Latest Posts

“Quella legge non è da buttare”, di Francesca Izzo

Su questioni come la violenza contro le donne e i femminicidi, i toni netti e trancianti non sono certo i più adeguati. E questo vale anche per il giudizio sull’attuale decreto governativo all’esame del Parlamento. Il movimento Snoq, molto responsabilmente, non lo ha osannato alla sua uscita e non lo rigetta ora che inizia il suo iter parlamentare. È in corso al suo interno, come racconta l’Unità del 26 agosto, una discussione vivace e non potrebbe essere diversamente, trattandosi di un movimento articolato, composito, plurale. Ma alcuni punti fermi mi pare utile richiamarli. La lotta alla violenza è sempre stata una priorità nell’azione di Snoq, un’azione che mira a modificare la cultura e le modalità con le quali combatterla.

Quando, in un clima di rassegnazione dell’opinione pubblica, lanciammo l’appello Mai più complici nel maggio 2012, (contribuendo a diffondere la parola femminicidio nel linguaggio dei media e ottenendo un larghissimo sostegno di donne e uomini) volevamo che tutti comprendessero che i femminicidi e la diffusa violenza contro le donne non erano frutto di una loro antica e permanente debolezza ma il segno della crisi dell’ordine patriarcale e della difficoltà di tanti, troppi uomini a riconoscere ed accettare la libertà femminile, nel privato come nel pubblico. Snoq ha detto perciò, da subito, che la violenza contro le donne è un problema degli uomini ed un problema politico di prima grandezza. Non si tratta di una questione sociale, culturale o educativa ma politica perché tocca i rapporti tra donne e uomini e come tale va affrontata, investendo politicamente tutti gli ambiti in cui si manifesta e chiamando gli uomini, nel privato come nel pubblico, a risponderne.

Per cambiare le mentalità occorre dunque tenere strettamente connessi cultura, diritto, leggi, perché le norme sono anch’esse cultura e perché gli interventi istituzionali segnalano che la violenza contro le donne diventa un problema dello Stato, ovvero un problema politico generale.

La campagna di Snoq, insieme a quelle di gruppi e associazioni,di singole ha avuto effetti diffusi in tutti i campi, dai media al Parlamento, dal teatro alle scuole. Fino al decreto legge del governo, oggetto in questi giorni di pubblico dibattito. Si dice da più parti che il decreto in sé non va bene, tradisce una logica emergenziale mentre gli interventi contro la violenza devono essere «strutturali». Un governo, come è noto, se vuole intervenire, ha a disposizione solo i decreti-leggi che devono poi passare al vaglio dei due rami del Parlamento (a meno che non ponga la fiducia). Dunque questo governo se voleva mostrare la sua attenzione e disponibilità a fare la sua parte in questo campo non aveva altro mezzo che un decreto. Quindi si tratta di valutarne il merito, fermo restando che il Parlamento avrà tutte le risorse per modificarlo e migliorarlo, anche con il supporto di un largo movimento di opinione, come si sta profilando con le audizioni già previste.

Venendo al merito, il decreto presenta alcune novità, a mio avviso, positive, mentre ci sono mancanze che allarmano. Innanzitutto esso non solo costituisce un primo serio riconoscimento istituzionale della gravità degli atti di violenza compiuti contro le donne, ma ne specifica la natura domestica. Se ricordiamo quanta resistenza è stata opposta nella scorsa legislatura alla ratifica della Convenzione di Istanbul proprio in ragione della presenza del reato di violenza domestica, si comprende il salto di qualità politico compiuto. Per non dire delle misure che prevedono l’allontanamento dell’autore della violenza, insomma uscirebbe di casa lui mentre ora è costretta lei a cercare rifugio fuori di casa. I centri antiviolenza vanno sostenuti ed adeguatamente finanziati, ma dobbiamo sapere che non sono presenti in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale, e se non interviene un impegno del pubblico non pare possibile assicurare alle donne, a tutte le donne che ne hanno bisogno, assistenza e protezione. Dubbi sono stati avanzati circa gli inasprimenti delle pene connessi alle nuove misure.

Il punto è che servono ancora norme per dire che una donna non può morire presa a calci in un tinello e riconoscerlo può essere molto doloroso per tutte, ma è necessario chiamare in causa anche il codice penale se vogliamo affermare che quella donna è una persona e che polizia e magistratura devono adeguare le loro azioni e i loro giudizi.

Altri punti significativi come la testimonianza in modalità protetta; assistenza legale gratuita per la donna offesa; la formazione degli operatori o il sostegno alle immigrate vittime di violenza mi fanno ritenere che ci sia bisogno intorno a questo dl di una discussione, nel Parlamento e tra una vasta opinione pubblica, priva di pregiudizi intorno alle questioni controverse, come la querela non ritrattabile, e capace di affrontare i nodi lasciati insoluti. Come tutto il capitolo della prevenzione del tutto assente. Infatti essa deve riguardare l’indispensabile protezione delle vittime ma deve farsi carico anche degli uomini violenti sul piano della prevenzione, rieducazione e repressione altrimenti cambierà molto poco nelle nostre vite. Inoltre va assolutamente diradata la nebulosità in cui è lasciata la copertura finanziaria necessaria a far fronte non solo alle innovazioni previste, ma anche a quelle che bisogna introdurre.

