attualità, politica italiana

"Cinque messaggi per l’Italia", di Pietro Spataro

Nelle urne è accaduto il contrario di quello previsto. Con un tratto di matita gli elettori hanno smentito le certezze degli analisti e i numeri dei sondaggisti: e infatti il Pd non è sparito, Berlusconi non ha in mano le chiavi del Paese e Grillo non è il deus ex machina del nuovo che avanza. Le cose, come sempre, sono più complesse e i segnali del voto ci dicono, in modo certo confuso, che il Paese non è un malato terminale: la spinta al cambiamento resiste e il bipolarismo destra-sinistra resta il cuore del sistema politico.

Semplificando, sono cinque i messaggi in bottiglia spediti a Roma dalle città d’Italia. Il primo riguarda il Pd. Nonostante ce l’abbia messa tutta per farsi del male, dimostra non solo di esistere ma di avere una forza molto radicata. Anzi, soprattutto nella periferia del Paese il suo profilo è più chiaro e la sua natura riformista più solida. Non a caso riconquista Comuni che già governava come Pisa, Imola e Vicenza, è in vantaggio in tutti i ballottaggi, ottiene un grande successo a Roma con Marino, contende al Pdl la roccaforte di Brescia e alla Lega addirittura quella dello «sceriffo di Treviso» Gentilini. Insomma, il Pd resta un partito vivo e combattivo quando si assume la responsabilità, quando è vicino ai cittadini, quando trova le soluzioni invece che perdersi nel gioco di interdizione tra i leader. È ovvio che governare un partito grande e con sensibilità diverse è più difficile man mano che ci si avvicina al centro dove inevitabilmente si concentrano i nodi, ma è anche vero che il voto chiede al Pd proprio questo: di smettere i panni dell’«armata brancaleone» e di ritrovare nella sua comunità le ragioni di una missione politica, dello stare insieme e del cambiamento radicale del Paese. Sono segnali forti, che non sminuiscono la crisi del Pd, ma che offrono una possibile via per ricominciare.
Il secondo messaggio è per il Pdl e per Berlusconi che escono ammaccati dal voto. Chi ci ha spiegato che il Cavaliere, grazie all’«arrendevolezza del Pd», era tornato al centro della scena deve prendere atto che non è così. Un partito che nei sondaggi veleggia oltre il 30%, nelle urne reali è ridotto sotto il 20 e non riesce a tenere nelle zone di riferimento (basti citare Brescia e Imperia). vero che il «padronaggio» di Berlusconi in periferia funziona meno e gli elettori non si fidano dei berluschini, ma questo voto conferma la crisi di un sistema monocratico che domina il Pdl dalla sua nascita. Se per anni quel sistema è stato forza propulsiva oggi è solo debolezza frenante. È difficile per un partito marchiato dalla leadership di Berlusconi accettare questa diagnosi. Però nel Pdl ci sono persone le quali su ciò riflettono da tempo e sanno che o si riesce a costruire una nuova cultura politica e un partito che guarda all’Europa piuttosto che alle aule di Tribunale, oppure il Pdl è destinato a seguire la parabola (non più ascendente) del suo leader. Che non riguarda le sue vicende giudiziarie ma la sua incapacità di ritrovare un’idea di Paese, un disegno che leghi ogni pezzo d’Italia e i suoi blocchi sociali alternativo alla sinistra.
Il caso Grillo è forse il più sorprendente. Il nuovo uomo della provvidenza, l’eroe dello tsunami e del vaffa-day, quello che voleva prendere a calci i politici e rivoltare il Paese come un calzino, si è giocato in novanta giorni gran parte del consenso. Manca tutti i ballottaggi e subisce un tracollo micidiale: dal 24,6% delle politiche all’8,4 di oggi. Hai voglia ora a urlare contro l’«Italia peggiore» che non ha votato il M5S. Si tratta di fumogeni. Il problema è che Grillo ha portato le sue truppe al fallimento. Ha mancato tutti gli appuntamenti del cambiamento, a cominciare da quello sul governo. Non ha capito che quei nove milioni che lo hanno votato a febbraio non pensavano di affidarsi a un «giocoliere del no»: volevano cambiare. Ma lui li ha costretti a subire inutili dibattiti sulla diaria dei parlamentari o sulla facoltà di fare interviste. Ma loro, gli elettori, volevano altre risposte. Non le hanno avute e si sono girati dall’altra parte come è già successo con altri in Europa, dai Pirati tedeschi all’Alba Dorata greca. Il problema dei Cinque stelle, ora, è capire finalmente questo. Ma chi ci prova deve sapere che lungo questa strada il conflitto con il grande leader diventerà sempre più insanabile. Sull’astensione è stato detto molto. Michele Ciliberto ieri su questo giornale ha spiegato quali sono i pericoli per la democrazia se l’area del non voto resta così ampia. Quel 38% di elettori che è rimasto a casa è un’ipoteca sul funzionamento del sistema politico, è il segno drammatico di un’asfissia. Il Pd dovrebbe interrogarsi su quanto sia vasta la zona potenzialmente di sinistra di quella platea silente. L’impressione è che non sia piccola. Stanchi, arrabbiati o delusi, molti di quegli italiani potrebbero essere recuperati alla buona politica, solo se il Pd riuscisse a non chiudersi, ma si aprisse di più, fosse più accogliente, ascoltasse con attenzione anche la protesta e l’indignazione. Non è facile, ma passa anche da questo lavoro di riconquista degli scoraggiati la possibilità di ripresa del centrosinistra.
Il quinto messaggio del voto è anch’esso il contrario di quel che si è letto. Qualcuno ha spiegato che gli elettori hanno premiato la «grande coalizione» e il governo Pd-Pdl. È una lettura abbastanza stravagante perché gli elettori al contrario hanno capito, premiando ilPdmanonilPdl,chenoncisono né governissimi né grandi coalizioni in campo, ma solo una scelta di responsabilità nazionale dettata dall’emergenza. Se fosse vero il contrario il Pd sarebbe stato punito perché gli elettori di centrosinistra il governo con Berlusconi in quella versione «strategica» non lo accetterebbero mai. D’altra parte il voto amministrativo è stata la prova della vitalità del bipolarismo e della competizione destra-sinistra. Quindi semmai gli elettori hanno premiato il sano conflitto democratico. Non sappiamo se questo voto rafforzi o meno il governo. Sicuramente, visto il risultato del Pd, rende più forte Letta e gli offre una marcia in più per spingere la «stranissima maggioranza» a occuparsi in modo energico e nei tempi fissati dei due temi che stanno a cuore al Paese: il lavoro e la riforma della politica. Poi, sinistra e destra, come si usa in qualsiasi democrazia e come gli elettori nelle città hanno dimostrato di gradire, dovranno tornare a sfidarsi a duello.

L’Unità 29.05.13