Latest Posts

“Tre emergenze senza risposta”, di Salvatore Padula

Passano gli anni, ma le emergenze restano le stesse. L’emergenza di una dimensione dell’economia sommersa che non ha uguali, almeno non tra i Paesi avanzati. L’emergenza di una pressione tributaria – specie quella “effettiva”, cioè ricalcolata su chi davvero paga le imposte e i contributi – che colloca l’Italia ai vertici di ogni classifica internazionale. L’emergenza di un sistema tributario ancora troppo complesso e (spesso) arbitrario.

La questione fisco, senza banalizzare, sta tutta in queste tre “emergenze”. Diverse tra loro, ma tra loro sicuramente connesse. Tanto che, probabilmente, solo un intervento complessivo, ben congegnato e ben coordinato su ognuno di questi ambiti potrebbe avviare un percorso virtuoso per uscire da una impasse che dura da decenni. Anzi, a ben vedere, l’errore di fondo del passato sta proprio nella tendenza diffusa a considerare il sommerso, l’eccessivo carico tributario e le complicazioni del sistema fiscale come aspetti disgiunti. Con risposte e soluzioni da fornire di volta in volta separatamente. Quello che manca è la logica di sistema. Il contrasto all’evasione è una parte centrale del sistema fiscale nel suo complesso. Non è – o meglio – non deve essere il rimedio posticcio a un sistema che non funziona o, al più, funziona male.

Nessuno può dire con certezza se l’evasione dipenda dall’elevata pressione fiscale oppure, al contrario, se un sommerso così diffuso sia tra le cause dell’elevata pressione fiscale. Lo stesso vale per norme fiscali soggette a cambiamenti continui e per adempimenti spesso inutilmente complessi, che sono un incentivo (mai una giustificazione) alla “non compliance” dei contribuenti.

In questi giorni, dopo un lungo periodo di assenza del Governo e dei partiti, l’attenzione di tutti si è nuovamente (e giustamente) concentrata sul contrasto all’evasione. Si è riparlato – lo ha fatto il presidente del Consiglio, Enrico Letta – della necessità di destinare alla riduzione delle imposte i proventi della lotta all’evasione. Si è detto – lo ha fatto ieri il viceministro all’Economia, Stefano Fassina – dell’esistenza di «una relazione stretta tra pressione fiscale, spesa e sommerso» (Fassina ha parlato esplicitamente di «evasione fiscale di sopravvivenza»). E Attilio Befera, direttore dell’agenzia delle Entrate, ha confermato i buoni risultati attesi dalla lotta all’evasione nel 2013.

Resta il fatto che la lotta all’evasione non deve vivere né di buoni propositi né di proclami. Sono necessari passi in avanti concreti sia sul fronte degli obiettivi sia su quello dei risultati. Il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, ha più volte richiamato l’attenzione su un vero “piano industriale” per la lotta all’evasione. Un piano che sappia indicare le azioni di contrasto ma anche misurare l’efficacia di queste azioni. Un piano che consenta di conoscere l’entità delle somme effettivamente recuperate (senza questo dato, tra l’altro, sarebbe inutile ogni progetto finalizzato a ridurre il peso delle tasse con i proventi dell’evasione).

In questi anni, il tema dell’infedeltà fiscale è rimasto ingabbiato nella logica dell’emergenza. Fatta di interventi contraddittori (per tacere dei condoni), fatta di “effetti speciali” (i blitz sugli scontrini) e di annunci spesso ottimistici sui risultati raggiunti (solo una minima parte delle maggiori imposte iscritte a ruolo viene effettivamente incassata).