L’Unità 28.08.13

“Precari, entrano 43mila”, di Massimo Franchi

Da una parte la platea, dall’altra i posti realmente a disposizione. Da ieri sappiamo che dei 150mila precari della pubblica amministrazione (esclusi i comparti scuola e sicurezza), solo 96mila sono stabilizzabili: quelli con contratti a tempo determinato, sommando agli 86mila certificati dall’ultimo Conto annuale della Ragioneria generale del 2011 i circa 10mila medici «scoperti» nel frattempo. Di questi però un buon 40 per cento non ha l’altro requisito richiesto: tre anni di contratto nell’ultimo quinquiennio. I posti a concorso per l’anno in corso (ben pochi) e per il 2014 saranno invece non più di 12.400. Cifra che crescerà fino a quota 14.200 nel 2015 e a 17.200 nel 2016. Per un totale definitivo di 43.800 stabilizzazioni in tre anni.

BANDI SOLO CON CONTI IN REGOLA
Nelle 24 pagine di decreto legge licenziato lunedì dal Consiglio dei ministri le pagine dedicate ai precari della pubblica amministrazione sono ben quattro. Ma per rispondere alla domanda delle domande, «quanti precari verranno stabilizzati?», bisogna armarsi di altre leggi e, soprattutto, di calcolatrice. È il comma 6 dell’articolo 4 (Disposizioni urgenti in tema di immissioni in servizio) a stabilire i paletti per le singole «amministrazioni pubbliche » perché possano «bandire procedure concorsuali per assunzioni a tempo indeterminato di personale» «in misure non superiore al 50 per cento». Nello stesso comma si fa però riferimento al «rispetto alla legislazione vigente». Si tratta delle norme sul blocco del turnover che prevede quante persone possono essere assunte rispetto a quante sono andate in pensione. In modo indipendente dalla spending review, che prevede un taglio del 10 per cento dei posti in organico, la normativa non è unica. Per quanto riguarda gli enti centrali (ministeri, enti di ricerca, università) la quota di posti rispetto al turnover è del 20 per cento per il 2014, sale al 50% nel 2015 e si completa al 100% nel 2016. Per gli enti locali e sanità invece la quota è del 40 per cento ed è fissa fino al 2016. Escludendo scuola e sicurezza, i lavoratori degli enti centrali sono 300mila, quelli degli enti locali e sanità sono 1,4 milioni. Con un turnover medio del 4 per cento i numeri per le stabilizzazioni, tenendo conto della quota prevista del 50 per cento, sono quelli indicati all’inizio. Si tratta comunque di previsioni ottimistiche. Perché non tengono conto del comma 3 dello stesso articolo. Quello che premette come le amministrazioni potranno bandire concorsi solo «verificata l’assenza di graduatorie vigenti approvate dal 1 gennaio 2008». In pratica, la precedenza viene data (giustamente) ai vincitori di concorso. Ma nessuna sa quantificare quanti siano. L’altro vincolo riguarda la possibilità di bandire concorsi solo per le amministrazioni in ordine con i conti: sono escluse sicuramente, causa Spending review, tutte le Province e almeno 2mila dei 9mila Comuni italiani. Un grande punto di domanda riguarda poi quel 40 per cento circa di lavoratori a tempo determinato che non hanno conseguito i tre anni di anzianità nell’ultimo quinquennio. La loro ancora di salvezza sta nel comma 9: la possibilità per le amministrazioni di prorogare i loro contratti. Ma anche qui il paletto è stretto: servono «almeno tre anni di servizio alle proprie dipendenze». Senza vincoli temporali e di contratto, ma sempre tre anni. E con la solita spada di Damocle dei conti in ordine per le loro amministrazioni.

