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"Non c’è governo senza partito", di Claudio Sardo

Non sarà facile il compito di Guglielmo Epifani. Perché la crisi del Pd non è figlia soltanto di una congiuntura negativa, prodotta dall’insuccesso elettorale e dalla catena di errori e diserzioni conseguenti. Siamo nel pieno di un collasso del sistema politico. Anzi, siamo dentro una gravissima crisi democratica. E il Pd è diviso. Da un lato è attraversato da una fortissima domanda di cambiamento, tanto da rendere tangibile un legame tra la risposta a questa domanda e la sua stessa ragion d’essere.
Dall’altro è schiacciato in una tenaglia: il Parlamento senza maggioranza e l’austerità europea ancora da superare. Il rischio è che la paralisi raggiunga tutte le parti del corpo. E la tentazione di molti è di fuggire dalla responsabilità dell’oggi. Di immaginare uno spazio in cui progettare il Pd di domani, mettendo tra parentesi le laceranti contraddizioni di questo passaggio. Ma ciò è impossibile. Non si può costruire il domani migliore senza passare da questo tempo difficile, soprattutto senza tentare di dare subito risposte alle sofferenze sociali, senza prendere di petto le emergenze economiche, senza affermare finalmente la priorità del lavoro. Il lavoro in testa ad ogni politica di governo. Il lavoro come condizione di sviluppo e di equità. Il Pd non può andare all’opposizione di se stesso, perché ha troppe responsabilità verso il Paese. Tutte le principale cariche istituzionali sono affidate a uomini della sinistra, il governo è guidato da un premier della sinistra, la maggioranza dei ministri è di sinistra, la maggioranza assoluta della Camera è di sinistra, i governatori di più della metà delle Regioni italiane e i sindaci di quasi tutte le grandi città sono di sinistra. Il Pd resta, nonostante i suoi gravi difetti e i suoi limiti (anche di consenso), la cerniera principale del Paese e del sistema politico. La sua centralità è ragione, per molti aspetti, di affanno e di logoramento: lo è soprattutto quando il cambiamento diventa impraticabile e la spirale dell’impotenza, della vuota litigiosità tra persone avvolge ogni cosa. Non è vero che Berlusconi e Grillo hanno rubato il ruolo al Pd: è vero invece che un Pd smarrito e senza rotta regala a Berlusconi e Grillo un protagonismo e un potere che altrimenti neppure si sognerebbero. Il Cavaliere non è più in grado di guidare l’Italia, né di regalare sogni ad un blocco sociale vincente. Le sue balle sull’Imu vengono ridicolizzate anche dal presidente di Confindustria. Solo la rinuncia del Pd alle proprie responsabilità può esaltare il potere di condizionamento di una destra a corto di idee. Dall’Assemblea nazionale di oggi parte una nuova sfida. Il governo proposto dal Pd agli elettori non ha ricevuto il consenso sufficiente. L’ipotesi di un esecutivo di minoranza è stata demolita prima dal patto Berlusconi-Grillo, poi dallo scellerato affossamento delle candidature di Marini e Prodi da parte dello stesso Pd. La via delle elezioni anticipate è sbarrata da una legge elettorale priva ormai della minima legittimità. La ri-progettazione del Pd non potrà che avvenire nel vivo di una battaglia, che passerà dal governo di Enrico Letta. Il governo Letta offre un’opportunità al Pd: di radicare il suo nuovo progetto per l’Italia nella battaglia concreta per rilanciare lo sviluppo e il lavoro. E di affrontare l’emergenza democratica: se il Pd venisse meno come progetto, il populismo alimentato dalla crisi sociale potrebbe insidiare le fondamenta stessa della democrazia rappresentativa. E non sarebbe certo una sinistra radicale e marginale a costituire un argine sufficiente a torsioni oligarchiche, o addirittura dispotiche.