Che cosa attendersi nell’immediato futuro? Arriverà la delega, certo. Ma sull’evasione, il rischio è di restare fermi alla logica dell’emergenza. Nuovi strumenti – il redditometro e l’anagrafe dei conti – sono prossimi al debutto. Il fisco, è noto, può contare su oltre 120 banche dati per “monitorare” ogni attività dei contribuenti. Una ricchezza di informazioni alla quale – come a suo tempo segnalato dalla Commissione bicamerale sull’Anagrafe tributaria – non sempre corrisponde una capacità di utilizzo altrettanto articolata. Si tratta, certamente di strumenti potenti e importanti, assolutamente condivisibili. Nella consapevolezza che si tratta di “attrezzi” molto invasivi e dei quali deve essere fatto un un uso intelligente e trasparente. Per intercettare i veri evasori, senza accanimento contro la maggioranza degli onesti. I quali, non scordiamolo, sopportano già il peso di un non indifferente fardello fiscale.

Il SOle 24 Ore 26.07.13

“La ricerca svedese: sanità italiana sotto metà classifica in Europa. Calabria ultima tra le regioni”, di Flavia Landolfi e Roberto Turno

Hanno preso 18 Paesi europei e li hanno messi a confronto, classificando tutte e 172 le regioni che li compongono. E l’amara verità per l’Italia è venuta a galla senza pietà: siamo decimi per la qualità della nostra sanità pubblica, undicesimi per i «particolari vantaggi» del Ssn, addirittura tredicesimi per l’equità nell’offerta dei servizi. Italia delle cure pubbliche sotto la metà classifica, insomma. Ma c’è di più, e di peggio. Nel ranking tra le 172 regioni europee piantiamo le bandierine (nere) da vergogna: Calabria ultima (172° posto) per i «particolari vantaggi» della sua offerta, terzultima (170ma) sia per qualità che per equit à. E a far corona già giù nel ranking, ecco il Molise, la Campania, la Sicilia, la Puglia. Piazzate negli ultimi 15 posti della graduatoria. Sempre loro, regioni in asfissia da maxi debito e da tagli che tagliano anche le cure ai loro cittadini. Un Sud della sanità che preoccupa sempre più.

Il Sud che affonda
I dati sono stati ri-presentati ieri al Cnel in occasione del consueto briefing annuale sulla qualità dei servizi delle pubbliche amministrazioni. A far da cornice l’analisi 2012 dell’università svedese di Goteborg sulla qualità della sanit à in Europa. Ben 18 i Paesi europei coinvolti nello studio con le loro 172 regioni, esclusi i 9 (Cipro, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta e Slovenia) che non hanno fornito alcuna informazione anche a livello regionale. Un’analisi impietosa. Da cui l’Italia nel complesso si piazza con sempre più fatica nella parte medio-bassa della graduatoria. Ma con un grappolo sempre più consistente di regioni che pericolosamente affondano. Tutto il Sud, in pratica. Pi ù il Lazio.
DOCUMENTI

Sanità: la classifica dell’Università di Goteborg

L’equità perduta e Bolzano leader
Solo Bolzano guadagna stellette da (quasi) prima della classe: addirittura nona per la qualità, ma 22ma per i «vantaggi» che offre e poi però più in giù ancora, 50ma, per equità. Buoni (o medi) posti che conquistano in genere le regioni piccole del nostro Nord, con le grandi che soffrono di più. Anche le nostre eccellenze lombarde, emiliane, toscane, venete. Insomma, una foto di gruppo che per tanti versi conferma quello che gli italiani sanno, sulla loro pelle. Con quel gap dell’equità che ormai sta diventando il rovello e il rischio che sempre più si corre per la tenuta della sanità pubblica. Messa in ginocchio dai tagli (e dagli sprechi) miliardari di questi anni e dalla cura insostenibile della spending review targata prima Giulio Tremonti, poi Mario Monti.

Comportamenti da cambiare
Va cauta, ma non troppo, Carla Collicelli, vice direttore Censis, in un commento riservato in esclusiva al settimanale «Il Sole 24-Ore Sanità » in uscita la prossima settimana ( www.24oresanita.com): «I risultati dello studio svedese, che si basano su indagini condotte su campioni regionali di cittadini, risentono sicuramente delle difficoltà di simili confronti, ma attirano utilmente l’attenzione su due aspetti: da un lato l’opacità delle misurazioni, dall’altro l’importanza dei fattori qualitativi e degli indicatori soggettivi per individuare i problemi da affrontare». In poche parole, aggiunge Collicelli, la ricerca dell’università svedese punta l’indice sulla «necessità di agire sui comportamenti e sulle scelte di dirigenti e operatori nel lavoro quotidiano». Non solo, dunque, sugli effetti dei tagli e sui valori economici della produzione.