L’Unità 28.08.13

“Quei laureati troppo bravi per lavorare”, di Chiara Saraceno

Nell’Italia dei paradossi ci siamo spesso sentiti dire, da datori di lavoro e ministri, che una delle cause della disoccupazione giovanile è il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, unita alla scarsa disponibilità per i lavori manuali. Le storie raccontate qui offrono un’altra prospettiva: pur di lavorare, molti giovani laureati sarebbero disposti anche a fare lavori ampiamente al di sotto delle proprie competenze. Ma per essere presi in considerazione devono nascondere di avere studiato. In un mercato del lavoro come quello italiano, ove la domanda di lavoro qualificato è contenuta e gran parte di proprietari e manager non ha la laurea, un lavoratore italiano sovraqualificato è un potenziale pericolo. Non tanto perché potrebbe andarsene presto (vista la propensione dei datori di lavoro per i contratti a termine e l’assenza di investimenti negli occupati con le mansioni più basse, questa sembra proprio una
preoccupazione risibile).
Eneppure perché si tratterebbe di uno spreco sociale. Piuttosto, perché con le loro aspirazioni e la loro cultura potrebbero creare disturbo in organizzazioni del lavoro e sistemi produttivi incapaci di innovare e immobili.
In altri termini, la disoccupazione e sotto-occupazione dei laureati in Italia è dovuta alla scarsità della domanda in un sistema produttivo e amministrativo che — anche nel settore pubblico ed anche ai livelli medio alti del management — è largamente controllato da persone con livelli di istruzione medio-bassa, poco capaci di valorizzare e investire nel capitale umano. Ne vediamo i risultati sul piano della scarsa efficienza della nostra pubblica amministrazione e nella ridotta competitività di larga parte delle nostre aziende.
La scoraggiante esperienza dei laureati che, per lavorare, devono presentare un profilo più dimesso, meno qualificato, tuttavia, non deve indurre a generalizzazioni. In primo luogo, è una esperienza che, non solo da oggi, riguarda più le donne degli uomini, in base all’idea, condivisa da molti datori di lavoro, che le donne vadano tenute ai gradini più bassi della scala occupazionale. In secondo luogo, riguarda più alcune lauree — giuridiche, psicologiche, letterarie e geo-biologiche — di altre. Si tratta, per altro, di quelle più femminilizzate. In questo caso si può parlare di forme di mismatch, non rispetto ai lavori poco qualificati, ma a quelli qualificati richiesti dal mercato. Anche se la sotto-occupazione dei geologi e dei biologi in un Paese in cui ogni pioggia minaccia un disastro ecologico e in cui ci sono elevati rischi di inquinamento ambientale interroga più la domanda che non l’offerta di lavoro. Interroga più in generale l’insipienza di un Paese che spreca le proprie risorse vivendo alla giornata senza alcuna preoccupazione per il futuro. Analogamente, lo stato di abbandono e sotto-valorizzazione in cui si trovano i beni culturali suggerisce che ci saranno, forse, troppi laureati in lettere, ma ci sarebbe bisogno di un’iniezione di professionisti di vario tipo per la manutenzione e la valorizzazione del patrimonio artistico. Infine, nonostante dal 2008 il vantaggio si sia ridotto sensibilmente, i laureati continuano a trovare più facilmente lavoro — anche se non sempre aderente alla loro preparazione — dei non laureati e a guadagnare di più nel mediolungo periodo. In altri termini, sono svantaggiati nel mercato del lavoro poco qualificato, dove devono nascondere di avere una laurea. Ma continuano a godere di vantaggi nel mercato del lavoro nel suo complesso, per quanto questo sia asfittico, non molto qualificato e premi più i titoli formali che non le competenze ed esperienze specifiche.
È certo umiliante dover nascondere di aver studiato per poter fare un lavoro che non richiede qualifiche. Mi sembra tuttavia più scoraggiante doversi adattare a fare lavori poco qualificati nonostante anni di impegno nello studio. Non si tratta di essere
choosy, ma di non sprecare risorse individuali, e anche collettive. Tanto più che in Italia, Paese in cui l’origine tende anche a diventare un destino, avere un curriculum professionale non standard, non “coerente”, non è considerato un possibile vantaggio, il segno di capacità di iniziativa, di ricerca di autonomia, di voglia di apprendimento extracurriculare. Al contrario, dopo aver dovuto nascondere di avere una laurea per essere assunto come operaio o addetto ad un call center, ci si può trovare nella necessità di dover nascondere di aver fatto questi lavori per poter essere presi in considerazione per un lavoro “da laureato”.

La Repubblica 28.08.13

******

“Curriculum “leggero” per un impiego da segretaria o un ingaggio in un call-center: quando la laurea è una zavorra, meglio nasconderla”, di Corrado Zunino

Raffaella si è laureata in criminologia nel 2011. Da due anni cerca lavoro custodendo nello zaino due curricula: nel primo ha scritto tutte le sue qualifiche, nell’altro appare solo diplomata. Marta, laureata nel 2007 e con un master in didattica museale, racconta: «L’ultimo lavoro sfiorato è di pochi mesi fa. Ho risposto a un annuncio, una scuola di design cercava una segretaria. Contratto di due mesi, passando per un’agenzia interinale, e poi un anno direttamente assunta dalla scuola. Requisito fondamentale: un’ottima conoscenza dell’inglese. Ho superato tutti i test e alla fine mi sono sentita dire che non andavo bene perché avevo una laurea e un master». Nel successivo annuncio la scuola di design ha pubblicato la stessa richiesta specificando in calce: “No laurea”.
Non solo non è più un ascensore sociale, il diploma di laurea. Sta anche diventando un problema, una zavorra, un risultato da nascondere. «Sei troppo qualificato» è uno stucchevole mantra che gli uffici del personale regalano ai candidati.

