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“In gioco il destino della sinistra”, di Claudio Sardo

Nonostante sia arrivato il caldo torrido, è tempo di decisioni strategiche per i tre partiti antagonisti attorno ai quali ruota il nostro (malato) sistema politico. Il Pd – il solo ad accettare la definizione costituzionale di partito – deve scegliere su quale strada avviare il proprio congresso: peserà questa scelta, eccome, sul destino della legislatura, sulla ricostruzione (o l’ulteriore sfilacciamento) del tessuto democratico, sul progetto di governo futuro. Il Pdl deve affrontare lo scoglio della sentenza della Cassazione: un giudizio favorevole a Berlusconi potrebbe forse regalare un altro rinvio; una condanna invece porrebbe la destra di fronte al dilemma irrisolto che riguarda la sua stessa natura. È una forza democratica che può pensarsi oltre il suo fondatore o è un partito patrimoniale, che rientra nella holding di famiglia e non ha altra funzione che presidiare gli interessi del padrone?

Ma anche il Movimento cinque stelle è a un bivio. Il diktat di Casaleggio – «mai con il Pd» – non aggiunge molto alla politica seguita da Grillo contro il tentativo di Bersani, al fine di rendere inevitabile la maggioranza Pd-Pdl. Tuttavia, la batosta delle amministrative provocata da tanti elettori delusi – che avevano usato il M5S come arma impropria per il cambiamento e poi hanno scoperto di avere a che fare con cinici difensori dello status quo – ha richiesto di modificare almeno il marketing politico. Nasce da qui lo strano ostruzionismo parlamentare, tanto aggressivo quanto privo di contenuti: basti ricordare che alla prima esperienza, contro il «decreto emergenze», i Cinque stelle hanno prima rischiato di far saltare gli aiuti ai terremotati, poi si sono addirittura astenuti nel voto finale (dimostrando così di condividere in parte le norme che avevano tentato di bocciare).

La ragione di questo comportamento sta in un politicismo deteriore: il bisogno di affermare l’alterità assoluta, a prescindere dal merito, e il tentativo di trarre la maggiore rendita di opposizione. Anche l’ostruzionismo M5S contro il «decreto fare» ha raggiunto alte vette di nonsenso: tra tutte, la sparata di Grillo contro uno dei pochi emendamenti passati per iniziativa dei suoi (che aumentava gli adempimenti burocratici per le piccole imprese). Ad un certo punto però, durante le notti insonni a Montecitorio, è stato inventato un obiettivo strategico per la battaglia ostruzionistica: impedire o ritardare il varo del ddl che dovrebbe favorire le riforme istituzionali. «Un attentato alla Costituzione», ha detto Grillo fingendo di dimenticare che il suo socio Casaleggio aveva appena spiegato come e perché questa Costituzione è da buttare.

Ovviamente, la polemica contro il ddl costituzionale precede la sortita di Grillo: fino a ieri non se n’era accorto, ora bisogna capire se la cavalcherà fino in fondo. Il ddl che modifica l’articolo 138, a dispetto delle tesi dei suoi detrattori, in realtà rafforza la «rigidità» della Costituzione (perché rende obbligatorio il referendum popolare). Ma il punto politico è un altro: se alla ripresa Grillo farà del no alle riforme la sua bandiera. Dal destino delle riforme dipende l’assetto del sistema politico. E la possibilità di riprendersi dall’attuale collasso. Senza riforme, rischia di vincere il presidenzialismo nella versione plebiscitaria. Solo riforme serie e coerenti con il modello parlamentare (e dunque con i principi dei costituenti) possono evitare la deriva politica.

Far saltare il piatto oggi non vuol dire aprire la strada ad elezioni immediate ed efficaci, ma probabilmente solo a un’ulteriore convulsione sistemica. Questo è il punto. Questa è anche la ragione dei ripetuti attacchi al Capo dello Stato, che ha legato il suo secondo mandato proprio alle riforme. Peraltro, la battaglia campale contro il ddl sulle «procedure» ha anche l’effetto di dividere il fronte anti-presidenzialista, che sulla carta è maggioritario e che potrebbe spendersi con successo per una riforma sul modello del Cancellierato.

Ci sarà anche questa battaglia nel cuore del congresso Pd. Perché il punto di partenza non può che essere l’Italia e le vie nuove per uscire dal dramma sociale. Se il congresso diventasse un rito autoreferenziale di candidati leader e di correnti, sarebbe il fallimento del partito. Sulle regole non può non trovarsi un accordo. Lo statuto del Pd non funziona in molti punti, ma le regole condivise sono la precondizione di un gruppo dirigente che si rispetti. Di questo compromesso Renzi non può che essere parte e protagonista: altrimenti non ci saranno iscritti, aderenti, primarie aperte o semiaperte che eviteranno la sconfitta del progetto di partito. E di tutti i suoi attori: né Renzi, né altri possono salvarsi da soli.

Il congresso del Pd deve dare una missione al governo Letta. E deve dargli più forza. O il governo è un’opportunità per l’Italia o non potrà sopravvivere come mera necessità. Personalmente vorrei un segretario che si impegnasse a fare il segretario anche dopo le prossime elezioni. Perché la ricostruzione dei partiti e dei corpi intermedi ha un valore, nel contesto di questa crisi, ancora più ampio del programma di governo. Tuttavia se Renzi decidesse di dare, con la propria candidatura, un’altra impronta al dibattito, non per questo potrebbe eludere i nodi di una ridefinizione del quadro istituzionale e del partito come vettore di innovazione sociale. E neppure Renzi, a meno di una pulsione autolesionista, potrà evita- re di usare il governo Letta come un’opportunità. O almeno come il terreno di uno scontro politico, con Pdl e M5S, per fondare su basi più solide la prossima legislatura.

P.S. Ai lettori de l’Unità devo dire che ieri non ho condiviso l’impianto e i servizi di apertura del settimanale left, allegato al nostro giornale. Le critiche rivolte a Giorgio Napolitano sono a mio giudizio grossolane e influenzate dall’eco di culture ostili ad ogni responsabilità di governo. In particolare, non condivido l’obiezione di fondo: che Napolitano stia spingendo il sistema verso un semi-presidenzialismo di fatto. Questa purtroppo è la tesi della destra e dei presidenzialisti, cioè di coloro che oggi sostengono una riforma sul modello francese. Io continuo ad essere innamorato della nostra Costituzione e a considerare la flessibilità dei poteri presidenziali una delle virtù del nostro sistema parlamentare: per questo non modificherei mai l’istituto del presidente-garante, che si riduce quasi ad un notaio di fronte ad un governo espressione di una maggioranza forte e coesa, e che amplia le funzioni di indirizzo quando il Parla- mento tende alla paralisi. E non bisogna dimenticare che nuove elezioni con queste regole possono spingere il Paese ancor più nel baratro.

L’Unità 29.07.13