La conferma del Censis
E del resto le stesse elaborazioni del Censis relative agli indicatori di performance sanitaria a livello regionale, confermano il grave stato di sofferenza nel quale versa il “Sud sanitario” in particolare nelle regioni commissariate e sotto tutela per i loro deficit. Proprio quelle che l’analisi dell’università di Goteborg ha bocciato. ««Non ci sono segnali di miglioramento – spiega Collicelli – nelle regioni nelle quali interventi do controllo della spesa e di riorganizzazione sono stati attuati, anche recentemente, con i piani di rientro e la spending review». Tra stato di salute, assenza/presenza di cronicità, attrazione da fuori regione, soddisfazione dei cittadini, offerta per la disabilità, modernizzazione del sistema, la classifica del Censis è sempre quella: tutto il Sud sanitario naviga in acque tempestose. E la Calabria, per fare il paio con la ricerca svedese, resta sempre nel fondo.

Il SOle 24 Ore 26.07.13

“A quando arrivano un po’ di soldi per i lavoratori?”, di Andrea Bonzi

Difficile far ripartire i consumi se gli stipendi moltissimi lavoratori sono fermi al palo da anni. Sono infatti 52 i contratti nazionali non rinnovati, e ben 6 milioni e 700mila i dipendenti che aspettano di vedere adeguata la propria busta paga. Di questi fonte Istat quasi tre milioni sono le persone che lavorano nel pubblico impiego. L’attesa del rinnovo è, in media, di 26,5 mesi per l’insieme degli occupati e di 13,2 mesi per quelli del settore privato. Non è un caso che, tra i punti per la redistribuzione del reddito richiesta dai sindacati confederali nell’ultimo incontro con il premier Enrico Letta, ci sia anche l’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita. Nel dettaglio, tra gli ultimi contratti scaduti, ci sono quello dei lavoratori del settore minerario, dei tessili e manifattura di pelletteria, oltre agli addetti dei pubblici esercizi-alberghi e pulizia locali. Sugli edili, è recente la stilettata ai costruttori da parte della Fillea-Cgil con il segretario generale Walter Schiavella: «Mi piacerebbe sapere dall’Ance come mai, dopo sette mesi dalla scadenza del contratto, al tavolo negoziale siamo ancora in alto mare. Abbiamo a che fare con una coerenza intermittente», visto che proprio la controparte invoca interventi forti per riavviare il settore, in forte crisi da tempo. Sul fronte trasporti, Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugltrasporti e Sla-Cisal hanno indetto uno sciopero del personale delle autostrade per il 2 e 3 agosto, a seguito della rottura delle trattative sul rinnovo del contratto nazionale, ancora rimandato «nonostante l’aumento dei pedaggi, i mancati investimenti e gli utili generosi», lamentano le sigle sul piede di guerra. Inoltre, il 5 agosto toccherà a autotrasportatori e corrieri, la cui trattativa si è arenata ieri di fronte a una richiesta economica di 130 euro al mese.