Molte, troppe aziende italiane soffrono i candidati con studi superiori alle posizioni offerte. Chi cerca occupazione, allora, li nasconde e presenta curriculum vitae su misura: in alcuni casi la laurea è specificata, più spesso appare solo il diploma, a volte è sufficiente segnalare “esame di Stato di terza media”.
Già, nell’Italia della precarietà il lavoro che si offre è sempre più dequalificato: rispondere al telefono di un call center, occuparsi degli scaffali e della cassa nei supermercati, assolvere compiti di segreteria pura (ricevere telefonate, imbustare e inviare lettere, annotare appuntamenti, rispondere a email: basta una conoscenza di base del linguaggio dei computer per tutto questo). Imprese dove quattro titolari ogni dieci hanno la terza media (fonte Almalaurea) hanno sempre più bisogno di manovalanza e sempre meno di pensiero e conoscenza. In questo contesto la laurea diventa solo un ostacolo. Un manager laureato, dicono ancora le ricerche, assume laureati tre volte di più rispetto a un manager senza titolo.
Raffaella, dicevamo. La criminologa dal doppio curriculum racconta: «Mi sono sentita più volte ripetere: “Ma perché lei vuole lavorare da noi? Ha una scheda troppo qualificata, noi cerchiamo solo un’impiegata” » . Graziano Gorla, segretario generale della Camera del lavoro di Milano, allarga la singola storia e conferma: «C’è chi viaggia con tre brochure: una descrive la laurea ed è ricca di dettagli, un’altra è l’esposizione secca del diploma, la terza è umile e breve e accompagna la licenza media». Marta, la museale, ha creato
Meglio choosy che male accompagnati, blog per “l’espiazione catartica di una disoccuprecaria come tante”. L’ha scovata il mensile Terredimezzo.
Il blog è dedicato all’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, capace di dire alla generazione Marta: «I giovani quando escono da scuola devono trovare un’occupazione, ma non devono essere troppo choosy (schizzinosi, sì)». Sostiene ora la blogger: «In Italia non c’è più la possibilità di entrare in un’azienda da segretaria e diventarne il direttore».
Alberto Guariso, avvocato del lavoro, spiega che la laurea nascosta, meglio definita “curriculum alleggerito”, è un fenomeno in crescita. «C’è un preconcetto diffuso nel mercato del lavoro italiano, e cioè
che non si può avere un impiego di profilo più basso rispetto ai propri studi. Un preconcetto che non vale nel caso degli stranieri ». Laureati nel loro Paese d’origine, in Italia gli stranieri vengono assunti come manovali senza remore. Daniel Zanda, segretario generale della Federazione dei lavoratori atipici di Cisl Lombardia, dice ancora: «I datori di lavoro temono che l’iperqualificato, o semplicemente il laureato che cerca il lavoro, sia demotivato da un lavoro non in linea con le sue speranze e quindi poco produttivo. C’è sempre il rischio che appena trova qualcosa di meglio se ne vada».
L’argomento è così moderno da non avere ancora una quantificazione statistica. Ci sono alcuni elementi, però, che fanno comprendere quali sono i presupposti alla base del fenomeno sociale del “troppo qualificato”, ultima deriva della precarietà strutturale italiana. Nel 2011 l’Istat ha condotto un’indagine tra i laureati del 2007 ed è emerso che il 71,5 per cento in quattro anni aveva trovato un lavoro, tuttavia il 31 per cento di questi non aveva un impiego corrispondente alle conoscenze acquisite in università. I più penalizzati, da questo punto di vista, erano i laureati nelle facoltà umanistiche. La responsabile dello sportello Informagiovani di Cremona, Maria Carmen Russo, dettaglia: «Chi è costretto a cancellare i titoli sono soprattutto le donne con una laurea in Lettere, Sociologia, Comunicazione, Scienze politiche». Donne laureate in facoltà umanistiche. In un blog sul Fatto quotidiano si legge questa testimonianza: «Pochi giorni fa in uno sportello lavoro della mia città mi hanno suggerito di omettere la laurea in Scienze politiche, quella presa con il vecchio ordinamento, quella tanto sudata e che è stato motivo d’orgoglio per miei genitori e per me prima ancora. Mi hanno spiegato con tono affabile e pacato che per trovare lavoro sarebbe meglio omettere percorsi formativi così elevati. L’ho trovato offensivo». Il Venerdì di Repubblica ha invece raccontato la storia di Mattia, 30 anni, di Cremona. Dopo il liceo scientifico Mattia ha frequentato l’Università a Milano e nel 2006 si è laureato in Lettere. Da allora ha avuto collaborazioni brevi con biblioteche, teatri e musei, mai un contratto. Così Mattia ha rinunciato a quello che sapeva fare e ha cercato un posto da operaio in un’azienda dolciaria. Dove è stato scartato perché ritenuto “troppo qualificato”. Ora Mattia è alla ricerca di un lavoro con i soliti due curricula: uno presenta l’indicazione della laurea, l’altro la omette. Il consiglio della doppia presentazione, a Mattia, lo ha dato l’Infor-magiovani locale.
Se un laureato in Comunicazione aziendale viene coinvolto nel crac dell’azienda, l’espulsione dal mercato del lavoro è automatica. Oltre a un’età non più giovane, il laureato ha quel marchio: “Troppo qualificato”. Racconta Stefano, operaio a tempo indeterminato, il diploma in tasca: «Vedo più nero per i giovani laureati che per quelli che abbandonano gli studi dopo le medie». Sui blog dei precari, Idoneo curioso offre questi consigli: «Sono laureato in Giurisprudenza, ma se anche voi siete laureati non andate in un’agenzia interinale a cercare lavori degni dei vostri studi. Lì cercano solo lavori di manovalanza e se dite di essere laureati non vi chiamano perché siete troppo qualificati. Ora faccio il magazziniere: sono entrato tramite agenzia nascondendo la mia laurea». Un altro, anonimo: «Se sei laureato devi accettare lavori sottopagati: io ho preso la laurea a 27 anni, ho fatto un master e non so quanti colloqui. Oggi ne ho quasi 40 e da sette faccio l’operaio. Nella mia azienda nessuno sa che sono laureato». Laureati sotto mentite spoglie. La morale è: «Per lavorare devi dire bugie, se scoprono che sei titolato cominciano a farti pagare il fio del tuo curriculum».
Lo scorso giugno per venti posti da scaricatore al porto di Ortona — 105 i candidati — il bando escludeva “donne e laureati”. Luigi, Giurisprudenza con master, attende il dottorato a Urbino. Lavorava in un call center per 400 euro al mese, lo hanno licenziato: overqualified.
«In questa giungla di agenzie interinali, siti internet,
applications online, assessment, inductions, chi è che ci salverà dallo sconforto?», scrive. «Non ci salverà nessuno. Perché nessuno è più disposto ad assumere lavoratori troppo qualificati. E la spiegazione è semplice: per questa gente iperqualificata, ipereducata, iperistruita, non c’è più posto. In questo miserrimo campo di guerra, a cadere non è l’incapace, bensì il neolaureato.
Overqualified.
Perché di base ambizioso, e quindi potenzialmente temporaneo.
Overqualified.
Perché il posto che ti sto offrendo posso darlo a un qualche analfabeta che posso maltrattare come preferisco: non ha gli strumenti per difendersi e nessun’altra possibilità».

