attualità, lavoro

“Il ragazzino-imprenditore che dà spazio ai talenti”, di Riccardo Luna

Davide Dattoli ha 22 anni. Te lo devi ripetere mentre ti racconta cosa è stato capace di combinare finora. Un’agenzia per gestire i social media, un’app per aiutare le famiglie ad assolvere ai tanti impegni, e soprattutto Talent Garden (Tag), una catena di spazi dove i giovani di talento vanno per costruirsi un futuro. In un anno ne ha aperti per un totale di 400 ragazzi tondi tondi. Davide Dattoli ha 22 anni. Te lo devi ripetere mentre ti racconta cosa è stato capace di combinare finora. Un’agenzia per gestire i social media, una app di discreto successo per aiutare le famiglie ad assolvere ai tanti impegni, e soprattutto Talent Garden, ovvero Tag, una catena di spazi dove i ragazzi di talento vanno per costruirsi un futuro. In un anno ne ha aperti sette (il primo a Brescia, poi a Bergamo, Padova, Milano, Torino, Pisa e Genova da settembre) per un totale di 5500 metri quadri e 400 ragazzi tondi tondi. Quattrocento ragazzi ottimisti, concreti e iperattivi come lui che dichiara candidamente: «Non è vero che per noi giovani oggi non ci siano opportunità. Basta sapersele creare ». Altri Tag sono imminenti: uno al Sud, uno poi forse addirittura a Bruxelles. Ecco: Davide Dattoli ha solo 22 anni, ma fra qualche giorno ne compie 23. E presto la sua storia apparirà meno incredibile, forse.
In principio era un nerd. In italiano lo tradurremmo «uno smanettone», ma non rende l’idea. Il nerd lo riconosci da due cose soprattutto: è un appassionato di computer e ha gli occhiali con la montatura grande, nera e squadrata. Davide Dattoli la usa ancora, naturalmente. A 16 anni frequentava un liceo scientifico di Brescia, un buon liceo. Ma soprattutto frequentava Facebook. «Era il 2006 e in Italia Facebook non lo usava ancora quasi nessuno ». Dattoli non si limitava ad usarlo: lo studiava: «Notai che negli Usa tante grandi aziende iniziavano a sfruttarlo per fare marketing, creando delle pagine dedicate. E pensai che poteva essere una buona idea farlo in Italia ». Il primo test lo fece in casa: creò la pagina Facebook del ristorante dei genitori, il “Castello Malvezzi” di Brescia, un post dove i bresciani vanno per comunioni, compleanni e matrimoni soprattutto. «Sulla pagina che avevo aperto invece di raccontare del cibo, parlavo delle storie delle persone. Raccontavo i festeggiamenti, il momento in cui lo sposo aveva chiesto alla sposa di dire di sì, le candeline di una torta. Era il lato umano del nostro ristorante e la cosa funzionò: iniziarono a mandarci le foto di matrimoni di trenta anni prima perché le pubblicassimo». Di lì l’idea di costituire, a 18 anni, una società che offrisse alle aziende campagne su Facebook, Viral Farm. «Avevamo tantissimi clienti, anche importanti, e il fatturato fu subito importante tanto che arrivammo a 12 dipendenti, ma fu in sostanza un fallimento. Tra noi soci fondatori non c’era accordo su nulla e dopo un anno ci separammo. Una bella lezione».
A vent’anni, dopo essersi iscritto alla facoltà di Economia di Castellanza e aver lanciato la app Save The Mom, Dattoli è ripartito dal coworking. Nel 2010 in Italia era un territorio ancora quasi inesplorato per questa tendenza che viene da San Francisco. Lui la vede così: «Quando si parla di coworking, si pone l’accento sulla condivisione dello spazio fra le persone come se fosse questo il vero valore aggiunto. Quando in realtà il valore aggiunto sono le persone e i loro talenti». Talenti è la parola chiave del suo progetto che si chiama appunto Talent Garden, giardino di talenti. Tra tutti i talenti, Dattoli cerca solo quelli con la passione per il web in modo che fra di loro possano crearsi interazioni, opportunità: «Un web designer e un web developer non sono in competizione, anzi, lavorando assieme fanno progetti migliori ». Ma chi lo stabilisce che uno è un talento? «La community. Quando uno vuole entrare in Tag si presenta a chi già ne fa parte spiegando in cinque minuti esatti cosa fa e cosa vuole fare. E la community vota. Se la domanda viene accettata, il nuovo ammesso pagherà un contributo mensile massimo di 250 euro». Tutto compreso, in testa banda larga e wi-fi a manetta.
Il primo Tag ha aperto a Brescia, grazie alla partnership con Il Giornale di Brescia
dopo che il Comune aveva rifiutato di sostenere il progetto. «L’editore ci ha dato ad un prezzo conveniente uno spazio che si era liberato a causa della crisi dell’editoria. Noi lo abbiamo trasformato in un Tag». Con quel primo successo alle spalle, Dattoli si è messo a girare l’Italia per spargere “il verbo”. E, complice anche il momento di crisi, la cosa si sta diffondendo ad una velocità incredibile. «Il modello è questo: qualcuno in una città decide di aprire un Tag, troviamo assieme uno spazio adatto, un partner locale che di solito non viene dal digitale, che ha una lunga esperienza imprenditoriale alle spalle e che ha deciso di restituire qualcosa ai giovani in una logica di give back, e partiamo». Una delle cose stupefacenti del progetto è questa alleanza fra giovani digitali ed esperti analogici, come la famiglia Ferretti a Bergamo, o Alfredo Cazzola, già patron del MotorShow e di Smau, che a Milano ha messo a disposizione un grande edificio vicino alla stazione centrale e partecipa al Tag più grande. Nel caso di uno come Dattoli viene proprio da dire che il meglio deve ancora venire. Lui intanto quando si guarda attorno e vede un mondo di giovani disoccupati e spesso rassegnati, i Neet (in inglese, not in education, employment or training: i giovani che hanno rinunciato a studiare e a cercare lavoro), dice: «Se io sto tutti i giorni in un ambiente dove mi dicono che non ho speranze certo che mi rassegno. Ma se mi circondo di ragazzi pieni di idee che stanno provando a realizzare, cambia tutto». Basta poco.

La Repubblica 06.08.13