Guglielmo Epifani è stato in questi anni uno dei più prestigiosi editorialisti de l’Unità. Ha scritto il suo ultimo articolo per noi proprio il giorno in cui Letta ha presentato il nuovo governo. «C’è una grande domanda di cambiamento, di equità e di solidarietà – ha scritto – a cui il Pd non può non dare risposta, pena l’offuscamento del suo ruolo e della sua funzione». «Il Pd dovrà presidiare il fronte sociale e lavorare da stimolo all’azione del governo. Anche perché dopo dovrà tornare una dialettica tra forze alternative, rese più mature da questa esperienza nel nuovo esecutivo, il cui risultato segnerà anche il giudizio sul Pd». Il tema non è mai stato una retorica «pacificazione». Il tema è come attraversare l’emergenza, usando il governo a servizio del Paese, per tentare di invertire la rotta di politiche depressive e aggredire finalmente le riforme istituzionali. Il tema, per la sinistra, è come tenere insieme l’impegno verso l’economia reale con una nuova idea di partito e di programma politico. Il tema per il Pd è vivere la grande coalizione come una modalità diversa della competizione politica, avendo ben presente l’interesse nazionale ma anche la libertà dal potere (nessun governo è comunque obbligatorio).
La velocità dei mutamenti è impressionante. Bisogna analizzare senza reticenze gli errori compiuti. E mettere in campo una nuova classe dirigente, senza recidere il filo che lega la storia nazionale e le culture riformatrici. L’augurio al Pd è che non separi la discussione sul partito – e il radicamento da riconquistare, a partire dai ceti popolari – dagli obiettivi concreti della sua battaglia sociale. Noi de l’Unità conosciamo bene il traghettarore Epifani per la sua esperienza, per la sua attenzione al tema del lavoro, per la sua apertura culturale. Ce ne sarà bisogno in un partito che vuole restare plurale, ma non vuole perdere efficacia diventando anarchico.

L’Unità 11.05.13

"Alle elementari in anticipo? Un handicap non un vantaggio bruciare i tempi peserà a vita", di Enrico Franceschini

Siete andati a scuola troppo presto, o ci sono andati troppo presto i vostri figli? Avete la giustificazione, o perlomeno una scusa “scientifica”, per i brutti voti che vi davano maestri e professori. Una ricerca di un autorevole think tank britannico ha scoperto, statistiche alla mano, che bambini e ragazzi che cominciano la scolarizzazione a poco meno o poco più di 6 anni sono svantaggiati per tutto il corso delle elementari, delle medie inferiori e in misura minore ma tangibile anche delle superiori rispetto agli alunni che iniziano a studiare a 6 anni e mezzo o 6 anni e tre quarti.
In pratica, chi parte da un grado di minore maturità e sviluppo, dettato dall’et à, è mediamente svantaggiato per tutta l’infanzia e l’adolescenza. A tale punto che i ricercatori inglesi consigliano alla scuola di cambiare sistema di giudizio, pretendendo di meno, all’interno di una stessa classe, dagli allievi più giovani: il 6 o il 7 di un remigino che ha 6 anni e tre mesi, per esempio, dovrebbe valere come l’8 o il 9 di uno che ha 6 anni e nove mesi, e così via per tutto il tempo che si va a scuola.
È un rapporto dell’Institute for Fiscal Studies, una società di analisi economiche, ad annunciare i risultati dello studio, condotto principalmente su bambini di 11 anni dell’anno scolastico 2008-2009. I dati sembrano inequivocabili. Chi a settembre, quando comincia la scuola, ha 6 anni, diciamo i nati nel mese di agosto, non solo ottiene mediamente voti peggiori di chi la comincia a 6 anni e 4 mesi e più di età, ma si trascina questo handicap fino agli esami di maturità, o all’equivalente livello nei paesi anglosassoni.
Tanto è vero che ha il 6,4 di probabilità in meno (rispetto alla media) di ottenere, alla fine degli studi superiori, i voti necessari ad accedere alle università migliori del Regno Unito, come Oxford e Cambridge, o equivalenti in altri paesi. Chi la comincia a 6 anni e 4 mesi ha il 15 per cento di probabilità in più di avere i voti per entrare a Oxford e Cambridge; chi la comincia a 6 anni e 7 mesi ha il 17 per cento di probabilità in più di entrarvi; e chi la comincia a 6 anni e 9 mesi ha addirittura il 25 per cento di probabilità in più. Una differenza sostanziale, se non abissale.
Come mai? La risposta degli esperti consultati dal think tank
per il suo rapporto è semplice: chi inizia a studiare quando ha un grado di maturità e di sviluppo superiore gode di un vantaggio accademico che si trascinerà negli anni. Più sei piccolo, insomma, più fai fatica a stare al passo con quelli un po’ più grandicelli.
Certo, tre mesi o sei mesi di differenza di età non sembrano un grande divario, nell’arco di una vita: ma per un bambino di 6 anni rappresentano percentualmente un divario di età consistente.
Questo non significa, naturalmente, che i remigini più piccoli di età siano destinati a una vita di insuccessi e delusioni: Barack Obama, nato in agosto, è andato a scuola a poco più di 6 anni. Ma nella sua autobiografia, Dreams of my father, il presidente degli Stati Uniti ricorda che da ragazzo era uno studente svogliato e prendeva pessimi voti; soltanto più tardi, quando è maturato, è diventato il primo della classe alla Harvard University, per tacere del fatto che è poi finito alla Casa Bianca. E a 6 anni appena compiuti sono andati a scuola anche Bill Clinton, Margaret Thatcher, T.S. Eliot e, per andare un po’ più indietro, Napoleone Bonaparte. Come che sia, se il vostro bambino nato in agosto porta a casa brutti voti, potrà prendersela con voi: papà e mamma, potrebbe dirvi, perché non mi avete fatto nascere in gennaio?