IL «PUBBLICO» STROZZATO All’inizio della settimana, poi, la fermata dei medici, veterinari e tecnici del Servizio sanitario nazionale che hanno protestato per i tagli, ma anche per il blocco alle retribuzioni, che dura da oltre quattro anni. Sono stati invece firmati, tra gli altri, i contratti dei conciatori e terzisti (con aumenti mensili di 115 euro) e degli operatori delle farmacie partecipate dagli enti locali. È proprio il settore pubblico il nodo più delicato da sciogliere, non solo per una questione prettamente numerica. Calcolando che il contratto è scaduto a fine 2009, a regime (cioè nel 2014) la perdita di potere d’acquisto delle buste paga per chi ha lo Stato come datore di lavoro sarà di circa 6mila euro per l’effetto dei mancati rinnovi e dello stop all’indennità di vacanza contrattuale. Quasi 240 euro al mese di potere d’acquisto. Michele Gentile, coordinatore del dipartimento della Funzione pubblica della Cgil nazionale, dipinge il quadro di una situazione drammatica, frutto della somma di una serie di azioni che il sindacato ritiene deleteria. «I dipendenti pubblici hanno davvero poco da essere contenti osserva Gentile -. Al blocco dei contratti si aggiungono le 250mila unità che sono andate in pensione senza essere sostituite, con il blocco del turn over negli enti locali». Non è finita: «La legge Brunetta impedisce qualsiasi rinnovo normativo dei contratti. Questo significa che, in una fase come questa, in cui abbiamo i Comuni in affanno e un’ipotetica riforma istituzionale in corso, se le Province venissero cancellate scatta un processo di mobilità per due anni e poi il licenziamento». Per questo, insiste Gentile, «affrontare le riforme istituzionali senza discutere del nodo del lavoro, significa compiere un errore grave». Di sicuro, poi, così difficilmente potranno essere rilanciati i consumi: «Da un lato la busta paga è sempre più leggera in termini di potere d’acquisto, dall’altro si vanno a colpire i servizi pubblici, in particolare l’Istruzione e la Sanità, creando un disagio ancora maggiore. Una politica del genere non può che essere fallimentare». Per questo, alla ripresa autunnale, se il governo Letta «non darà segnali di discontinuità», la possibilità di una mobilitazione del settore pubblico diviene quasi una certezza. …

L’Unità 26.07.13

“Riforme, ultima spiaggia”, di Marco Olivetti

Da più parti nel centrosinistra – dentro e fuori il Pd, tra i cittadini e tra i loro rappresentanti – si levano con frequenza voci che chiedono di modificare subito la legge elettorale e consigliano di abbandonare il tentativo di riformare la Costituzione che il governo ha posto in marcia. Questa tesi – ripresa in forme più rozze dal Movimento Cinque stelle – muove dall’idea che la riforma costituzionale in itinere sia, nella migliore delle ipotesi, una perdita di tempo che porterebbe con sé, come danno collaterale, il rischio di tornare a votare con la legge Calderoli, e che, nello scenario peggiore, aprirebbe un grave vulnus nella Costituzione: nella forma, per via della deroga all’art. 138 Cost. delineata nel disegno di legge ora all’esame della Camera, e an- cor più nei contenuti, in quanto molti sospettano che si stia tramando uno stravolgimento della Carta del 1947.

In realtà vi sono solide ragioni che inducono a connettere strettamente la riforma elettorale con alcuni interventi per nulla marginali sulla forma di goveno, che appaiono quanto mai necessari, forse addirittura più urgenti della riforma elettorale stessa. Nell’attuale situazione politico-partitica è infatti difficile immaginare una legge elettorale che consenta la formazione di maggioranze omogenee alla Camera e al Senato, che sono necessarie in virtù del bicameralismo perfetto previsto dalla Costituzione (ed ormai nettamente superato dalla storia, come una pur superficiale occhiata al diritto comparato dovrebbe insegnare). Ciò a meno che non si voglia un ritorno ad un sistema elettorale proporzionale più o meno puro, rifiutando in radice di affrontare il problema della formazione delle maggioranze nelle due Camere.

Ne segue che, per produrre una riforma elettorale che abbia davvero senso, occorre pensare ad una legge elettorale per la sola Camera, prevedendo per il Senato un’elezione indiretta (e collegandolo al sistema delle autonomie territoriali). Ma ciò presuppone appunto il superamento del bicameralismo perfetto: e si tratta di una riforma non da poco, cui verosimilmente il Senato si opporrà con tutta la forza di resistenza di cui dispone. Non si tratta, affatto, di una «reformette», ma di un cambiamento strutturale della nostra organizzazione politica.

