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“Il vocabolario di Grillo e il nulla oltre l’iperbole”, di Sara Ventroni

Il J’accuse è travestito da tormentone estivo. Ma non funziona. Per scongiurare il terrore panico del distacco vacanziero, Grillo cala l’asso del «colpo di stato d’agosto», sperando di dare un senso alle notti insonni del Parlamento. Ma nessuno rilancia l’allarme. Nessuna allerta dei servizi segreti. Il suo post lascia il tempo che trova. Anche la base sonnecchia. Così, il titolo apocalittico finisce in coda al gossip balneare: implacabile, la stampa dà notizia della villa affittata da Beppe a 14mila euro la settimana. In pieno «colpo di stato». Niente di meno. Sono priorità che si sovrappongono, e non si escludono. Perché mentre dal blog si insinua una perigliosa sospensione della vita democratica, la vita deve andare avanti. Business is business.

La verità è che nella mutazione antropologica degli ultimi mesi, qualcosa si è rotto. Il patto linguistico della nuova politica, orgogliosamente incendiaria, mostra le corde. Le metafore si sfilacciano, e i proclami marciscono sotto il solleone. ll nuovismo linguistico fa cilecca come un prodotto a scadenza, in attesa di un nuovo bagno di marketing.

All’incipit apocalittico: «Il vero obiettivo di questo governo è la distruzione dell’impianto costituzionale», non crede nessuno. E dunque prenderemo questa estate come una pausa di riflessione. Una moratoria sui costumi linguistici. È necessario un distacco per capire come, nei corsi e ricorsi storici, la solita antipolitica abbia egemonizzato le prime pagine, costruendo un’epica contro «la casta» – bersaglio di via Solferino – fino alle contumelie contro i politici politicanti, miniaturizzati dal Fatto Quotidiano.

L’esordio rudimentale del «Vaffanculo Day» ha conquistato gli ignavi, ma con l’ingresso nelle istituzioni, la filosofia antagonista mostra la sua faccia di gomma. L’estetica del rimbalzo, del claim ripetuto per timore di dimenticare gli insulti mandati a memoria in campagna elettorale, zoppica nella vita quotidiana del Parlamento.

Le strategie discorsive del Movimento Cinque Stelle sono eloquenti. Un copione di risulta. Primo: deformare l’avversario a uso e consumo dei minus habens (Pdl e Pdmenoelle); oppure ridurlo a cartone animato (Bersani come Gargamella) sperando così di conquistare l’immaginario di quelli che erano piccoli negli anni Ottanta.

Due: elevare l’insulto a rango istituzionale (il Parlamento come «tomba maleodorante») sperando che qualche giornalista un giorno scriva righe portentose, cimentandosi con la retorica inimitabile di Mussolini, per poi nascondere le affinità, ma lasciando intatto il carisma di Beppe, e di Benito.

Tre: battere la strada dell’allarmismo millenaristico, dell’ecolalia, che non significa linguaggio ecologico ma ridda di citazioni, iperboli e parolacce, in attesa che arrivi un buon analista da New York per trasformare il progetto in un grande romanzo. Insomma: il nulla oltre l’iperbole.
Potrebbe sembrare un film di Woody Allen, ma stavolta non è colpa del Pd. Nanni Moretti è già stato citato. Nonostante il riferimento diretto a Curzio Malaparte, le fonti del Movimento di Grillo vanno cercate altrove; in due tradizioni italiane ben consolidate: il ciclostilato in proprio, ovvero il «volantino», che per non essere accartocciato deve sparare nel titolo almeno una guerra contro il Sistema Internazionale delle Multinazionali (o dell’euro); e la pluriventennale tradizione letteraria del giustizialismo, con i suoi profeti, e il suo pubblico rimasto vivo da Mani pulite, in attesa di lanciare altre monetine fuori dall’Hotel California.
Ma gli italiani sono avveduti. Cinici abbastanza da scoprirsi pigri. Una cosa, sicuramente, non funziona con l’estate: il richiamo alla morte. L’evoluzione dell’immaginario di Grillo – da comico irriverente a Savonarola con il cappio a portata di mano – cade come la catabasi di un principiante, che gioca all’anticristo. Ma a questo punto, sospettiamo, nessuno lo segue più. Il caro leader deve studiare, e molto, dal Cavaliere, per capire che gli italiani sopra ogni cosa amano sentirsi vivi.
In questa lunga estate calda, Grillo dovrà aggiornare le sue fonti. Non basta Pasolini (a differenza di Travaglio, «sapeva» senza «avere le prove») e non basta l’appoggio ipocrita del bel mondo milanese anti-casta, e anti Pd.
Grillo deve aprire i libri. Gli manca una tradizione. È ancora alla fase imparaticcia. Per dare sostanza filosofica alla sua visione malthusiana, rispetto al Parlamento, gli consigliamo un classico del Novecento:
«Siamo troppi. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita». Compiti per l’estate: studiare il peggiore Papini. Confidando che almeno così Grillo la smetta di importunarci col finto egalitarismo. Questa è la sua etica. Il suo linguaggio. E se ancora non lo sa, deve assolutamente saperlo. Non stiamo mica aspettando l’anticristo.

