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“Il vocabolario di Grillo e il nulla oltre l’iperbole”, di Sara Ventroni

Il J’accuse è travestito da tormentone estivo. Ma non funziona. Per scongiurare il terrore panico del distacco vacanziero, Grillo cala l’asso del «colpo di stato d’agosto», sperando di dare un senso alle notti insonni del Parlamento. Ma nessuno rilancia l’allarme. Nessuna allerta dei servizi segreti. Il suo post lascia il tempo che trova. Anche la base sonnecchia. Così, il titolo apocalittico finisce in coda al gossip balneare: implacabile, la stampa dà notizia della villa affittata da Beppe a 14mila euro la settimana. In pieno «colpo di stato». Niente di meno. Sono priorità che si sovrappongono, e non si escludono. Perché mentre dal blog si insinua una perigliosa sospensione della vita democratica, la vita deve andare avanti. Business is business.

La verità è che nella mutazione antropologica degli ultimi mesi, qualcosa si è rotto. Il patto linguistico della nuova politica, orgogliosamente incendiaria, mostra le corde. Le metafore si sfilacciano, e i proclami marciscono sotto il solleone. ll nuovismo linguistico fa cilecca come un prodotto a scadenza, in attesa di un nuovo bagno di marketing.

All’incipit apocalittico: «Il vero obiettivo di questo governo è la distruzione dell’impianto costituzionale», non crede nessuno. E dunque prenderemo questa estate come una pausa di riflessione. Una moratoria sui costumi linguistici. È necessario un distacco per capire come, nei corsi e ricorsi storici, la solita antipolitica abbia egemonizzato le prime pagine, costruendo un’epica contro «la casta» – bersaglio di via Solferino – fino alle contumelie contro i politici politicanti, miniaturizzati dal Fatto Quotidiano.

L’esordio rudimentale del «Vaffanculo Day» ha conquistato gli ignavi, ma con l’ingresso nelle istituzioni, la filosofia antagonista mostra la sua faccia di gomma. L’estetica del rimbalzo, del claim ripetuto per timore di dimenticare gli insulti mandati a memoria in campagna elettorale, zoppica nella vita quotidiana del Parlamento.

Le strategie discorsive del Movimento Cinque Stelle sono eloquenti. Un copione di risulta. Primo: deformare l’avversario a uso e consumo dei minus habens (Pdl e Pdmenoelle); oppure ridurlo a cartone animato (Bersani come Gargamella) sperando così di conquistare l’immaginario di quelli che erano piccoli negli anni Ottanta.

Due: elevare l’insulto a rango istituzionale (il Parlamento come «tomba maleodorante») sperando che qualche giornalista un giorno scriva righe portentose, cimentandosi con la retorica inimitabile di Mussolini, per poi nascondere le affinità, ma lasciando intatto il carisma di Beppe, e di Benito.

Tre: battere la strada dell’allarmismo millenaristico, dell’ecolalia, che non significa linguaggio ecologico ma ridda di citazioni, iperboli e parolacce, in attesa che arrivi un buon analista da New York per trasformare il progetto in un grande romanzo. Insomma: il nulla oltre l’iperbole.
Potrebbe sembrare un film di Woody Allen, ma stavolta non è colpa del Pd. Nanni Moretti è già stato citato. Nonostante il riferimento diretto a Curzio Malaparte, le fonti del Movimento di Grillo vanno cercate altrove; in due tradizioni italiane ben consolidate: il ciclostilato in proprio, ovvero il «volantino», che per non essere accartocciato deve sparare nel titolo almeno una guerra contro il Sistema Internazionale delle Multinazionali (o dell’euro); e la pluriventennale tradizione letteraria del giustizialismo, con i suoi profeti, e il suo pubblico rimasto vivo da Mani pulite, in attesa di lanciare altre monetine fuori dall’Hotel California.
Ma gli italiani sono avveduti. Cinici abbastanza da scoprirsi pigri. Una cosa, sicuramente, non funziona con l’estate: il richiamo alla morte. L’evoluzione dell’immaginario di Grillo – da comico irriverente a Savonarola con il cappio a portata di mano – cade come la catabasi di un principiante, che gioca all’anticristo. Ma a questo punto, sospettiamo, nessuno lo segue più. Il caro leader deve studiare, e molto, dal Cavaliere, per capire che gli italiani sopra ogni cosa amano sentirsi vivi.
In questa lunga estate calda, Grillo dovrà aggiornare le sue fonti. Non basta Pasolini (a differenza di Travaglio, «sapeva» senza «avere le prove») e non basta l’appoggio ipocrita del bel mondo milanese anti-casta, e anti Pd.
Grillo deve aprire i libri. Gli manca una tradizione. È ancora alla fase imparaticcia. Per dare sostanza filosofica alla sua visione malthusiana, rispetto al Parlamento, gli consigliamo un classico del Novecento:
«Siamo troppi. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita». Compiti per l’estate: studiare il peggiore Papini. Confidando che almeno così Grillo la smetta di importunarci col finto egalitarismo. Questa è la sua etica. Il suo linguaggio. E se ancora non lo sa, deve assolutamente saperlo. Non stiamo mica aspettando l’anticristo.

L’Unità 27.07.13

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