La Repubblica 28.08.143

“Il castigo e l’oblio”, di Barbara Spinelli

Accusato di aver perpetrato un massacro con armi chimiche, mercoledì scorso in due sobborghi di Damasco, e di aver forse bombardato il proprio popolo col gas nervino, il Presidente siriano Bashar al-Assad si è rivolto all’America e ai governi europei con parole sprezzanti,
colme di scherno. Ha ricordato loro i disastri delle recenti guerre contro il terrorismo globale e ha detto: «È vero, le grandi potenze possono condurre le guerre. Ma possono vincerle?» Ecco il dilemma che sta di fronte agli Occidentali, nel momento in cui alzano la voce contro Damasco, denunciano l’»oscenità morale» delle armi chimiche contro cittadini inermi (le parole sono di John Kerry, segretario di Stato), e affilano i coltelli nella convinzione che un intervento punitivo sia a questo punto necessario, dunque legittimo. Il dilemma esiste perché sulle conseguenze di un’offensiva nessuno pare avere idee chiare. Neppure sull’obiettivo c’è per la verità chiarezza, il che inquieta ancor più: in nome di quale disegno aggredire Assad? Ed esistono prove credibili che quest’ultimo abbia usato i gas, oppure Kerry ha dedotto le sue certezze consultando, come ammesso lunedì, i
social network?
È il motivo per cui, anche quando le prove spunteranno (ieri il portavoce di Obama le ha promesse fra breve), non è a una guerra che si pensa in America ma a un gesto simbolico, a un’affermazione di forza. Giusto per dire «Eccoci», e poi andarsene. Evitando, a parole, il cambio di regime
a Damasco. È quanto fa capire l’ex capo di Stato maggiore Usa, Jack Keane, che da mesi preconizza più decisivi interventi ma che li ritiene improbabili. Intervistato dalla Bbc, dopo le parole di Kerry, il generale ha specificato che un semplice segnale castigatore, un
colpo di avvertimento, lascerebbe le cose come stanno. «Il giorno dopo Assad ricomincerà i bombardamenti sulle popolazioni civili, con armi chimiche o senza. I rapporti di forza fra regime e ribelli nella sostanza non muteranno». La coalizione dei volonterosi che Obama sta provando a raggruppare avrà detto la sua, ma l’ultima parola
molto probabilmente non sarà lei ad averla e il controllo su quel che accadrà dopo neppure.
Lo stesso Keane ha detto in passato che la Siria di Assad non è la Libia di Gheddafi. Dispone di armi più sofisticate, le sue truppe di terra e di aria combattono i ribelli con notevole successo da due anni. E ha alleati assai potenti: l’Iran, la Russia, e dietro le quinte la Cina che come sempre sta a guardare, gigante che aspetta infinitamente paziente che l’America si rompa un osso dopo l’altro. Neppure il paragone con il Kosovo è pertinente. È vero, siamo davanti a un disastro umanitario la cui oscenità è evidente. Ma l’osceno avviene per sua natura «fuori scena »: non è visibile come lo fu in Kosovo, e la sicurezza esibita da Kerry è quantomeno labile, per ora.
Gli ispettori dell’Onu sono lì per verificare, come a suo tempo tentarono di verificare in Iraq l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. A un certo punto l’America decise di entrare in guerra comunque, e gli ispettori vennero scaricati senza essere ascoltati. Hans Blix, che guidava il team dell’Onu, non cessa di evocare con amarezza la sordità dell’amministrazione Bush. Si parla di un’operazione simile al Kosovo perché cominciò allora la pratica della coalizione dei volonterosi, architettata sotto la guida di Washington per aggirare il Consiglio di sicurezza Onu e quindi Mosca. Ma Milosevic era già vinto quando scattò l’offensiva, mentre Assad no.
Sabato, sul New York Times, è intervenuto con un articolo singolare lo studioso di storia militare Edward Luttwak, a suo tempo difensore delle guerre antiterroristiche. Oggi scrive che meglio stare a guardare la Siria da fuori, aspettando che i contendenti si scannino a vicenda. Meglio lo stallo, prolungato ma tenuto in stato di continua incandescenza: aiutando massicciamente i ribelli anti-Assad, ma smettendo l’aiuto non appena questi diventino troppo forti e stiano per vincere. Il ragionamento si finge astuto, prudente. In realtà è perverso, e palesemente sprovvisto di ambizione politica. «L’America perde in ambedue i casi», conclude Luttwak. Nessun occidentale, e men che meno Parigi e Londra, ha in questa vicenda ambizioni politiche, oltre che intellegibili obiettivi. E quanto bluffano poi Parigi e Londra? Sarebbero pronte a intervenire senza America e a fianco di Israele, ripetendo la rovinosa spedizione contro Nasser a Suez, che Eisenhower provvidenzialmente bloccò nel ’56?
Questo significa che la Siria è un vespaio prima ancora che scatti l’eventuale attacco euro-americano. La questione morale apertasi con l’uso del sarin è innegabile, ma la catastrofe umanitaria non la si può combattere come la si è combattuta in Kossovo, o peggio in Iraq. E non solo perché mancano prove inoppugnabili che attestino le responsabilità di Assad, non solo perché i più forti, tra i ribelli, sono al momento le milizie di Al Qaeda, e la scelta è tra la peste e il colera. Solo forze di interposizione Onu potrebbero proteggere i civili siriani da nuovi attacchi (sferrati da Assad o dai ribelli) e agire in nome del divieto di ricorrere a armi chimiche. La
coalizione dei volonterosi è incompatibile con la via dell’Onu, e si propone altro. Cosa, precisamente? Forse per questo il ministro Bonino si mostra dubbiosa: «L’Italia non prenderebbe parte a soluzioni militari al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu».
L’analista Yagil Levy, studioso del peso esercitato dai militari nell’edificazione dello Stato israeliano, enumera le tre ragioni per cui la questione morale non può esser risolta da interventi militari (
Haaretz 26-8). In primo luogo perché farebbe un gran numero di vittime e distruggerebbe le infrastrutture del Paese, come già accaduto in Kossovo e Libia. In secondo luogo perché non placherebbe la guerra fra regime e ribelli ma la acuirebbe. Terzo motivo, cruciale: l’intervento tenderebbe a «favorire un cambio di regime artificiale». Dipendente da aiuti esterni, il futuro potere sarebbe senza radici.
La storia delle guerre negli ultimi 14 anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) conferma le inquietudini di Yagil Levy. Nessuna di esse ha creato nuovi ordini stabili, tutte sono finite in pantani diabolicamente gelatinosi, nei quali non si distinguono le persone fidate dalle inaffidabili. I costi in termini di vite umane, una volta sconfitto Gheddafi, sono già oggi enormi: i morti del dopo-guerra sono quasi equivalenti alla metà dei caduti prima dell’uccisione del rais.
Fanno bene le democrazie, fanno bene Parigi e Londra, a indignarsi per l’uso eventuale di gas. Ma l’indignazione morale suona falsa, quando non calcola le conseguenze delle proprie azioni e neanche sa bene chi sia il colpevole. Quando il passato non insegna nulla, e cadono nell’oblio le false prove date da Colin Powell contro Saddam, e sono senza peso le sconfitte cui sono andate incontro le guerre umanitarie lungo gli anni. Non si esportano la democrazia e la stabilità, quando a uno Stato fallimentare si sostituisce uno Stato ancora più sfasciato di prima. Non si esporta neppure la morale, con attacchi simbolici che soddisfano solo l’orgoglio di chi li sferra e non aiutano i veramente minacciati. Se il pericolo in Medio Oriente è la degenerazione siriana, e al tempo stesso il potere esercitato nell’area dall’Iran o da Hezbollah in Libano, se è la fatiscenza del regno giordano, la rigidità di Israele, il ritorno in Egitto di un regime corrotto che si gloria di abbattere nel sangue l’integralismo dei Fratelli musulmani: se tale e cos ì vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà.