L’Unità 27.07.13

“Le Province avranno meno poteri. Al via le città metropolitane”, di Eugenio Bruno

Trasformare dal 2014 le Province in enti di secondo livello con funzioni ridotte, istituire le città metropolitane, sfoltire la giungla di oltre 3.200 enti indipendenti. Questi gli obiettivi del disegno di legge «svuotapoteri», approvato dal Governo, che prevede risparmi per un miliardo. Trasformare dal 2014 le Province in enti di secondo livello con funzioni ridotte all’osso. Istituire le città metropolitane attese da 20 anni. Razionalizzare le unioni di comuni. Sfoltire la giungla di oltre 3.200 enti intermedi. Sono le quattro gambe del disegno di legge che è stato varato ieri dal consiglio dei ministri e che si aggiunge al Ddl costituzionale licenziato il 5 luglio scorso. Con il fine esplicito di conseguire almeno un miliardo di risparmi nel giro di un paio d’anni. A detta del ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio, che è il principale artefice del provvedimento.
Il testo in 23 articoli che ha ottenuto il disco verde del Cdm ricalca quanto anticipato nei giorni scorsi su questo giornale. La sua ragione sociale è racchiusa nell’appellativo scelto dall’esecutivo per presentarlo: «Svuotapoteri». Oltre a rispondere all’emergenza creata dalla sentenza 220 della Consulta (che ha cancellato il riordino delle province varato in due step dal governo Monti, ndr) il testo punta infatti a riorganizzare l’assetto istituzionale del nostro Paese. Lasciando due soli livelli di governo eletti dal popolo: le regioni, con funzioni programmatorie, e i comuni con compiti amministrativi. E trasformando le Province in un ente con lo stesso nome e gli stessi confini geografici attuali, ma con molte meno attribuzioni (solo pianificazione dell’ambiente, dei rifiuti, della rete scolastica e gestione delle strade). E con una natura di secondo livello: il presidente sarà eletto da e tra i primi cittadini. Sarà affiancato da un consiglio formato da tutti i sindaci dei municipi con oltre 15mila abitanti e dai presidenti delle unioni con una popolazione di 10mila unità. A meno che lo statuto non preveda la loro elezione sempre di secondo livello. A questi si aggiungerà l’assemblea di tutti i sindaci. Fermo restando che nessuno dei soggetti in questione percepirà alcun compenso o indennità per l’attività svolta. Come precisato ieri dagli stessi membri del governo in conferenza stampa, questo sistema varrà fino alla riforma costituzionale che abolirà le province. E anche oltre, a meno che le regioni non decidano di organizzare diversamente la propria area vasta.
Ammesso che il Parlamento approvi il testo entro fine anno come auspicato dall’esecutivo, il riassetto delle Province sarà operativo dalle prime elezioni amministrative che interesseranno uno dei comuni coinvolti. Dunque dalla primavera prossima. Con qualche mese d’anticipo vedranno invece la luce le città metropolitane. Che a partire dal 1° gennaio 2014 prenderanno il posto delle province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria. I primi sei mesi andranno dedicati alla stesura dello statuto tant’è che la loro nascita vera e propria viene fissata al 1° luglio. Anche in questo caso si tratterà di organi di secondo livello. Con alcune differenze però rispetto agli altri “enti di mezzo”: svolgeranno vere funzioni di area vasta in materia di programmazione e pianificazione dello sviluppo strategico, coordinamento, promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione; il sindaco metropolitano sarà il primo cittadino del comune capoluogo; i componenti del consiglio potranno essere scelti anche tra i consiglieri comunali e, dal 2017, anche a suffragio universale se nel frattempo sarà intervenuta una legge elettorale statale.
A differenza di quanto previsto nelle bozze precedenti su input del ministero delle Riforme viene previsto che nel periodo transitorio il presidente della provincia partecipi a pieno titolo alle riunioni del consiglio e non senza diritto di voto come immaginato in un primo momento.
Per i municipi poco propensi a essere rappresentati dalla città metropolitana c’è un salvacondotto: se un terzo dei comuni chiederà entro il 28 febbraio 2014 di restare nell’attuale provincia questa resterà in piedi. Un meccanismo che si ribalta per la capitale. Il comune di Roma sommerà le funzioni e la natura giuridica di città metropolitana ed entro quella data i municipi confinanti potranno chiedere di farne parte. Gli altri resteranno sotto la Provincia di Roma.
Completano i pilastri del provvedimento, da un lato, la razionalizzazione delle norme sulle unioni di comuni con la previsione di tenere fuori dal patto di stabilità quelle costituite da comuni con meno di 1.000 abitanti per gestire tutte le funzioni in forma associata. E, dall’altro, l’avvio del processo di potatura degli oltre 3.200 tra consorzi, agenzie ed enti intermedi sparsi lungo la penisola. Un intervento che andrà fatto su input delle regioni e le Province; altrimenti il governo potrà nominare uno o più commissari straordinari in caso di inerzia.