La Repubblica 11.05.13

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“Non c’è una regola, va considerata l’indole”

«È vero che nei primi anni scolastici chi è nato da giugno ad agosto può incontrare maggiori difficoltà, che col tempo tendono a riassorbirsi ». È l’opinione di Massimo Ammaniti, docente di Psicopatologia dello Sviluppo alla Sapienza di Roma.
Professore, come si spiega questo fenomeno?
«Un bambino, anche di pochi mesi più piccolo degli altri, ha una diversa maturazione cerebrale e pu ò avere minori competenze sociali e di autocontrollo. Quindi si adatta alla disciplina con più fatica, con rendimenti scolastici peggiori»
E fino a quanto possono durare?
«Non molto, di solito. Mi stupisce che nello studio dell’Institute
for Fiscal Studies
vengano ipotizzati riflessi per i nati tra giugno e agosto che possono arrivare fino alla fine degli
studi superiori. In base alla mia esperienza, è davvero raro. A meno che in quel lavoro non si tenga conto di altri fattori, anche climatici, ma la cui incidenza sul percorso disciplinare di un alunno è tutta da dimostrare».
Mandare i bambini a scuola un anno prima è giusto o no?
«Non c’è una regola generale. Ci sono bambini che già alla scuola materna imparano a scrivere e a leggere. In questo caso sì, pu ò essere un vantaggio. Ma con altri che mostrano minore interesse per il disegno, la lettura e la scrittura non conviene accelerare. Poi le elementari richiedono attenzione, concentrazione, rispetto delle regole e del gruppo. Anche di quello va tenuto conto, prima di decidere ».

La Repubblica 11.05.13

"Il governo piace a un italiano su due Renzi e Letta sono i leader preferiti", di Ilvo Diamanti

