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“La necessità di separare due destini”, di Luigi La Spina

La ventennale parabola politica di Silvio Berlusconi rischia di chiudersi nel modo peggiore. Non tanto e non solo per lui, se a fine mese la Corte di Cassazione confermerà la sentenza di condanna a quattro anni e la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici, ma quel verdetto potrebbe trascinare l’Italia in una grave crisi politica e istituzionale.
Tutti i tentativi fatti, finora, per separare le vicende giudiziarie del Cavaliere dai destini del governo, dalle sorti della nostra economia e della nostra finanza, ma soprattutto dalle normali e corrette relazioni tra i fondamentali poteri dello Stato potrebbero dimostrarsi vani. La giornata di ieri, confusa e convulsa nelle aule del Parlamento e sulla piazza di Montecitorio, ma chiara, invece, nel suo preoccupante significato politico, ha annunciato, con la massima evidenza, l’accelerazione di un pericoloso smarrimento delle regole elementari sulle quali si basa una democrazia. Uno smarrimento che è cominciato da anni, che è proseguito con una colpevole assuefazione, sia da parte della classe politica, sia dall’opinione pubblica e che potrebbe portare a gravi conseguenze sul futuro del nostro Paese.

La richiesta del Pdl di sospendere per tre giorni i lavori del Parlamento, in segno di protesta per la fissazione della data in cui la Corte dovrà decidere la sorte giudiziaria di Berlusconi, non ha una giustificazione tecnico-giuridica, rappresenta una pesante minaccia nei confronti della serenità con la quale i giudici dovranno valutare le carte del processo, ma stabilisce anche un inaccettabile collegamento tra i destini di una persona e quelli della più importante istituzione politica dello Stato, quella che rappresenta la sovranità popolare. La limitazione temporale al solo pomeriggio di ieri, consentita da un voto al quale si è unito pure il Pd, non può cambiare il giudizio, perchè così si colpisce un principio fondamentale sul quale si regge l’equilibrio dei rapporti tra istituzioni e che non può essere calcolato a ore o a giorni, nè condizionato da compromessi per salvare un governo.

È giusto che si chieda alla Cassazione di osservare quella legge che impone di impedire le prescrizioni, in tutti i processi, non solo quando l’imputato è il Cavaliere, ma è paradossale e sintomo di debolezza nelle convinzioni di innocenza che si punti non alla rapidità di un verdetto, ma a una soluzione che non chiarisca da quale parte sia la ragione. Comprensibile, pure, che Berlusconi e il suo partito diffidino dell’imparzialità del tribunale di Milano, ma un simile sospetto non può certo toccare quella Corte che ha già dimostrato, più volte, di esprimere valutazioni del tutto diverse dalle sentenze di quei magistrati. Se, poi, si coinvolgesse tutta la magistratura italiana in un fantomatico e improbabile complotto contro il principale leader della destra, non si capirebbe come il più volte capo del governo italiano abbia accettato di ricoprire una delle più alte cariche di uno Stato a cui sarebbe mancato un principio fondamentale per essere giudicato una democrazia.

Né le lotte interne tra «falchi» e «colombe» nel partito di Berlusconi, nè le dispute nel Pd tra l’attuale dirigenza e le scalpitanti truppe di Renzi, ma neanche le conseguenze sul precario accordo di larghe intese sul quale si regge il ministero Letta possono confondere al tal punto le idee sullo stravolgimento di alcune regole basilari della nostra Repubblica, il cui rispetto non costituisce un ipocrita formalismo, ma l’indispensabile condizione per cui la lotta politica non degeneri in uno scontro civile. Le dosi omeopatiche di cloroformio sulla sensibilità democratica immesse nella vita pubblica italiana in questi anni stanno arrivando a compromettere la coscienza della nazione in modo assai allarmante e la sentenza su Berlusconi del 30 luglio rischia di svelare, in un drammatico finale d’atto, i guasti che troppe compiacenze, troppi compromessi, troppe sottovalutazioni hanno prodotto nella società italiana.

Da vent’anni la giustizia di questo Paese, che dovrebbe essere profondamente riformata, sia per le lentezze delle sue procedure, sia per le incertezze di un diritto troppo esposto a eccessive discrezionalità da parte dei magistrati, viene condizionata, invece, dai verdetti su Berlusconi e le leggi che il Parlamento emana in questo campo vengono valutate solo per le conseguenze che possono avere sulle sue sorti giudiziarie. Ora, il rischio è di affidare alla Cassazione non la sentenza su un leader politico, ma la sorte di un governo che molto faticosamente sta cercando di far uscire l’Italia da una pesante crisi economica e occupazionale, l’andamento della finanza pubblica e, magari, le possibilità di un civile confronto politico. Un destino che non è compito di una Corte di giustizia determinare e che, forse, l’Italia e gli italiani non meritano.

La Stampa 11.07.13