Il Sole 24 Ore 27.07.13

Cuperlo: “Subito le candidature, fidiamoci della nostra gente”, di G.C.

«O correggiamo le regole assieme oppure è bene che ne discuta il congresso». Gianni Cuperlo, candidato alla segretaria del Pd, è stato applaudito in direzione dal forse-sfidante Renzi quando ha ricordato: «Il congresso sia aperto…».
Cuperlo, ha protestato anche lei contro il cambio in corsa delle regole?
«Io ho detto che cercare una condivisione sulle regole è un dovere. Naturalmente è una responsabilità che riguarda tutti e nessuno può chiamarsi fuori dalla ricerca della soluzione migliore per il futuro del Pd»
Il Pd ha tentato un blitz anti Renzi? Che non è poi riuscito?
«Non è questione di blitz. Dobbiamo avere tutti buon senso. Fissare una data certa e consentire in
tempi brevi il deposito delle candidature a segretario è segno di una fiducia nella nostra gente. Ed
è anche lavia più diretta per evitare che il congresso si faccia ovunque, su giornali, tivù, nelle singole
componenti, meno che dove si deve fare nella forma più aperta e inclusiva: il partito e i militanti».
A lei conviene la separazione tra segretario e candidato premier?
«Non è un problema di convenienza di uno o dell`altro. Non ne faccio neanche una questione solo di regole. Per me è una scelta politica. Io penso che chiunque avrà il compito di guidare il Pd dovrà dedicarsi a tempo pieno a costruire e radicare questo progetto. Per altro oggi un premier c`è e il futuro candidato andrà scelto da un nuovo e largo centrosinistra. Sulla platea degli elettori ha un senso differenziarla da quella del candidato premier, e su questo Fassino in direzione ha detto cose sagge. Però le correzioni vanno fatte assieme altrimenti è bene che ne discuta il congresso. Io dico, ognuno di noi si senta responsabile nel cercare una soluzione evitando veti preventivi».
Bindi ha lanciato l`allarme: per salvare il governo si perde il Pd. Condivide?
«Lei ha posto temi importanti: dalle riforme istituzionali condivise da una maggioranza larga alla legge elettorale indicata da Epifani e altri come priorità, al rilancio del Pd. Quanto alla necessità di sostenere il governo e di incalzarlo sul terreno economico e sociale c`è stata una unità di fondo. E l`applauso alle parole di Letta ne ha dato la misura. Il premier lo ha detto bene: un Pd esigente serve prima di tutto al governo di scopo che lui presiede».
Il Pd si sta facendo del male?
«No, il Pd è una forza viva che sta in campo. Che vuole rinnovarsi anche con un congresso partecipato,
pensando a quell`alternativa che rimane la nostra bussola».
Siete nel caos?
«Apprezzo lo spirito incoraggiante delle ultime due domande ma la risposta è ancora no. Noi stiamo evitando che nel caos precipiti l`Italia e la vita di milioni di famiglie. La nostra agenda è quella dei cassintegrati per i quali va trovata subito la copertura finanziaria, dei lavoratori di aziende a
rischio chiusura. Lavoriamo per sanare la vergogna degli esodati e dare ossigeno alle imprese. E in
Parlamento per approvare il contrasto all`omofobia e la legge che cambia il finanziamento alla politica»

La Repubblica 27.07.13

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Gentiloni: “Servono leader non certo badanti”
Intervista a Paolo Gentiloni di Sonia Oranges – Il Messaggero