Mentre l’insoddisfazione appare ampia nella base di SEL e, soprattutto, del M5S. È un paradosso che richiama, almeno in parte, il clima d’opinione che ci circonda. Uno “stato di necessità” economica e sociale che si traduce in uno Stato di Necessità. Con le iniziali maiuscole. Un modello di governo e di alleanza politica-parlamentare divenuto regola, più che eccezione, in Italia. Visto che il governo guidato da Letta appare, per molti versi e con alcune distinzioni, la prosecuzione di quello guidato da Monti. Una risposta alla crisi: dell’economia,
ma anche della politica. All’incapacità di costruire maggioranze omogenee e stabili in Parlamento. Perché, in effetti, anche la società è divisa. In grandi minoranze. Così la maggioranza dei cittadini accetta e, anzi, accoglie con sollievo il “governo di necessità”. Convinta che possa affrontare efficacemente l’emergenza
economica. Riformare la legge elettorale.
Gli italiani hanno “fiducia” nel governo e ancor più nel premier, Enrico Letta. Il quale, personalmente, è valutato in modo positivo dal 63% degli intervistati. Tuttavia, ripeto, si tratta di uno “Stato di necessità”. Dove la domanda di “soccorso” supera, di gran lunga, la convinzione di ottenere risposte concrete. Così, la maggioranza dei cittadini (59%) pensa che il governo dovrebbe proseguire la propria azione fino a concludere la legislatura. Ma, al tempo stesso, ritiene che non ci riuscirà (56%). Perché cadrà prima. D’altronde, le intese sono larghe, ma le affinità elettive molto strette. Oltre il 48% degli elettori (e il 51% di quelli PD) pensa, infatti, che i partiti della maggioranza non riusciranno a governare insieme, a causa delle differenze profonde che li separano. Da ciò il rischio, già evocato: che questo governo si appoggi su intese larghe, ma poco solidali. Anche perché fra gli “alleati” c’è reciproca sfiducia o comunque diffidenza verso l’altro. D’altronde, circa un terzo degli elettori ritiene che questa esperienza favorisca il PD mentre una quota di poco superiore (38%) pensa il contrario. Che sia il PdL ad avvantaggiarsi. Si tratta di una considerazione che divide, all’interno e in misura molto simile, entrambi gli elettorati. Uniti per necessità assai pi ù che per condivisione. Gli orientamenti di voto, comunque, dimostrano che, fin qui, sia il PdL ad essere cresciuto di più, nel dopo- voto. Oggi è il primo partito, con il 26,6%. Mentre il PD è scivolato al 25%. Il M5S è sceso di poco, attestandosi intorno al 23%. Il M5S, d’altronde, alle elezioni ha intercettato una componente significativa di elettori incerti e insoddisfatti, provenienti dalle due maggiori coalizioni. Oggi, quegli elettori si sono, in parte almeno, rifugiati nella zona grigia dell’astensione, dell’indecisione. In attesa della prossima scadenza, della prossima occasione.
È, peraltro, chiaro come Silvio Berlusconi abbia recuperato immagine e credibilità. È, infatti, risalito quasi al 30%, nella fiducia degli elettori. Il livello più elevato degli ultimi tre anni. La graduatoria dei leader, in base alla considerazione degli elettori, conferma il primato di Matteo Renzi. Seguito da Enrico Letta e da Emma Bonino. A conferma del gradimento di cui beneficia, almeno per ora, il governo. La posizione di Renzi è particolarmente significativa. È, infatti, il più stimato dagli italiani. E, al tempo stesso, il più “votato” dagli elettori del PD, come leader e futuro segretario. Seguito, di lontano, da Letta e, a distanza ancor superiore, da Barca, Chiamparino, Civati ed Epifani (destinato a traghettare il partito fino al prossimo congresso).
Peraltro, la sindrome della dissoluzione che, in questa fase, si respira nel PD, non corrisponde all’orientamento dei suoi elettori. I quali, in larghissima maggioranza, rifiutano l’idea che il partito si divida. E ribadiscono la volontà che il PD scelga il proprio segretario attraverso Primarie aperte piuttosto che attraverso procedure congressuali, rivolte alla cerchia degli iscritti e degli eletti. In altri termini: gli elettori credono ancora nel Partito Unitario del Centrosinistra. Nato dall’Ulivo. E indebolito dai conflitti e dalle resistenze che allignano nella nomenclatura e nei gruppi dirigenti. A livello centrale. Ma anche locale. Un partito che ha suscitato consenso e adesione quando si è affidato alla partecipazione. Quando si è aperto alla società e al territorio. Quando ha saputo parlare di valori. Ma che troppo spesso se ne è dimenticato. Inseguendo il modello berlusconiano. Senza esserne capace. Oggi è alla ricerca di un leader condiviso. Matteo Renzi, però, dopo la delusione delle primarie, si nasconde.
Un altro segno di questi tempi crudi. Scanditi da un governo di necessità. Sostenuto da due partiti incerti, per ragioni diverse e opposte.
Il PdL: dipende da un Leader unico e insostituibile. Inseguito da conflitti di interessi e dai propri guai giudiziari. Il PD: sospeso e in-deciso. In attesa che il leader preferito dagli elettori (più che dai dirigenti) si decida a uscire dall’ombra.

La Repubblica 11.05.13

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“Il Pd subisce il sorpasso del Pdl gli elettori chiedono le primarie”, ROBERTO BIORCIO e FABIO BORDIGNON

Unità, apertura verso la base, leadership forte: sono queste le richieste che il popolo democratico sembra inviare al partito che si riunisce oggi per l’Assemblea Nazionale. Nelle stime dell’Atlante politico di Demos,
il Pd si conferma sui (deludenti) livelli delle recenti Politiche (25%), e subisce il sorpasso del PdL. Resta molto forte l’idea di mantenere unito il partito e scongiurare scissioni, ma sono molto visibili, anche nell’elettorato, i segni delle divisioni che hanno lacerato il gruppo dirigente.
Gli elettori del Pd si dividono esattamente a metà sulle scelte per la presidenza della Repubblica, fra chi ritiene Napolitano la scelta preferibile, e chi invece avrebbe preferito un’altra soluzione. Il governo Letta gode naturalmente di un largo consenso tra gli elettori democratici (69%). Ma si manifestano idee divergenti sulla sua azione ed i suoi effetti. Quasi metà degli elettori si aspetta una buona collaborazione fra le sue componenti (47%), mentre gli altri prevedono contrasti su tutto (51%).
Il complicato dibattito sui possibili candidati alla segreteria riflette le difficoltà nel formulare proposte condivise, in grado di superare le spaccature e rilanciare il partito. Due leader sono ai primi posti tra i politici più apprezzati dalla base elettorale: il neo-premier e il sindaco di Firenze Matteo Renzi, indicato da oltre la metà degli interpellati come segretario preferito (54%). Più controverso è invece il giudizio sul segretario uscente Bersani. Ridotto appare, d’altra parte, il consenso per altri possibili “nomi” circolati nelle ultime settimane — da Chiamparino a Barca, da Civati a Epifani.
Oggi, molto probabilmente, un nuovo segretario sarà votato dall’Assemblea. Tuttavia, dagli elettori emerge con forza la domanda che la parola torni il prima possibile alla base, con la pratica delle primarie aperte (69%), mentre solo il 27% pensa a una selezione attraverso le tradizionali procedure congressuali. Questa domanda di partecipazione è sentita come molto importante perch é scritta nel dna dell’elettore democratico. Esiste inoltre la percezione che la posta in gioco abbia a che fare non solo con la scelta del futuro leader, ma anche con la stessa identità di questo soggetto politico. Con la convinzione che il Pd debba rimanere “un” partito (89%), mentre le spinte alla disgregazione coinvolgono una frazione minoritaria (5%).

