegno formativo di circa 25 ore in un anno (pari ad un credito formativo, simile a quello universitario), comprensivo di momenti in presenza, sperimentazioni in classe, studio e documentazione, con una moderata attività on line.
Le risorse finanziarie a disposizione vengono “spalmate” su gruppi limitati di scuole (ad esempio, si potrebbero assegnare 4.000 euro per una rete standard di 4-5 scuole) per azioni formative di secondo livello, cioè rivolte a gruppi limitati di docenti (ad esempio, un quinto dei docenti appartenenti alle scuole consorziate. Ci si aspetta che un piccolo gruppo di docenti “formati” e fortemente motivati possa rappresentare uno stimolo alla costituzione di una più vasta comunità professionale(4) e quindi fattore di innovazione.
Dunque, per l’a.s. 2013-14, è ipotizzabile l’attivazione di circa 300 reti di scuole su un universo potenziale di circa 1.200 reti. In una ottica di sviluppo pluriennale e con l’arrivo di ulteriori fondi si potrà pensare di coinvolgere progressivamente tutte le scuole, accompagnando quelle che hanno realizzato la prima fase in momenti di ulteriore approfondimento.

La scelta dei contenuti da approfondire

Un piano di carattere nazionale che però rispetta ed interpreta l’autonomia delle scuole non può imporre contenuti prescrittivi. Si tratta però di affrontare le questioni nodali proposte dalle “nuove” Indicazioni, sia nelle sue componenti disciplinari, sia negli aspetti più trasversali (5).
E’ superfluo chiedersi se la precedenza spetti agli uni o agli altri, perché i temi sono strettamente intrecciati: ogni disciplina del curricolo nazionale (sono dieci, senza considerare i cinque campi di esperienza della scuola dell’infanzia) presenta certamente contenuti significativi, repertori di conoscenze e concetti, linguaggi specifici, dispositivi metodologici ed ermeneutici. Per questo le Indicazioni Nazionali sono strutturate per discipline: alcune sono forse più “portanti” di altre (pensiamo al valore veicolare di lingua e matematica), ma ciascuno offre materiali e strumenti per l’educazione al pensare e al comprendere (nel senso “bruneriano” dei termini). Le Indicazioni ne propongono una rivisitazione che accentua il loro valore “formativo”, con una più chiara progressione verticale, con una più sicura definizione dei traguardi e con ragionevoli obiettivi intermedi di apprendimento. Scompare la delimitazione in aree, ma viene confermato il valore didattico dell’aggregazione delle discipline in ambiti, per fare risaltare maggiormente la forza maieutica dell’incontro che avviene a scuola tra ragazzi e saperi(6) .
Ma questa analisi delle discipline (ognuna con le sue continuità e discontinuità) sarebbe monca, se non corroborata dalla riflessione pedagogica tipica della tradizione della nostra scuola di base, oggi in via di ripensamento. Il testo segnala alcuni punti di attenzione, quali il curricolo verticale, la didattica per competenze, l’ambiente di apprendimento, la valutazione “formativa”, elementi capaci di qualificare la nuova proposta didattica, vista nel suo concreto svolgersi in classe. Ma non vanno sottaciute le questioni di (s)fondo: l’attenzione ai soggetti (alle persone), l’approccio interculturale, la dimensione dell’inclusione, la costruzione della cittadinanza.
Un percorso formativo appropriato, e le note ministeriali insistono su questo, può avere indifferentemente un focus sulle discipline o su temi trasversali, ma ciascun ambito dovrà intrecciarsi con l’altro, proprio per segnalarne la stretta interdipendenza. All’atto di progettare i corsi sarà infatti necessario “toccare” contemporaneamente temi disciplinari e trasversali: se ad esempio una rete intende specializzarsi e fare ricerca sulla “matematica” dovrà leggerla alla luce di qualche risvolto pedagogico significativo (es. la verticalità, la gestione della classe, la didattica per competenze, ecc.) e viceversa.

La regia a livello regionale?

La regia complessiva dell’intera operazione avviene a livello regionale. Spetta all’Ufficio Scolastico Regionale (USR) “stendere” le reti e favorire la realizzazione delle attività formative, anche grazie all’apporto di un apposito staff operativo che dovrebbe rappresentare le diverse istanze (dirigenti, insegnanti, ispettori, associazioni, università).
Ogni USR usufruisce di una quota del budget (non superiore al 15% di quello assegnato) per sviluppare azioni di supporto formativo verso le scuole, in una duplice direzione:
a) seminari brevi per dirigenti, circa i loro compiti nelle misure di accompagnamento, ed i nodi pedagogici, disciplinari ed organizzativi delle Indicazioni/2012;
b) seminari di approfondimento per formatori/tutor/animatori dei laboratori, prevalentemente di carattere disciplinare e pluridisciplinare;
Le azioni regionali dovranno garantire la “tenuta” delle azioni informative curate ordinariamente dalla scuola. A tal fine sono programmate conferenze di servizio territoriali per dirigenti, a fine settembre, in vista della predisposizione delle richieste da parte delle scuole (ottobre 2013).
E’ previsto ai vari livelli (nazionale, regionale, di rete) la collaborazione delle associazioni professionali e disciplinari. Si auspica inoltre il coinvolgimento di enti locali e università, anche per aumentare il budget delle risorse disponibili per la formazione.

Qualcosa in più di una speranza

Siamo tutti consapevoli che non bastano le “nuove” Indicazioni, né una “stagione” (più o meno consistente) di formazione in servizio per risolvere i molteplici problemi che coinvolgono la nostra scuola di base, con rischi di involuzione e impoverimento, a fronte delle grandi tradizioni pedagogiche e del credito sociale di cui ancora dispone (7).
Quella delle Indicazioni è però un’occasione imperdibile per riaffermare il valore e la funzione delle formazione di base, per tutti gli allievi dai 3 ai 14 anni, per aggiornarne i riferimenti culturali e sociali, per adattare metodi e strumentazioni didattiche alle nuove condizioni dell’infanzia e dell’adolescenza.

1 – Atti in fase di emanazione (agosto 2013).
2 – La composizione del comitato scientifico, le prime iniziative sviluppate, i documenti di interesse per la scuola sono contenuti in uno specifico spazio web reperibile nel sito del Miur, con un autonomo indirizzo: www.indicazioninazionali.it
3 – Un’analisi delle dichiarazioni programmatiche del Ministro M.C.Carrozza di fronte al Parlamento è compiuta da G.Cerini in
http://www.scuolaoggimagazine.org/argomenti/archivio/politicamente-corretto . Di interesse anche l’intervento del Ministro alla “Summer School” di Ischia (NA) il 27-7-2013.
Cfr: http://www.notiziedellascuola.it/news/2013/luglio/la-sfida-di-maria-chiara-carrozza

4 – M.Orsi (a cura di), La comunità che fa crescere la scuola, Tecnodid, Napoli, 2013.
5 – G.Cerini (a cura di), Le nuove Indicazioni per il curricolo verticale, Maggioli, Rimini, 2013. Un dizionario delle parole-chiave delle Indicazioni/2012 è presentato in G.Cerini (a cura di), Passa…parola. Chiavi di lettura delle Indicazioni 2012, Homeless Book, Faenza (RA), 2012.
6 – Un’analisi delle discipline presenti nelle Indicazioni è contenuta in S.Loiero-M.Spinosi, Fare scuola con le Indicazioni, Giunti-Tecnodid, Firenze-Napoli, 2012.
7 – M.G.Dutto, Acqua alle funi. Per una ripartenza della scuola italiana, Vita e Pensiero, Milano, 2013.