«E` difficile sfuggire al sospetto che l`operazione presentata in direzione come una valorizzazione degli iscritti, sia in realtà un tentativo per impedire a qualcuno di fare il segretario: in particolare a uno, Matteo Renzi»: a parlare è Paolo Gentiloni, renziano doc, che al termine della riunione al Nazareno tira un sospiro di sollievo perché «per fortuna ha prevalso il buonsenso e si è deciso di non votare, altrimenti il mio voto sarebbe stato contrario».
Perché è contrario alla proposta di Epifani?
«Essenzialmente perché si propone un cambiamento radicale della natura del Pd, limitando agli iscritti la partecipazione alle primarie per scegliere il segretario e, di conseguenza, cambiando la base elettorale del corpo politico. Il partito è nato con l`idea che il nostro leader fosse scelto non soltanto dagli iscritti, bensì dagli elettori. Ora si pensa di tornare alla vecchia impostazione. Non condivido. Il Pd ha bisogno di poter contare, oltre che sulle risorse degli iscritti, anche sulle competenze che ci sono fra chi non ha la tessera. Da candidato alle primarie per il Campidoglio ho verificato di persona il potenziale di queste energie».
Si è detto anche che il segretario deve badare al partito e non correre per Palazzo Chigi.
«Penso che il partito non abbia bisogno di badanti, ma di leader politici. E se ha un leader forte, è ovvio che sia in campo anche per la presidenza del Consiglio. Semmai, si può discutere se dalle primarie di coalizione debbano o meno essere esclusi altri esponenti del Pd. Ma immaginare che chi fa il segretario non abbiale caratteristiche per la leadership del Paese, parrebbe quanto meno offensivo. E anche a questo proposito, in direzione era assai diffuso il sospetto che l`obiettivo di tanto accanimento fosse Renzi. Spero che Epifani eviti questa diminutio preventiva».
Il Pd, comunque, resta assestato sulle larghe intese.
«La discussione sul governo è stata conforme a quella già svolta nei gruppi: nell`interesse del Pd e di Enrico Letta, il Pd deve esigere di più dall`esecutivo. La discussione sulle larghe intese riguarda il futuro. Nessuno all`interno del partito oggi mette in dubbio la formula di questa maggioranza, saremmo degli irresponsabili a farlo. Il tema, invece, è quanto può durare questa situazione straordinaria. Secondo me, la risposta arriverà in autunno. Saranno mesi cruciali sia dal punto di vista economico-finanziario, sia da quello sociale. E non possiamo arrivarci senza una valvola di sfogo, strozzati da una legge elettorale che non consente di tornare al voto, sebbene non mi auguri questa eventualità. Le larghe intese non possono reggersi per mancanza di alternative. Altrimenti si subiscono compromessi inaccettabili come quello su Angelino Alfano. E` nell`interesse del governo mettere in sicurezza la legge elettorale».
Un altro deí temi affrontati in direzione.
«Epifani ha annunciato che ha settembre il Pd presenterà una proposta di legge elettorale. Al contempo, però, il segretario ha anche detto che dobbiamo decidere quale proposta fare. Un`incertezza allarmante. Personalmente, la penso come Letta: possiamo ripartire dal Mattarellum. In attesa di arrivare a una soluzione concordata dalla maggioranza alla fine del percorso delle riforme costituzionali».

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Damiano: “Ma Guglielmo ha ragione, il congresso è degli iscritti”
Intervista a Cesare Damiano di g.d.m. – La Repubblica
di Cesare Damiano, pubblicato il 27 luglio 2013 , 145 letture