La Repubblica 11.05.13

Insulti Kyenge “Grazie Cécile, ma gli italiani un po’ sono razzisti”

Lettera dei parlamentari Pd Baruffi, Galli, Ghizzoni, Patriarca, Pini, Richetti e Vaccari. I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini, Matteo Richetti e Stefano Vaccari, dopo gli interventi in Aula e le singole prese di posizione, scrivono una missiva comune alla collega modenese Cécile Kyenge, neo-ministro per l’Integrazione del Governo Letta, da giorni oggetto di reiterati attacchi razzisti, xenofobi e sessisti. Ecco il testo della lettera:

«Dopo i parlamentari della Lega Nord, dopo la Rete, arriva anche Forza Nuova. Tutti all’improvviso affratellati da un nuovo grande nemico: l’uomo nero. Anzi, un “incubo” ancora peggiore di quello delle favole: la donna nera. La nostra collega modenese Cécile Kyenge, da quando è stata nominata ministro per l’Integrazione nel Governo Letta, è stata oggetto di reiterati attacchi verbali e scritti, violenti nei toni e nei contenuti, offese di stampo razzista, xenofobo e sessista. La sua colpa? Essere una donna nera, preparata, in posizione di governo e con alcune idee su come dovrebbe cambiare questo Paese. Ad ogni nuova bordata di insulti Cécile ha risposto con compostezza e invitando al dialogo. Ha negato che questo Paese sia razzista, ha parlato di un Paese con una antica tradizione di accoglienza e ospitalità. Grazie Cécile, ma un po’ razzisti, invece, gli italiani (almeno alcuni) lo sono e, purtroppo, come noi, un po’ più razzisti stanno diventando anche alcuni Paesi di questa nostra Europa dove la crisi economica e sociale sta avendo, tra le tante nefaste conseguenze, anche quella di convincere molti cittadini a rinchiudersi nel proprio giardino, indifferenti e impotenti di fronte a tutto quello che accade al di là della recinzione. Con questa lettera vogliamo, ancora una volta, esprimere tutta la nostra vicinanza, sostegno e solidarietà a una persona che ha saputo conquistarsi con lo studio, la fatica e la volontà, un ruolo nella nostra società e che, nel contempo, non ha mai smesso di occuparsi degli altri, un impegno “politico” nel senso più alto della parola. Potremmo sorridere del fatto che gli italiani “puri” di Forza Nuova, nella loro delirante missiva, scrivono che “gli stranieri sono alieni alla nostra cultura” e lo fanno sbagliandone l’ortografia. Purtroppo la violenza insita in ogni forma di intolleranza affievolisce anche il senso dell’ironia. Le esperienze delle nostre amministrazioni, l’impegno dei sindacati, il mondo del volontariato, i programmi del nostro partito: tutto nelle nostre terre parla di aiuto concreto e condivisione. Non abbassiamo la guardia, investiamo in cultura e sapere, formiamo e informiamo, confrontiamoci con chi ha idee diverse, ma al contempo difendiamo con convinzione le nostre. Un bambino che è nato in Italia, che parla la nostra lingua, che studia nelle nostre scuole, è un bambino italiano. Ha ragione Cécile, noi siamo con lei».