La forma di governo italiana richiede poi altri interventi correttivi, che al tempo stesso rafforzino la legittimazione e la stabilità del governo e del suo premier e rivitalizzino il Parlamento, anche alla luce del ruolo che i trattati europei gli riconoscono: insomma è il nostro regime parlamentare che va sottoposto ad un check-up complessivo, essenzialmente al fine di attuare l’ordine del giorno Perassi, con cui in Costituente si delineava la necessità di correggere la forma di governo parlamentare per evitare le degenerazioni del parlamentarismo, come infaticabilmente ricordava Leopoldo Elia. La forma di governo italiana, infatti, conosce molto bene tali degenerazioni: sia in senso assembleare (si pensi agli eccessivi spazi per l’ostruzionismo e a procedure usate quasi solo in Italia, come la sfiducia individuale), sia a vantaggio indebito del governo (si pensi all’abuso dei decreti-legge, dei maxi-emendamenti e delle questioni di fiducia), sia nella sopravvivenza di istituti ormai inadeguati (basti citare l’articolo 66 della Costituzione, un vero e proprio pezzo di archeologia costituzionale).

Oggi difendere il regime parlamentare – e dunque una delle caratteristiche essenziali della Costituzione del 1947 – significa riformarlo e che un sano «conservatorismo» costituzionale deve per forza osare. Quella che il Parlamento e l’opinione pubblica italiana hanno davanti rischia infatti di essere l’ultima spiaggia: non per chi vuole stravolgere la Costituzione del 1947, ma per chi vuole preservarla, adattandola ai tempi. Certo, si può sperare che la salvezza venga dall’autoriforma del sistema dei partiti o da un improvviso incremento del senso civico degli elettori, ma ciò richiedereb- be una fede cieca o il ricorso ad un ministero della Magia come quello citato nei film di Harry Potter. È molto più probabile, invece, che, se non si riuscirà a correggerla, la Carta del 1947 sarà travolta nel prossimo futuro, una volta che il fa- vor per il semi(?)presidenzialismo si sarà definitivamente insediato nei gruppi dirigenti, sotto la guida di qualche De Gaulle all’amatriciana.

Ciò non vuol affatto dire che non possa essere opportuno approvare una riforma elettorale «di salvaguardia», magari precisando esplicitamente che essa troverebbe applicazione solo per le prossime elezioni, in caso di uno scioglimento anticipato che impedisca di condurre in porto la riforma costituzionale. Ma non ci sono ragioni per non cercare di percorrere la via di una razionalizzazione più incisiva della forma di governo, magari accompagnata da una legge elettorale a doppio turno su base nazionale, che modernizzi il sistema di governo parlamentare progettato dai costituenti.

L’Unità 26.07.13

“Nuova mappa per le grandi potenze”, di Roberto Toscano

Come disse una volta il famoso comico americano Groucho Marx, è difficile fare previsioni, soprattutto se si riferiscono al futuro. Si potrebbe anzi dire che mai come oggi è giustificato esitare prima di addentrarsi nel territorio sconosciuto del tempo a venire, e questo per svariate ragioni. In primo luogo l’accelerazione esponenziale di tutta una serie di tecnologie, soprattutto nel campo della comunicazione, che trasformano non più di anno in anno, ma di mese in mese se non di giorno in giorno il contesto della società contemporanea. Vi è poi la caduta dei grandi «paradigmi di previsione», in primo luogo il pensiero filosofico di radice hegeliana che ha avuto una influenza così profonda sul sentire comune anche al di là dell’ideologia marxista. E che dire poi del tramontare di un altro riferimento ideologico-culturale, quello del progresso, percepito come inevitabile miglioramento della società?

Ma la possibilità non solo di prevedere il futuro, ma addirittura di immaginarlo, è stata drammaticamente intaccata anche dalla realtà materiale in cui oggi viviamo. Pensiamo soltanto al predominio, nell’economia, della dimensione finanziaria su quella industriale. L’industria vive di futuro, di previsione, di programmazione e si snoda attraverso il ciclo risparmio/investimento/costruzione degli impianti/produzione/ commercializzazione/profitto.