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«Non vedo lo scandalo. Un congresso dove hanno la parola solo gli iscritti può avere un grande vantaggio: finalmente si discute delle idee. Sono stanco di sentirmi chiedere sempre “con chi stai”». Cesare Damiano, ex ministro, presidente della commissione Lavoro della Camera, difende l`impostazione del congresso
disegnata da Guglielmo Epifani e sottoscritta da Dario Franceschini. Non lo preoccupa nemmeno una rivolta della base: «Mai elevato inni alle primarie. Sono uno strumento, non dobbiamo trasformarle in un fine».
Ma il Partito democratico è nato con una vocazione all`apertura verso l`esterno. Così sembra chiudersi su se stesso.
«Gli statuti e le regole vanno osservati ma vanno anche cambiati quando mostrano la corda e non sono adatti al contesto. Epifani ha fatto un discorso di grande saggezza. Abbiamo un premier che è stato il vicesegretario del partito. Adesso il Pd è chiamato a eleggere il segretario. Per me sganciare il congresso da questo o quel candidato a Palazzo Chigi ha dei vantaggi. Certo, può esserci lo svantaggio di favorire alcune cordate locali. Ma affrontare i contenuti, evitando alcune distorsioni, e smetterla di parlare delle persone, per me non ha prezzo».
E le primarie? E il pericolo di vedere nei gazebo una percentuale mai tanto bassa di partecipanti?
«La proposta di Epifani è molto ragionevole. Trovo congruo che quando dovremo individuare il premier di una coalizione del centrosinistra, questo processo sia frutto di una consultazione aperta».
L`impressione è che si voglia soltanto bloccare Matteo Renzi. Nel 2009 avete eletto un segretario, non un candidato, eppure le primarie non erano riservate agli iscritti.
«Quella volta eleggemmo il segretario con uno statuto che individuava in lui il candidato premier. Non eravamo al governo ma ci preparavamo a correre per quella sfida. Oggi siamo nell`esecutivo, abbiamo il premier: sono due casi distinti. Non vedo difficoltà a primarie aperte di coalizione, ma ora consentiamo agli iscritti di scegliersi il loro segretario. Sono pochi? Bene, questo dovrebbe spingerci a fare le tessere. Troviamo delle formule, come ha detto Fioroni giustamente, per portare la gente nei nostri circoli».
Sicuro che non volete soffocare Renzi?
«Nessuno soffoca nessuno. Per la premiership Epifani non ha parlato nemmeno degli albi degli elettori. Si faranno primarie aperte a tutti. Oggi invece abbiamo l` esigenza di dare razionalità a uno statuto in cui non compare nemmeno la parola congresso».
Non state mettendo Renzi alla porta provocando una scissione?
«Epifani ha una grande dote di mediazione, terrà conto del dibattito. Non a caso il voto della direzione
avverrà successivamente. Come ha detto Letta, siamo un partito, non un gruppo misto. Non voglio che se ne vada nessuno e ci mancherebbe che se ne andasse Renzi. È giusto che corra se vuole correre, quando sarà. Non è questo il problema ma che idea di partito abbiamo, come lo vogliamo costruire. Con la foga con cui si parla di regole mi piacerebbe si parlasse di idee e del nostro tessuto comune».

La Repubblica 27.07.13

“Chi vuol distruggere i partiti”, di Bruno Gravagnuolo

Il diavolo si annida nei dettagli diceva Goethe. Ma questa volta il dettaglio è uno sbrego gigantesco, un pugno nell’occhio sferrato da destra nel buio. Al riparo di un comma di legge da emendare furbescamente. E sono cinque parole da inserire: «sanzione pecuniaria pari al triplo». Con le quali però, una pattuglia di deputati del Pdl, vuole derubricare il finanziamento illecito ai partiti, da reato penale a reato aministrativo. Con relativa sanzione pecuniaria, pari al triplo appunto della somma erogata illecitamente. E il tutto al posto della precedente formulazione dell’articolo 7 della legge 195 del 1974, terzo comma. Che suonava così: «reclusione da sei mesi a 4 anni e con la multa fino al triplo delle somme versate». Insomma lo avete capito. Berlusconi e suoi vogliono che il finanziamento illecito ai partiti, quello che è stata la miccia di tangentopoli, divenga meno di un reato da giudice di pace. Meno di una multa per essere passati col rosso.

Indecente, no? Ma anche significativo però. Perché proprio quelli che vogliono abolire del tutto il finanziamento pubblico ai partiti, – con rigore e senza equivoci, come ribadisce Mariastella Gelmini – sono poi gli stessi che vogliono privatizzarlo sfacciatamente e integralmente. Senza regole e senza remore. È chiarissimo allora il loro «punto di caduta», la loro mira: distruggere la vita e l’identità dei partiti. Il loro carattere di associazione collettiva e di corpo intermedio. Che concorre con «metodo democratico» alle leggi e alla formazione della volontà popolare. Come sancito dalla Carta. Per mettere al loro posto dei cartelli mediatici e di opinione, riflesso integrale della volontà e delle dotazioni del capo. Il quale in assenza di vincoli, e in mancanza di finanziamento pubblico ai partiti, potrà fare quel vuole del suo «cartello», e finanziarlo a iosa. Sbaragliando al contempo qualsiasi «competitor», ormai con le risorse ridotte al lumicino e pure oggetto di disprezzo. Perché in passato ha usufruito di rimborsi e oggi stenta a raccogliere donativi. Eccoli allora i frutti di una malintesa ideologia della «Casta», coniugata in questi anni con la retorica del «mercato politico»: una partitocrazia privata, appannaggio di capi carismatici e lobby economiche. Che possono fare e disfare le loro creature, magari con l’appoggio di editori non puri, cartacei e non. Tutto ciò va scongiurato, contrastando in Parlamento e nel paese la depenalizzazione del finanziamento illecito. Ma al contempo ribadendo con forza che il finanziamento pubblico ai partiti – con regole e tetti prefissati – è non solo lecita, ma doverosa. Perché risponde a un principio: la politica democratica è un diritto di tutti. E artefici, in ogni paese democratico, ne sono i partiti.