"Nel circolo dei pendolari non si occupa, si sciopera", di Jolanda Bufalini

Il circolo non lo possono occupare perché sono pendolari, però sono molto arrabbiati i 220 iscritti al Pd di Fonte Nuova, piccolo paese alle porte di Roma. E allora la segreteria ha deciso una forma nuova di protesta, lo sciopero dei volontari, o militanti, che dir si voglia, anche perché, spiega il segretario Giacomo Marchese: «Noi siamo in periferia ed era tempo di lanciare un segnale». Il loro, spiegano in una lettera aperta alla segreteria del partito, non è uno dei circoli «dei bei quartieri della capitale dove le Tv sono sempre a caccia del militante deluso». Però delusi sono anche loro.
«Da oggi scrivono nella lettera, mandata anche ai parlamentari del Lazio e al Pd regionale cesseremo ogni attività di propaganda, ogni incontro pubblico, ogni evento, fino a quando non avremo risposte dagli organismi superiori, risposte che per la verità sarebbero già dovute arrivare dopo la incommentabile vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica». Ne hanno digerite tante, ma non ne vogliono più sapere fino a quando non avranno capito una serie di cose, fino a quando qualcuno non si deciderà a spiegare cosa è successo ai circoli che per statuto, sono «le unità organizzative di base attraverso cui gli iscritti partecipano alla vita del partito» e invece si sono trasformati in «primarifici».
Le domande della lettera, che saranno il fil rouge dell’assemblea degli iscritti convocata per il 26 maggio (alla quale sono invitati i parlamentari del Pd eletti nel Lazio) sono tante, a cominciare da: «Come si è passati dall’esclusione categorica di un governo con il Pdl cioè con Berlusconi al governo sostenuto (e ben rappresentato) dal Pdl?».
Per Ermanno Iannacci, responsabile comunicazione, il nodo da sciogliere è ancora più radicale: «Che partito vogliamo? Sono passati cinque anni dalla nascita del Pd e ancora discutiamo su partito liquido o solido, vocazione maggioritaria o alleanze. Intanto abbiamo perso due elezioni, gli elettori hanno deciso che non siamo affidabili per governare. Non c’è una questione su cui il Pd esprima una posizione chiara e netta, a cui sostituisce l’appello alla responsabilità. Addirittura, in campagna elettorale
c’era qualcuno che sosteneva che l’agenda Monti era la nostra». Il problema, aggiunge, «è quello della militanza, io resterò comunque un elettore del centrosinistra ma voglio sapere se ha senso dedicare il mio tempo libero al partito».
Per il segretario del circolo Giacomo Marchese «il passaggio del Quirinale è in contraddizione con la volontà dell’elettorato, che non avrebbe voluto le grandi intese». E un fatto molto grave è avvenuto con Prodi: «Hanno votato contro il padre nobile del Pd per impallinare Bersani». In questo modo «il partito si è consegnato a Napolitano e alle larghe intese». Una resa, sostiene, senza condizioni: «Ci siamo messi nella condizione di subire invece di esprimere una linea… si poteva, per esempio, mettere al primo punto la legge elettorale, definire dei tempi». Alla obiezione che anche Marini è stato impallinato dal voto dei franchi tiratori, il segretario del circolo risponde che «anche quello, certamente, è stato un errore, però di scala diversa. È stato un errore della dirigenza che non ha cercato la condivisione». E alla obiezione che, se è vero che l’elettorato Pd era contro le larghe intese, è anche vero che le elezioni il Pd non le ha perse ma non le ha nemmeno vinte, risponde che «si poteva giocare diversamente, tornare a votare, dopo aver inchiodato Grillo alle sue responsabilità. In Grecia si è votato e lì la crisi morde più che da noi».
Un gruppo dirigente, quello del circolo pd alle porte di Roma, che si è speso, al tempo delle primarie nazionali, per Bersani. «Sarebbe stato dice Marchese un bravo presidente del Consiglio e un ottimo capo coalizione», però, in quelle primarie era in gioco anche «l’idea di partito rispetto a Renzi». E tuttavia, questi militanti che rivendicano il loro impegno nella «partita delle regionali, nonostante si sostenga che le elezioni si vincono nelle grandi città», guardano criticamente alle primarie: «nella competizione interna si finisce per non fare sintesi». Separare elezione del segretario e del candiadto premier? «Forse nelle condizioni attuali sì», risponde Giacomo Marchese, «anche se rispetto all’Europa è un’anomalia». Ermanno Iannacci: «Chiediamo un percorso certo fino al congresso, si farà battaglia sul partito che si vuole».