La Repubblica 28.08.14

Pd: priorità a scuola, Cig, esodati e crescita

Il segretario nazionale del Partito Democratico, Guglielmo Epifani, ed il responsabile economico del partito, Matteo Colaninno, hanno incontrato questa mattina presso la direzione del Pd i ministri democratici che partecipano al governo Letta, Dario Franceschini, Graziano Del Rio, Flavio Zanonato, Andrea Orlando, Maria Chiara Carrozza, Cécile Kienge, Massimo Bray, il vice ministro Stefano Fassina, il sottosegretario Pier Paolo Baretta e il capogruppo al Senato Luigi Zanda.

Nel corso della riunione, in cui sono stati esaminati i problemi aperti, la situazione economica e sociale del Paese, è emersa con nettezza la necessità di fare ogni sforzo per sostenere la ripresa, per affrontare i problemi sociali più acuti e per mettere particolare attenzione sui temi della scuola, dei costi dell’energia, del turismo, di un allentamento del patto di stabilità dei comuni con l’obiettivo di liberare le risorse per investimenti destinati a rinforzare i segnali di ripresa in questa fase di emergenza.

Per il Partito Democratico le priorità da sostenere, tutte contenute nel programma di governo, riguardano la scuola, il rifinanziamento della Cassa integrazione guadagni, il tema degli esodati. Nel corso della riunione è stato ribadito che in una fase di drammatico calo dei consumi interni sarebbe utile evitare il previsto aumento dell’aliquota Iva.
Il segretario del Pd ed i ministri hanno inoltre convenuto sulla necessità di approntare una riforma in senso federalista dell’imposte locali e sui rifiuti, in una logica di equità e di equilibrio, che eviti ulteriori aggravi sulle imprese.