L’Unità 27.07.13

“La mia vita prigioniera in fuga dall’amore violento”, di Giulia

Sto scrivendo nel bel mezzo della notte. Mi trovo isolata dal mondo e lontana dai miei affetti in una casa di cui nessuno sa l’esistenza e che deve rimanere segreta. La zona è sorvegliata in ogni angolo da telecamere. Non scrivo da un carcere. Non è per un reato commesso che mi trovo qui ma per gli sbagli di un’altra persona, una persona che ritenevo mi amasse.

Sono chiusa qua dentro senza la possibilità di uscire né di ricevere visite, tutto questo per la mia sicurezza. Questa è la mia storia. Tutto ha avuto inizio circa un anno fa, quando, nel bel mezzo della mia ex spericolata vita è apparso lui: Mario. Come tanti ragazzi della nostra età ci siamo innamorati e abbiamo dato inizio alla nostra storia d’amore. Almeno così la vedevo io, noi ci amavamo anche se lui era molto geloso. Sotto la sua crescente pressione ho cancellato tutte le mie foto perché se no lui si incazzava, così pure i numeri di telefono degli amici maschi. E ancora non bastava per lui. Ho dovuto cambiare numero di cellulare per evitare che i miei amici mi chiamassero, non parlare più di uomini nemmeno con le mie amiche. Tutto mi sembrava sopportabile pur di essere felici insieme e far andare bene la nostra relazione.
Poi sono iniziate le botte. Potevano scattare per gelosia così come per paranoie che lui si ficcava in testa (come che lo tradissi, che parlassi male alle sue spalle, che gli nascondessi qualcosa) o perché ero egoista e tirchia, come diceva lui, perché non gli sistemavo i vestiti o non usavo la mia paga per soddisfare i suoi desideri.
Anche un’uscita se non avveniva sotto sua auto-
rizzazione comportava pugni, tirate di capelli, sputi e una miriade di insulti e minacce (anche di morte). Tutto è accaduto molto gradualmente e Mario è stato un maestro nel dosare con me dolcezza e attenzioni a momenti di prevaricazione e violenza.
Così a ogni nuova umiliazione io mi ritrovavo sempre più legata a lui, inizialmente per amore e perché, scioccamente, ero convinta di poterlo cambiare e poi, con il tempo, per la paura che le sue continue minacce e le botte avevano incastonato in me. Per sapere tutto ciò che ho vissuto e sopportato ogni giorno della mia vita da un anno a questa parte (sto parlando di violenza fisica, psichica, economica e sessuale) basterebbe leggere il verbale della mia denuncia, che contiene gran parte degli episodi di violenza da me subiti.
Sì, perché io ho denunciato il mio ragazzo, la persona che credevo a me più vicina, e l’ho fatto per salvarmi la vita, per non essere una di quelle tante ragazze uccise dai propri compagni le cui storie occupano due minuti nei notiziari o vengono raccontate ad “Amore criminale” mentre le loro famiglie, impotenti, sono straziate di dolore.
Ma non sto scrivendo per commuovere o perché cerchi commiserazione. Sto scrivendo perché sono incazzata e indignata.
Pensate di farvi una gita allo zoo. Pagate il biglietto, entrate e vi mettono in una gabbia come si deve, dotata di sbarre, serratura e lucchetto e vi sbattono in mezzo a un luogo popolato di leoni che vi gironzolano attorno affamati.
Assurdo, si dirà. È il predatore che deve stare in gabbia per non nuocere alla gente e non le persone che si devono segregare mentre il leone se ne gira beato per la città mietendo vittime. Beh, è quello che è stato fatto a me. Io ho chiesto aiuto alle persone a me più vicine (essendo limitata in tutto), e per fortuna loro hanno parlato con la polizia e i servizi sociali. Risultato? Un giorno sono uscita dalla casa in cui vivevo con Mario per far visitare il mio cane dal veterinario e, una volta scappata, ho finto la mia scomparsa. Lo stesso giorno due educatrici mi hanno presa, con solo quello che portavo addosso, e portata qui in gran segreto. Oggi non sto scrivendo perché un’altra storia possa essere raccontata per intrattenere la gente. Sto scrivendo perché questo è l’unico modo per far sentire la mia forza, la mia voglia di ribellarmi contro questa situazione che mi è capitata ma che capita ogni istante a migliaia di donne come me.
Sto alzando la mia voce perché anche altre persone abbiano il coraggio di scappare e denunciare i loro aguzzini ma ancora di più perché spero che le forze dell’ordine accolgano queste richieste di aiuto e non rimandino le vittime nelle mani dei loro torturatori.
Ma questo non è possibile se lo Stato non si mette dalla nostra parte e non fa finalmente una legge (già presente negli altri paesi dell’Ue) che punisca i veri colpevoli e non noi vittime. E se non saranno i ministri a farlo dobbiamo essere noi a farci sentire per avere diritto ad una vita da esseri umani e non da prigionieri.
La mia vita è cambiata per sempre. Spero che, grazie a questa mia testimonianza, possa cambiare in meglio la vita di tante donne come me.
Per motivi di sicurezza abbiamo concordato con l’autrice di omettere il suo vero nome