l’Unità 10.05.13

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Piero Ignazi: «Mi iscrivo ora perché quando un amico è in affanno lo si soccorre. Ora però un congresso vero per un partito vero non una passerella». «Il Pd resta l’unica possibilità ma basta illusioni bipartitiche», di Bruno Gravagnuolo

«Un partito-associazione, che si divide ma poi sceglie leader e programma. Non una passerella mediatica, e neanche un partito elettorale che occupa lo Stato». Lo sogna così Piero Ignazi il Pd e per questo ci si iscrive, nel pieno della bufera. Ha molto in comune con Fabrizio Barca che si è molto ispirato, nella sua «memoria» sulla forma-partito, all’ultimo saggio di Ignazi: Forza senza legittimità (Laterza). Titolo che descrive in negativo ciò che il Pd non deve essere per il politologo, docente di Politica Comparata a Bologna.
Professor Ignazi, dopo anni di cortese distanza, ha dichiarato solennemente che prenderà la tessera del Pd. E lo fa nel momento meno felice per il Pd. Come mai?
«Quando un amico è in affanno lo si soccorre. Del resto a sinistra non c’è altro, se non un arcipelago minoritario. Il Pd malgrado tutto rimane l’unica forza alternativa alla destra. O meglio, è la colonna portante di ogni possibile coalizione in tal senso, visto che in Italia non può esistere un bipartitismo all’americana. Era solo un’invenzione da politologi, perché in Europa le forze intermedie contano parecchio come si è visto anche nella “maggioritaria” Inghilterra».
Ma non c’è stata un’implosione sul Quirinale che ha fatto venire a galla una sorta di anarchia ingovernata?
«Non è venuto a galla nulla. Nulla di trasparente. E poi un conto è la discussione su Marini altro la liquidazione di Prodi. Qui il Pd si è svelato simile alla Dc di una volta, che peraltro andava oltre le faide, in virtù della divisione di Yalta. Ma non c’è stata una crisi verticale di valori, come accade con la fine di Dc e Pci. Ci sono stati gravi errori di gestione politica, prima nella campagna elettorale, poi nella partita sul Colle. Nondimeno un firmamento ideale, magari non ben definito, persiste ancora nel Pd».
Non c’è un difetto genetico nel Pd?
«Ma fu lo stesso anche con Veltroni! Ferito il capo, il partito va in crisi. Il Pd è nato come federazione di gruppi dirigenti, priva di elaborazione culturale. Non c’erano linee divisorie visibili su cui schierarsi. Qualcosa c’è stato negli anni 90: la divisione tra la prospettiva di Michele Salvati e quella di Salvatore Biasco. Liberal e riformatrice la prima, neo-socialdemocratica la seconda. Non si è scelto, né si è fatta una sintesi tra i due punti di vista, perché ciò avrebbe disturbato i manovratori. Di qui anche la stravaganza del Pd in Europa, contortamente accanto al Pse, ma “diverso”. Insostenibile». Lei parla di Salvati e Biasco, allievi di Sylos Labini. Ma quale dev’essere il baricentro ideale in un partito che annovera un forte tratto di cattolicesimo sociale? «Ci possono essere delle mediazioni tra una sinistra liberal e una socialdemocratica. Quanto al cattolicesimo sociale, esso non può che dividersi tra adesione alla destra e scelta di sinistra, come nel resto d’Europa. Dopo la fine del confessionalismo e del collateralismo, non vedo problemi a riguardo in Italia. Senza dubbio, dal punto di vista analitico, il cattolicesimo pesa nel Pd, sia per via del Pci, che guardava in modo speciale ai cattolici, sia per via di Prodi, con la sua idea dell’Ulivo e del partito coalizionale. Ma a mio avviso i nodi da sciogliere sono quelli della “constituency”…».
Tradotto in prosa allude per caso ai gruppi sociali di riferimento del Pd? «Già, è esattamente questa la “constituency” di una partito, la sua ragion d’essere. Prima degli anni 80 i socialdemocratici rappresentavano in primo luogo la classe dei salariati. Poi, con i mutamenti economici, il “blocco” si è esteso a ceto medio dipendente, piccola impresa e individualismo di massa, con corredo di diritti civili. Ecco, da noi una neo-socialdemocrazia deve mettere ancora insieme tutte queste cose. E fare i conti con la forza del lavoro autonomo, decisivo in Italia, e che spinge il Paese a destra». Dunque, un progetto alternativo in economia, neokeynesiano, alternativo all’individualismo proprietario e al populismo?
«Certo, ma non si tratta tanto di contrapporsi, quanto di conquistare. La constituency ritrovata deve dar luogo a un partito, e a un blocco, non tanto “alternativo”, termine troppo totalizzante, bensì distinto e “distintivo”». Veniamo all’oggi. Segretario forte o reggente prima dell’inevitabile congresso?
«Mi sembra irrilevante. Decisivo è il congresso invece, vera arena di opzioni in lotta, tra cui scegliere. E qui veniamo alla natura del partito. Deve essere un’associazione di condivisione, in grado di esprimere classe dirigente, e non una passerella mediatica per leader. E il tutto in base a un progetto che traduca in valori gli interessi privilegiati. Partito di programma quindi, con feste e case del popolo magari, ma non affidato a obsolete sezioni, o al mito della rete. Troppo generico? D’accordo. Ma dopo la crisi del modello industriale ancora non scorgiamo la forma-partito del futuro».
Qualcosa lei lo intravede, con Barca, nella ripulsa del partito-stato distributore di risorse…
«Sì, e va detto no al partito-stato centrico, e sì a un partito-società, che esprima altresì classi dirigenti al vertice e in periferia, ma senza occupare capillarmente l’amministrazione divenendo forte senza legittimità». Segretario e premier: due figure che debbono coincidere, oppure no? «Dovrebbero coincidere a mio avviso, benché in Europa non sempre abbiano coinciso. Sarebbe il segno di una vera selezione dei gruppi dirigenti, a cominciare dal premier scaturito dalla contesa programmatica e che alla fine vince le elezioni ed esprime governo con relative piattaforme».