Il tema del superamento dell’Imu, come previsto dal programma di governo, dovrebbe essere affrontato attraverso soluzioni eque e che siano nel contesto di questa riforma federale.
Nel corso dell’incontro si è infine convenuto che tutte le soluzioni volte ad affrontare le diverse priorità che in questa fase risultano non eludibili andranno tenute in equilibrio rispetto alle risorse finanziarie disponibili o da reperire.

Epifani: “Noi non accettiamo ultimatum, è anche interesse nostro riformare l’Imu ma non c’è solo l’Imu”.

Lasciando la sede del Pdl al termine dell’incontro, il segretario Pd ha aggiunto che oltre al tema dell’Imu “c’è anche il tema degli investimenti nella scuola, c’è la cassa integrazione che va rifinanziata, ci sono gli esodati che non possono essere dimenticati. E in prospettiva ci sono grandi questioni come il costo dell’energia, l’Iva, il cui aumento finirebbe per comprimere ancora di più’ i consumi”.

“C’e’ un certo numero di questioni – ha concluso – che dobbiamo affrontare tenendo conto delle disponibilità finanziarie. Ci sono dei vincoli, bisognerà tenerne conto”.

www.partitodemocratico.it

Damiano: “Con pacchetto PA si va nella giusta direzione”

Varato dal Consiglio dei ministri il pacchetto di misure, un dl e un ddl, per la Pubblica amministrazione. Ad annunciarlo il premier Enrico Letta, che in una conferenza stampa ha elencato i contenuti dei provvedimenti, dalle norme per i precari, con la stabilizzazione e una stretta sulle assunzione future, all’ulteriore taglio del 20% delle auto blu, “una scelta che continua una direzione di marcia sulla quale dobbiamo fare ancora di più”, ha detto il presidente del Consiglio.

Nel pacchetto varato dal governo anche l’assunzione di mille vigili del fuoco, un investimento che segnala “l’attenzione profonda ai problemi del nostro territorio”, l’istituzione dell’Agenzia per la coesione e un rafforzamento della trasparenza e della lotta alla corruzione, con un “intervento importante di razionalizzazione del sistema – ha spiegato il premier – per far sì che ci sia concentrazione e rafforzamento della lotta alla corruzione, della sua prevenzione e della trasparenza attraverso una divisione di competenze” che trasforma la Civit nel “soggetto oggi esclusivamente dedicato alla lotta corruzione”.

Per il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, “la conclusione del Consiglio dei ministri sul temi della Pubblica Amministrazione pare che vada nella giusta direzione. Aspettiamo di leggere il testo del decreto per una valutazione più di merito, ma è positivo già il fatto che si sia finalmente affrontato il problema dei precari e della loro graduale assunzione, evitando in futuro di riprodurre un meccanismo perverso di insicurezza per i lavoratori”.

“Che per quanto riguarda i vincitori di concorso si preveda l’obbligo della loro assunzione, che coinvolgerebbe anche gli idonei dei concorsi più recenti – ha aggiunto -, è anch’esso un passo avanti. In questo modo si cancella il meccanismo della ripetizione dei concorsi per posti già assegnati consentendo anche un risparmio di denaro”.

“Noi confidiamo che il governo continui a occuparsi dei problemi reali del Paese e non dei guai giudiziari di Berlusconi. Per il Partito Democratico sarà prioritario rifinanziare la Cassa integrazione in deroga, correggere il sistema pensionistico e abbassare la pressione fiscale su imprese e lavoro. Si tratta di misure che richiedono coperture finanziarie e, per raggiungere questo obiettivo, sarà anche necessario trovare una soluzione equa sull’Imu che non preveda di togliere questa tassa ai cittadini più ricchi”, ha concluso.

Ecco in sintesi le misure:

PRECARI, RISERVA 50% CONCORSI: è prevista una riserva del 50% dei posti a concorso, fino al 2015, per chi ha avuto un contratto di lavoro a termine per tre anni negli ultimi cinque. Fino al completamento delle procedure concorsuali (non oltre il 2015) sarà possibile prorogare i contratti

AL VIA STRETTA FLESSIBILITA’: nel decreto si limita il ricorso al lavoro flessibile circoscrivendolo a “esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”

ASSUNZIONE VINCITORI CONCORSO: prevista una norma che obbliga ad assumere tutti i vincitori di concorso. In parte questo riguarderà anche gli idonei, ma solo per le graduatorie più recenti. Prorogate al 2015 le attuali graduatorie

NUOVO TAGLIO 20% PER AUTO BLU E CONSULENZE: per auto di servizio e consulenze dal 2014, nelle amministrazioni pubbliche e per le Authority, scatta un tetto di spesa pari all’80% dei costi sostenuti nel 2012, ed è prorogato a fine 2015 il blocco di acquisto o leasing di autovetture

AGENZIA PER LA COESIONE: arriva la nuova Agenziaper “rafforzare l’azione di programmazione, coordinamento, sorveglianza e sostegno della politica di coesione”, per una gestione migliore dei Fondi strutturali Ue che per il ciclo 2014-2020 ammontano a 30 miliardi