Il finanziario concepisce il conseguimento del profitto in un orizzonte temporale spesso di ore, e addirittura, con il «trading» elettronico, di minuti, di secondi. Il futuro tende a scomparire, sostituito da una sorta di spasmodico universale presente.

E’ proprio il «presentismo» a caratterizzare la nostra epoca. Soprattutto per le giovani generazioni il passato è irrilevante e, drammaticamente prive come sono di prospettive, il futuro anche.

Ma non è detto che si debba accettare la morte, o l’irrilevanza, della dimensione-futuro. Sono molto d’accordo con quanto ha scritto su queste stesse pagine Mario Deaglio quando, parlando dei «futuribili» ha messo in risalto la funzione non solo speculativa di un esercizio che non può certo essere quello di un patetico tentativo di natura profetica, bensì quello «di dare non solo agli scienziati sociali ma anche ai politici e ai normali cittadini la coscienza delle conseguenze di determinate azioni e decisioni» identificando «gli snodi attraverso i quali il futuro probabilmente passerà».

Questo è soprattutto vero nel campo delle relazioni internazionali, un campo dove più che in ogni altro dovrebbe imporsi una «etica della responsabilità» soprattutto verso le generazioni future, alle quali sarebbe indecente lasciare un mondo peggiore di quello che noi abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto.

Il sistema internazionale attuale è in evidente fase di «decostruzione». Non solo infatti è venuta meno una vera e propria struttura portante, quella della Guerra Fredda e della dimensione Est-Ovest, che era certo conflittuale, ma anche forniva strumenti sia di interpretazione che di gestione delle vicende internazionali, ma è rapidamente tramontata l’illusione unipolare della unica Grande Potenza superstite, gli Stati Uniti. Anche se si esagera spesso nel descrivere il tramonto dell’Impero americano è evidente, come hanno dimostrato le disastrose avventure in Afghanistan e Iraq, che il mondo non si governa da Washington.

Ma anche i più radicali oppositori dell’America farebbero forse bene a chiedersi, non limitandosi ad esultare (l’anarchia non è certo meglio dell’Impero), che cosa potrà prendere il posto di un potere americano certo tutt’altro che estinto, ma in evidente perdita di effettività e coerenza.

Forse l’Europa? Mentre avanza il processo di allargamento avanza di pari passo una caduta non tanto di operatività quanto di egemonia, di immagine, e di quella proiezione verso il futuro che ha caratterizzato fin dai suoi inizi il progetto europeo. L’Europa ha bisogno di futuro più che di meccanismi istituzionali e risorse finanziarie. Senza credere in un futuro possibile da costruire insieme sarà inevitabile che si accentuino le tendenze già pesantemente evidenti alla cosiddetta «rinazionalizzazione», un processo centrifugo fatto di egoismi e visioni di breve termine fomentati sia dalla perdita della visione originaria sia, ultimamente, dalla crisi economica. Una crisi che stimola la dissennata propensione a cercare di «salvarsi da soli» lasciando andare alla deriva i più deboli (la Grecia, ma non solo).

Chi ancora si azzarda a prevedere il futuro dipinge a forti tinte uno scenario di sostituzione dell’Impero Americano con un Impero Cinese. Credo che si tratti di un colossale abbaglio. Non certo perché non sia vero che la crescita cinese è probabilmente il più straordinario fenomeno del nostro tempo. Ma, cercando di abbandonare l’economicismo dogmatico oggi imperante, se introduciamo fattori diversi dalla crescita del Pil (fra l’altro in rallentamento anche in Cina) vediamo che l’ipotesi di Beijing che sostituisce Washington risulta assai poco credibile. Viene in mente il proliferare di libri e articoli, negli Anni 60 e 70, che ci davano per sicuro che il Giappone era destinato a diventare la Grande Potenza capace di competere con gli Stati Uniti, e probabilmente anche a sostituirli come perno del sistema internazionale.

Per esercitare un ruolo di preminenza egemonica non basta l’economia: serve anche la capacità di rendere la propria preminenza comprensibile, accettabile, in un certo senso «universalizzabile» sulla base di un misto di propaganda, «marketing», proiezione di valori che sono ad un tempo propri e condivisibili in una dimensione globale. Non sembra che la Cina, da sempre autoreferenziale «Impero di Mezzo», sia in grado di farlo.

