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“Se la diversità è una vergogna”, di Natalia Aspesi

Un ragazzino si uccide, come hanno fatto altri, perché omosessuale, perché emarginato e schernito dai compagni in quanto omosessuale, perché non sa come dirlo ai suoi genitori che immagina non lo capirebbero.
Perché alla fine nel mondo, anche nel suo mondo di riferimento adolescenziale, i gay sono sempre di più: belli, celebri, accettati, capiti, amati, venerati, stilisti e registi, cantanti e attori, nuotatori e tennisti, calciatori e politici. Una élite che vive in un contesto privilegiato dove contano le persone e non le loro preferenze sessuali: persone che sono se stesse, che non si nascondono, che vivono in coppia, che fuori dall’Italia si sposano e adottano figli.
Questi modelli vincenti non sono di aiuto, non danno accettazione e sicurezza a un ragazzino che si immagina diverso, o teme di esserlo: e che si sente troppo lontano da quelle figure irraggiungibili che lo fanno sentire un escluso, colpevole di una diversità senza via d’uscita, senza luce, senza amore, senza riconoscimento, nel suo ambiente quotidiano: una diversità imperdonabile, vergognosa, che non si può né nascondere né mostrare, né vivere serenamente, come capita nel vasto mondo dei gay che hanno successo malgrado siano gay o proprio perché gay, o perché non ha nessuna importanza che siano gay.. Ma se hai 14 anni, e vivi in una borgata dove le scritte sui muri sono di rabbia razzista contro tutto e tutti, quindi anche contro gli omosessuali, se gli insegnanti non si accorgono del capro espiatorio della classe, la ragazzina brutta, il ciccione, il nero, quella che subisce le molestie sessuali, il ragazzo con i modi e la voce gentile e le unghie pulite, che non fa a cazzotti e che dunque esce dalla normalità del crudele, vecchio, rozzo immaginario macho, dei giovanissimi ancora più che degli adulti, allora puoi sentirti perduto: un mostro che non ha diritto di esistere. Le leggi non impediscono i reati, ma li rendono tali, non cambiano i cervelli ignoranti e violenti, ma possono spaventarli, e metterli davanti al fatto che perseguitare un gay, con le parole o coi fatti, è un’aggravante che porta diritto in galera. La discussione chiacchierona e inutilmente protratta con ogni tipo di cavillo e filosofia, su una legge antiomofobia, si è interrotta il 5 agosto causa vacanze, e riprenderà in settembre. Nel frattempo si spera che altri gay non si ammazzino. E sì che non ci vogliono tanti pensieri,
perché basterebbe aggiungere alla legge che già considera un’aggravante la violenza fisica perpetrata per motivi di razza, etnia, religione, solo un paio di parole, “e per odio omofobico e transfobico”. Naturalmente tutti la vogliono questa legge, con cautela però, per non impensierire quell’elettorato che non ce l’avrebbe con quelli che chiama diversi o froci, se però se ne stessero in disparte, senza pretendere una particolare difesa, e soprattutto non aspirassero a quella cosa che fa rizzare i capelli in testa anche a parecchi politici, addirittura il matrimonio e l’adozione, o anche solo i patti civili di convivenza. Quando in parlamento un cosiddetto onorevole, il leghista Buonanno, parla di lobby sodomita, ha le sue ragioni, perché si assicura qualche voto, e magari non solo leghista. Resta da chiedersi se basterebbero queste leggi, in Italia, per impedire a un ragazzino che teme di non essere quello che si vantano di essere gli altri, come se fosse merito loro, di buttarsi da un terrazzo, nel vuoto del disamore e dell’indifferenza degli altri, della sua fragilità e infelicità vissuta nel silenzio e nella solitudine.

La Repubblica 12.08.13