La repubblica 27.07.13

“La televisione chiusa per ferie”, di Giovanni Valentini

In Italia, sulla buona televisione c’è rassegnazione intellettuale. (da “Storie e culture della televisione italiana” a cura di Aldo Grasso – Oscar Mondadori, 2013 – pag. 24). Nell’estate delle ferie coatte in città, imposte a milioni di italiani dalle ristrettezze e dalle incognite della crisi economica, la televisione sta offrendo il peggio di sé. Quella pubblica ancor più di quella privata, in rapporto alle sue funzioni e responsabilità. Repliche, scorte di fine stagione, fondi di magazzino: il palinsesto serale dell’intrattenimento non offre una grande scelta né tantomeno un conforto a chi deve rinunciare quest’anno a partire per le vacanze.
È soprattutto la fiction di qualità che viene messa in liquidazione, a parte qualche rara eccezione come l’inossidabile serie del commissario Montalbano su Rai Uno. Per il resto, c’è un vuoto di idee e di prodotti. Un danno per gli abbonati che pagano l’abbonamento e una beffa per quanti sono costretti a restare a casa.
Il crollo della pubblicità s’abbatte pesantemente su tutta l’editoria, condizionando i bilanci e provocando drastici tagli di spesa. Ma il servizio pubblico incassa comunque il canone e ha obblighi contrattuali che le altre emittenti non hanno. Risulta tanto meno giustificato e comprensibile, perciò, l’ostracismo che viale Mazzini ha decretato negli ultimi tempi contro i produttori televisivi indipendenti che rappresentano una riserva di pluralismo, esperienza e creatività.
Consapevole di questa realtà, il ministro dei Beni e delle attività culturali, Massimo Bray, aveva proposto di inserire nel cosiddetto “decreto del fare” una norma che, in linea con gli altri Paesi europei, tendeva a ridurre lo sfruttamento intensivo di queste produzioni e a tutelarne la proprietà intellettuale. Al momento, infatti, in Italia i broadcaster detengono a vita i diritti tv che acquistano. Mentre il ministro Bray proponeva ragionevolmente di limitarne il godimento a un massimo di tre anni, rispetto all’anno e mezzo della Francia, ai 5 della Gran Bretagna e ai 7 dell’Austria.
In sede di Consiglio dei ministri è stato il viceministro alle Comunicazioni, Antonio Catricalà, a rivendicare però la propria competenza in materia ottenendo l’eliminazione di questa norma dal provvedimento. E il suo intervento, favorendo oggettivamente il duopolio Rai-Mediaset, risulta tanto più sorprendente perché proviene da un ex Garante sulla Concorrenza. Vedremo in seguito se Catricalà provvederà motu proprio o se il ministro per lo Sviluppo economico da cui dipende, Flavio Zanonato, lo solleciterà a farlo.
Non si tratta soltanto di difendere interessi legittimi. La produzione televisiva indipendente è tutelata dalla legge che obbliga i titolari delle concessioni tv a destinare al settore il 10% dei loro introiti (il 15% per la Rai), proprio a garanzia del pluralismo culturale e a favore dei cittadini telespettatori. E questa forma di “esproprio intellettuale” perpetuo non favorisce evidentemente la crescita di un comparto come quello audiovisivo che comprende con l’indotto quasi un migliaio di aziende, fattura oltre un miliardo di euro all’anno e, prima della crisi, nel 2008 occupava ancora circa 200mila dipendenti, tra diretti e indiretti.
Sotto la guida del direttore generale, Luigi Gubitosi, la Rai ha intrapreso meritoriamente una strada di risanamento e trasparenza. Ed è vero che, soprattutto nel settore dell’intrattenimento, in passato le produzioni esterne avevano accumulato abusi e sperperi. Ma ora si rischia di passare da un eccesso all’altro, deprimendo un’attività che influisce sulla cultura di massa del nostro Paese: in estate e in tutto il resto dell’anno.