L’Unità 10.05.13

"Cig, dote dai fondi inutilizzati", di Giorgio Pogliotti

Il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga «il cui importo preciso poi vedremo», sarà coperto con «fondi del ministero del Lavoro e di altri ministeri non utilizzati»: lo ha spiegato il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, che ha confermato «l’intesa c’è, ma l’approvazione definitiva avverrà al prossimo Consiglio dei ministri». Dovrebbe essere di i miliardo la cifra che il governo potrebbe mettere a disposizione per assicurare la copertura per l’intero 20i3 alla platea stimata tra i 45omila e i 5oomila lavoratori che beneficiano del sostegno della Cigd.Si tratta di una somma inferiore rispetto ai 2 miliardi stimati dalle Regioni (si veda l’articolo in pagina) e dai sindacati. Dovrà essere sciolto in questi giorni il nodo relativo alle fonti di copertura per il finanziamento della cassa integrazione in deroga, che potrà contare anche sui circa 4 milioni di risorse, frutto dal taglio degli stipendi dei ministri a titolo di «contributo simbolico». L’ipotesi originaria, di procedere con una riduzione lineare delle dotazioni finanziarie disponibili per i ministeri, è stata esclusa dallo stesso ministro Saccomanni: «l’epoca dei tagli lineari è finita» ha detto intervistato su Lai. Un’altra ipotesi che ieri sembra aver preso corpo è quella di attingere ai 65o milioni destinati alle imprese per finanziare lo sgravio contributivo sui premi di produttività erogato con la contrattazione di secondo livello. Si potrebbe anche attingere ai fondi comunitari destinati alla formazione ancora disponibili. Nel mirino i circa 40o milioni destinati a Puglia, Campania, Calabria e Sicilia, le quattro regioni merii dionali che hanno un elevato numero di ore di cassa integrazione in deroga. L’ordine del giorno del primo consiglio dei ministri che riportava tra i temi in agenda il rifinanziamento della cassa in deroga ha creato aspettative nei sindacati. Il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, prima dell’inizio della riunione ha rivolto l’auspicio «che si trovi oggi una soluzione definitiva al problema della cassa integrazione in deroga in modo da disinnescare un clima già pesante di tensione sociale». Anche Serena Sorrentino (Cgil) attendeva «una risposta alla domanda sociale che rischia se non affrontata con tempestività e certezza di trasformarsi in disagio». Insieme alla cassa in deroga, la Cgil pone l’accento sulla mobilità in deroga e sui contratti di solidarietà, auspicando «una dotazione sufficiente affinché possano essere uno strumento in grado di limitare il ricorso agli ammortizzatori ed evitare i licenziamenti». Per Guglielmo Loy (Uil) «se le intenzioni del Governo partono da buoni propositi », la copertura di tali provvedimenti «non può certamente essere trovata nel ridurre le risorse destinate alla formazione, strumento principale per la ricollocazione dei lavoratori in difficoltà». Secondo Loy «nelle pieghe del bilancio dello Stato vanno trovate risorse adeguate, razionalizzando la spesa». e

Il Sole 24 Ore 10.05.13