E allora? Allora probabilmente non ci resta che navigare a vista, tenendo ben presenti valori e interessi di ciascun Paese, e di concepire le relazioni internazionali come un sistema che ben difficilmente potrà essere ricomposto su base bi o unipolare, ma che dovrà procedere attraverso un insieme di geometrie variabili, di accordi bilaterali, di organizzazioni internazionali sia governative che non governative.

Il futuro resta comunque un terreno sempre più incognito.

La Stampa 26.07.13

“Rating e democrazia”, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini

Il recente declassamento del nostro Paese ad opera di Standard & Poor’s costituisce una prova ulteriore della contrapposizione tra i mercati finanziari e le politiche economiche dei Paesi in recessione. I mercati vengono pesantemente influenzati dai giudizi emessi dalle agenzie di rating: spesso si tratta di vere e proprie scomuniche che hanno l’effetto di condizionare l’azione dei governi i quali ne attendono trepidanti le sentenze. Mai prima d’ora si era verificata una condizione di soggezione politica così umiliante. L’attesa spasmodica del giudizio delle agenzie di rating assume i tratti di un imperscrutabile destino e rivela fino a che punto è stata compromessa la sovranità politica delle democrazie.
Le sentenze emesse da queste agenzie vengono presentate all’opinione pubblica come se fossero giudizi oggettivi e neutrali, ma la realtà è tutt’altro.
In primo luogo perché il settore del rating è dominato da un oligopolio anglo-americano costituito dalle tre sorelle Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch le quali possiedono un potere di mercato enorme. E poiché esiste uno scontro di grandi proporzioni tra il Vecchio Continente e il mondo capitalistico anglosassone che non aveva per nulla gradito la nascita di una nuova moneta che è entrata in concorrenza con il dollaro, sorge spontaneo il sospetto che i giudizi emessi da queste agenzie siano assolutamente di parte: le valutazioni negative sul rischio dei titoli di debito dei Paesi europei in difficoltà possono avere conseguenze molto pesanti sulla tenuta dell’Unione monetaria europea e sulla sopravvivenza dell’euro.
In secondo luogo perché nel ciclo di crescita precedente alla crisi del 2007/2008 le agenzie di rating avevano incoraggiato l’espansione di un indebitamento privato assolutamente irragionevole (vedi i mutui subprime) che aveva alimentato un’inflazione finanziaria chiaramente insostenibile. Tutto ciò traeva origine dal fatto che i colossi del rating sono segnati da pesantissimi conflitti di interesse in quanto S&P, Moody’s e Fitch hanno come azionisti fondi e banche che utilizzano le valutazioni di rischio per investire o per emettere obbligazioni. Si tratta di una situazione che da sempre solleva sospetti poiché è convinzione diffusa che le agenzie di rating abbiano assegnato voti troppo benevoli alle cartolarizzazioni dei mutui americani proprio per “coltivare” i propri clienti.
In terzo luogo perché i giudizi delle agenzie di rating vengono utilizzati in modo strumentale dalla Germania per fare pressione sui governi dei Paesi in recessione. L’ossessione tedesca per il risanamento delle finanze pubbliche viene sostenuta dalle agenzie di rating che orientano le decisioni dei mercati finanziari i quali continuano ad operare indisturbati nonostante la crisi che essi stessi hanno provocato. Siamo arrivati al paradosso che questi mercati, che poi non sono entità metafisiche ma grandi concentrazioni di potere, dopo essere stati salvati dall’intervento pubblico, si sono rivoltati contro gli Stati che costituiscono gli anelli più deboli della catena sabotando le politiche per il rilancio dell’economia. E così, mentre l’espansione del debito privato della fase precedente veniva assecondata senza battere ciglio, oggi la crescita del debito pubblico viene punita implacabilmente.
I giudizi emessi dalle “tre sorelle del rating” hanno dunque pesanti conseguenze sia sul piano economico che su quello politico. In questo periodo di crisi sono assolutamente vitali delle politiche economiche espansive che, però, richiedono tempi relativamente lunghi per dispiegare i loro effetti. Ogni prospettiva di rilancio della domanda viene sdegnosamente respinta in nome dell’austerità. Eppure tutti sanno che se durante una recessione si fanno delle manovre restrittive si manda a picco l’economia.
Occorre fermare questa situazione non solo perché non consente di promuovere un nuovo ciclo di crescita ma anche e soprattutto perché mette a rischio la sovranità politica
dei sistemi democratici.