La Repubblica 27.97.13

“Voto di scambio. Troppe polemiche”, di Gian Carlo Caselli

Una sconcezza che insudicia da sempre il nostro Paese è lo scambio politico-mafioso. È sacrosantamente giusto, perciò, pretendere che lo si contrasti in modo efficace. La norma che attualmente punisce tale scambio (art. 416 ter codice penale) risale al 1992. Fu approvata dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio e tuttavia fin da subito si rivelò come un imbroglio. Perché colpisce soltanto il caso – alquanto raro – del politico che offre denaro “pronta cassa” ai mafiosi in cambio di appoggio elettorale, mentre restano impuniti i casi, assai più frequenti, del politico che stringe il patto per fornire informazioni, appoggi, favori, concessioni, assunzioni, autorizzazioni ecc. È dunque da vent’anni ormai che si chiede di por fine all’imbroglio ampliando la previsione di legge alla erogazione di “denaro o altra utilità”. Proprio tale formula è stata finalmente inserita nel nuovo testo del 416 ter recentemente approvato dalla Camera dei deputati con la soddisfatta e convinta adesione dei più.
ALLA VIGILIA della definitiva approvazione in Senato, però, ecco scatenarsi improvvisa (senza che nulla l’abbia mai fatta presagire durante la discussione alla Camera) una tempesta di polemiche. Perché il nuovo testo (insieme alle tanto attese “altre utilità”) ha introdotto anche altre modifiche, che a giudizio di alcuni severi commenti potrebbero addirittura comportare un arretramento rispetto all’attuale imbroglio.

Premesso che un arretramento non è proprio possibile, perché sotto lo zero non si può andare, il rischio è di perdere un’occasione preziosa per fronteggiare meglio il laido mercato dei voti mafiosi. La denuncia di un simile rischio è stata vistosamente presentata come “rivolta dei pm”, anche se di pm in servizio sembra ve ne siano pochini. Ciò non toglie che contro la nuova norma si sia schierata una vera e propria “corazzata” di autentici e ineccepibili antimafiosi: Cantone, Casson, Capacchione, Saviano, Ciotti, Travaglio… Dissentire anche solo parzialmente da loro non è facile, per l’autorevolezza indiscussa che li contraddistingue. Ma per quel che vale, la mia opinione è invece proprio di relativo dissenso.
L’obiezione principale al nuovo testo è che esso non parla più di “promessa di voti”, ma di “accettazione di procacciamento di voti”, per cui – si dice – occorrerà provare che i voti sono effettivamente arrivati e sarebbe una probatio diabolica cioè impossibile. A me sembra però che l’accettazione del procacciamento possa intendersi come cosa concettualmente diversa dall’effettivo procacciamento, nel senso che “accettare” significa accordarsi perché il mafioso si attivi; e una volta provato l’accordo non occorre poi provare anche l’effettivo “ritorno” di esso in termini di voti. In sostanza, non mi pare che ci sia una gran differenza fra “accettazione” e “promessa”. In ogni caso, decisiva – come sempre – sarebbe poi l’elaborazione giurisprudenziale in sede di applicazione della nuova norma, e la lettura più rigorosa sarebbe certamente favorita dai “lavori preparatori”, i quali, come si sa, hanno un ruolo importante nell’interpretazione delle nuove leggi e nel caso di specie sono davvero chiari e univoci (segnalo in particolare l’intervento del deputato Davide Mattiello, relatore alla Camera sul nuovo 416 ter, il cui “pedigree”, maturato sul campo con l’impegno di una vita, gli consentirebbe di prendere posto – a pieno titolo – su qualunque “corazzata” antimafia).
UN’ALTRA critica riguarda l’avverbio “consapevolmente” che deve caratterizzare l’accettazione, perché – si sostiene – nel paese dei politici che si nascondono dietro lo scudo “a mia insaputa” la consapevolezza è diventata una chimera. Ma già oggi, anche senza avverbio, le collusioni coi mafiosi devono essere provate anche in punto “consapevolezza” scavalcando la loro cronica tendenza a cadere dal pero di fronte alle contestazioni. E in ogni caso, sul piano strettamente tecnico-giuridico l’avverbio non mi sembra dannoso ma piuttosto ultroneo, nel senso che essendo il delitto doloso la consapevolezza è strutturale a esso anche senza esplicitarla nel testo normativo.
Infine, si sostiene che l’entità delle pene previste con la nuova norma potrebbe avere ripercussioni negative per l’accusa su alcuni processi in corso: mi mancano al riguardo elementi precisi di conoscenza per prendere posizione, ma se l’obiezione fosse fondata ecco un punto certamente da rivedere. Concludendo: come sempre, tutto si può e si deve discutere, preferibilmente nei tempi giusti e non in zona Cesarini, proponendo eventualmente mirati e specifici emendamenti. Senza innescare bagarre che rischiano di inceppare tutto e di lasciarci di nuovo al palo (il vecchio, inutile imbroglio del 416 ter), impedendo ogni sia pur relativo progresso.

Il Fatto Quotidiano 26.07.13