ARRIVANO 1.000 VIGILI DEL FUOCO: in arrivo 1000 assunzioni, con una dotazione di circa 75 milioni di euro tra 2013-2015

SISTRI E ILVA: semplificazione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (che riguarderà principalmente i rifiuti pericolosi). Presenti anche alcune norme di dettaglio sull’Ilva, dalla gestione dei rifiuti alle forniture

TESTIMONI GIUSTIZIA ASSUNTI NELLA P.A.: assunzione ”per chiamata diretta nominativa” per i testimoni di giustizia

Il link al sito del governo con i dettagli dei provvedimenti

“Assunzioni, il 27% resta al palo”, di Carlo Forte

Le graduatorie dei concorsi a cattedre che non saranno approvate definitivamente e pubblicate entro la fine del mese non potranno essere utilizzate per le immissioni in ruolo appena autorizzati: 11.268. E quindi, almeno per quest’anno, i vincitori di concorso rimarranno fuori e gli uffici dovranno continuare a scorrere le graduatorie dei concorsi del 2000 e, in alcuni casi, addirittura quelli del 1992.

Secondo quanto risulta a Italia Oggi, il 73% delle procedure concorsuali dovrebbe andare a buon fine entro il 31/08; il 22% rischia di andare fuori perché le prove orali non sono ancora state terminate, mentre il 5% è già matematicamente fuori tempo massimo. I ritardi sono concentrati in massima parte in Toscana e Sicilia. Ciò non vuole dire che i neovincitori rimarranno fuori per sempre. Dal ministero dell’istruzione rassicurano che dovranno attendere solo il prossimo anno. «Rimane comunque garantito per i vincitori del concorso indetto con D.D.G. 82/2012» si legge nell’allegato A della circolare applicativa del decreto sulle immissioni in ruolo «il diritto all’assunzione nel triennio di validità delle relative graduatorie di merito, in base al numero dei posti previsti nell’Allegato 1 del bando». É bene precisare che questa regola si applica però solo ed esclusivamente alle tipologie di posto o di cattedra per le quali le graduatorie del nuovo concorso ordinario non saranno approvate in via definitiva in tempo utile. In tutti gli altri casi il problema non si pone. Perché le nuove graduatorie sostituiranno quelle vecchie e i vincitori dei relativi concorsi andranno in cattedra già dal 1° settembre prossimo. Non tutto è perduto, però, per i vincitori delle selezioni che si sono svolte nelle regioni dove non si riuscirà a concludere in tempo le procedure. Le graduatorie dei nuovi concorsi, infatti, rimarranno in piedi 3 anni (sempre che dopo tre anni venga bandito un nuovo concorso un nuovo concorso, altrimenti la vigenza è sine die). E nei tre anni di vigenza, l’amministrazione garantirà comunque l’assunzione dei vincitori di concorso. Sempre che ci siano autorizzazioni ad assumere. Intendendo per vincitori coloro che, in quanto utilmente collocati in graduatoria, matureranno il diritto di essere immessi in ruolo fino alla concorrenza del numero dei posti o cattedre, che erano stati messi a concorso all’atto dell’emanazione del bando. Non è previsto il recupero per compensazione dalle graduatorie a esaurimento negli anni successivi, perché quest’anno (salvo esaurimento della vecchia graduatoria del concorso di riferimento) le immissioni in ruolo da concorso saranno effettuate comunque scorrendo la vecchia graduatoria (sempre che non sia stata approvata la graduatoria definitiva del nuovo concorso). Per quanto riguarda le procedure di utilizzo delle graduatorie, esse seguiranno la regola generale dell’alternanza. E dunque, il 50% delle immissioni in ruolo sarà effettuato traendo gli aventi titolo mediante lo scorrimento delle graduatorie dei concorsi (vecchie o nuove che siano). Il restante 50% verrà effettuato tramite lo scorrimento delle graduatorie a esaurimento. In sede di individuazione degli aventi titolo all’assunzione e tempo indeterminato, gli uffici dovranno tenere conto delle riserve previste dalla legge 68/99 e delle priorità garantite della legge 104/92. Pertanto, il 50% delle assunzioni dovrà essere destinato agli invalidi e agli orfani per servizio, fino alla concorrenza, rispettivamente, del 7% e dell’1% dell’organico. E dopo avere individuato gli eventi diritto all’assunzione, le amministrazioni dovranno dare la priorità nella scelta della sede agli aspiranti che sono portatori di handicap oppure assistono un parente disabile. In ogni caso, le immissioni in ruolo non potranno essere effettuate sui posti e sulle cattedre dove gli uffici scolastici abbiano disposto l’utilizzazione di docenti in esubero, così come previsto dall’articolo 14, comma 17 del decreto legge 95/2012. A fronte di 25.367 posti in organico di diritto (e di 8095 esuberi), il ministero dell’istruzione attuerà 11.268 assunzioni:1274 saranno disposte nella scuola dell’infanzia (a fronte di 2822 cattedre vacanti e disponibili); 2161 nella scuola primaria (contro 4855 disponibilità e 89 esuberi); 2919 nella secondaria di I grado (7557 disponibilità e 357 esuberi); 3136 nella secondaria di II grado a fronte di 6881 disponibilità e 7445 esuberi); 68 educatori (contro 152 disponibilità e 96 esuberi).
da ItaliaOggi 27.08.13