La Repubblica 26.07.13

“Voto di scambio, si modifica la legge il Pd vuole norme più severe ma il voto ora rischia di slittare”, di Silvio Buzzanca

Fermi tutti: l’appello lanciato su Repubblica da Roberto Saviano e i pm antimafia è fondato. Il disegno di legge sul voto di scambio, approvato alla Camera e in discussione in commissione Giustizia al Senato, non va bene: bisogna riscrivere quelle parti del 416 ter del codice penale poco chiare che finirebbero per fare un favore ai mafiosi e rimetterebbero in discussione alcuni processi in corso. Lo stop arriva dal capogruppo del Pd Luigi Zanda. e di conseguenza il gruppo democratico ieri ha chiesto riaprire i termini per la presentazione degli emendamenti. Mantenendo però la sede deliberante, concessa dal presidente di Palazzo Madama. convinto che in quella sede si possono fare le modifiche.
Così i democratici potrebbero presentare due novità. «Vorremmo modificare le parti che riguardano il termine “procacciamento” aggiungendo la fattispecie della “promessa” che ora manca. – spiega il capogruppo in commissione Giuseppe Lumia -Occorre poi riportare il massimo della pena a 12 anni». Un colpo di scena che ha portato alla decisione di rinviare tutto ad un ufficio di presidenza che si riunirà lunedì o martedì della prossima settimana. Il testo licenziato con queste modifiche dovrebbe comunque poi tornare a Montecitorio.
Un percorso che deve fare i conti con il no di Pdl e grillini alla sede deliberante. Quelli del Movimento 5Stelle dicono che si può fare solo se c’è il parere favorevole di tutti i gruppi e loro non lo daranno. Perché, spiega il senatore Mario Giarrusso, a Grasso «era stato erroneamente detto che c’era l’unanimità. Era un segnale politico». Per noi, spiega «il testo risulta inaccettabile e abbiamo presentato degli emendamenti che chiederemo di votare. E al Pd diciamo di votarli con noi». In aula. Scenario che adesso accarezza anche il Pdl, minoranza in commissione. Per cercare qualche alleanza trasversale. E così si rischia che il voto slitti a dopo l’estate.
Il Pdl vedrebbe infatti far sparire dal testo la norma, voluta alla Camera, che il reato di voto di scambio scatti per «chiunque accetti consapevolmente il procacciamento di voti». Meglio allora rinviare. «Quello che sta accadendo è intollerabile. – dice allora Francesco Paolo Sisto – Tanto più se accade sulla scia di un articolo di Repubblica». Secondo Sisto, «simili incursioni nel lavoro meditato e condiviso delle Camere non devono essere consentite». Fabrizio Cicchitto, intanto, critica Saviano. «L’attacco che ha rivolto al testo 416 ter è del tutto pretestuoso». Saviano, dice Cicchitto, «evoca anche Cosentino nel senso che oramai si dovrebbero fare norme che ne assicurino la condanna in assenza di prove».
Il contrordine dei senatori democratici suscita però qualche malumore nei colleghi di Montecitorio che quelle norme che adesso si vogliono cambiare hanno approvato nel plauso generale. Malumori che vengono a galla. Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, dice che «sul 416 ter c’è un allarme del tutto infondato, che non fa bene nemmeno all’iter spedito di approvazione di questa legge al Senato ». E poi, chiede la Ferrante, i critici, a cominciare dal magistrato Raffaele Cantone, perché non hanno parlato prima?

La Repubblica 25.07.13